(l’Espresso) Roma espressione del ministero d’amore di Pietro

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Le chiavi del perdono. L’amorevole potere del successore di Pietro

La basilica di San Pietro compie 500 anni. Lo storico dell’arte Timothy Verdon spiega quale messaggio trasmettono le pietre e le immagini della Roma dei papi

di Sandro Magister ROMA, 30 gennaio 2006 – La pubblicazione della prima enciclica di Benedetto XVI, “Deus Caritas Est”, è coincisa con la giornata finale della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che si tiene ogni anno in gennaio.

Il papa ha chiamato “dono della Provvidenza” tale coincidenza, dovuta a un ritardo nella preparazione e traduzione del testo.

Ma questa non è stata l’unica delle coincidenze.

Il 25 gennaio – celebrando i vespri nella basilica romana di San Paolo fuori le Mura assieme a rappresentanti di Chiese e comunità non cattoliche – Benedetto XVI ha fatto notare che quello era anche il giorno della conversione dell’apostolo Paolo.

Paolo e Pietro – la roccia – sono i due apostoli su cui è fondata la Chiesa di Roma.

E il papa, citando le prime parole e il tema della sua enciclica, ha detto:

“‘Deus caritas est’ (1 Gv 4,8.16), Dio è amore. Su questa solida roccia poggia tutta intera la fede della Chiesa. Si basa su di essa la paziente ricerca della piena comunione tra tutti i discepoli di Cristo. […] Al servizio di tale unità d’amore è posta la Chiesa di Roma che, secondo l’espressione di sant’Ignazio di Antiochia, ‘presiede alla carità’. Davanti a voi, cari fratelli e sorelle, desidero oggi rinnovare l’affidamento a Dio del mio peculiare ministero petrino, invocando su di esso la luce e la forza dello Spirito Santo, affinché favorisca sempre la fraterna comunione tra tutti i cristiani”.


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Come è noto, però, è proprio il “ministero petrino” uno degli ostacoli maggiori all’unità tra i cristiani.

Il potere dei papi è respinto dalle Chiese e dalle comunità cristiane non cattoliche proprio in quanto potere, nella forma in cui s’è concretamente configurato nei secoli.

Questa configurazione non è solo dottrinale e teologica. È anche architettonica, artistica.

Si riflette massimamente in quell’insieme di chiese, palazzi, mosaici, sculture, pitture che danno il volto alla Roma dei papi, il cui primo emblema è la basilica di San Pietro.

La basilica di San Pietro – quella che oggi si ammira e ha sostituito la precedente basilica edificata sulla tomba dell’apostolo dall’imperatore Costantino – compie quest’anno cinquecento anni di vita. Era il 1506 quando papa Giulio II diede il via alla sua costruzione.

Ed è questa un’altra coincidenza dell’avvio di pontificato di Benedetto XVI.


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Ma in che senso la basilica di San Pietro e la Roma dei papi sono immagini di potere?

In realtà il messaggio che esse trasmettono è di potere e perdono, indissolubilmente congiunti.

Potere e perdono: è questa la lettura che dà della Roma dei papi uno dei maggiori storici dell’arte cristiana, Timothy Verdon, in un magnifico libro su “La basilica di San Pietro” dalle origini a oggi, uscito in Italia alla fine dello scorso anno.

Timothy Verdon, nato in New Jersey nel 1946, è sacerdote a Firenze. Formatosi come storico dell’arte alla Yale University, vive da trent’anni in Italia e dirige l’ufficio dell’arcidiocesi di Firenze per la catechesi attraverso l’arte. È inoltre consultore della pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, fellow del Center for Renaissance Studies della Harvard University, docente alla Stanford University e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. Benedetto XVI l’ha invitato al sinodo sull’eucaristia come esperto.

Il brano che segue è tratto dal primo capitolo di “La basilica di San Pietro”. Esso mostra come il potere petrino incarnato nei secoli dai capolavori della Roma cristiana fa tutt’uno con il “Deus caritas est” predicato dall’attuale papa.


Dalla Roma dei Cesari a quella dei papi

di Timothy Verdon


Il Vaticano è un luogo di paradossi. Questo leggero rialzo nel terreno sulla riva destra del fiume Tevere, che ospita i resti di un pescatore quasi analfabeta, ha per baluardo e ingresso il mausoleo del più colto dei Cesari, Adriano, che regnò sull’impero romano dal 117 al 136 dopo Cristo.

Ad ovest del mausoleo, l’immensa piazza che oggi accoglie pellegrini e turisti ricopre in parte un circo costruito da altri imperatori, Caligola e Nerone, a partire dal 37 dopo Cristo.

E al centro della piazza – in cima all’obelisco trasportato dall’Egitto ed eretto dai romani in segno della loro conquista dell’impero dei faraoni – vi è un’urna con frammenti della croce di quel Cristo, giustiziato intorno all’anno 30, per seguire il quale il pescatore fu crocifisso in questo circo 34 anni dopo.

Le parole chiave sono “dopo” e “Cristo”. Il Vaticano si pone come segno di un mondo “dopo Cristo” in cui il paradosso diventa norma – un mondo capovolto. L’umile pescatore che ora trionfa là dove morì da criminale è egli stesso figura di capovolgimento. Simone chiamato Cefa o Pietro, il più importante dei primi seguaci di Gesù, condannato a morire come il suo maestro, in croce, chiese di essere posizionato con la testa all’ingiù, capovolto. Non si ritenne degno di uscire da questo mondo a testa alta, perché in un momento di terribile debolezza aveva negato di conoscere Cristo. Malgrado il suo tradimento, però, Cristo l’aveva perdonato, confermando ed allargando il potere già datogli, ed anche questo fu una sorta di capovolgimento.

Sono questi, infatti, i principali messaggi comunicati dal luogo: perdono e potere.

Il Vaticano esprime il perdono mediante segni di potere, come Gesù rimetteva i peccati e poi dimostrava di averne la potenza mediante miracoli. In Vaticano il perdono è potere, secondo le parole di Gesù al pescatore Pietro: “A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Matteo 16, 19).

Nel linguaggio arcaico usato da Gesù, avere le “chiavi del regno” significa avere il potere su di esso, e “legare” e “sciogliere” significano praticamente “condannare” e “assolvere”. Il potere che Cristo ha dato a Pietro, e che il grandioso complesso di chiese e palazzi costruito intorno alla tomba del pescatore vuole comunicare, è precisamente il potere di rimettere i peccati, di perdonare.

Può sembrare strano insistere sul potere in un sistema religioso che, nei suoi scritti sacri, privilegia invece la mitezza, l’offrire l’altra guancia e l’andare al sacrificio senza porre resistenza. Eppure, trattandosi del Vaticano, l’argomento “potere” è inevitabile, anzi centrale, perché tutto in Vaticano ne parla: le titaniche dimensioni degli edifici, lo sfarzo degli arredi, la ieratica solennità dei riti.

Dal momento poi che proprio in Vaticano e al servizio dei papi sono stati ravvivati i linguaggi dell’architettura e dell’arte antiche – nella mole colossale della basilica, nella forza sovrumana delle figure affrescate nella Sistina e nella “grazia divina” di quelle nelle Stanze (gli appartamenti di stato rinascimentali) – bisogna dire che la stessa idea del potere nella cultura europea, nonché la sua rappresentazione per immagini, nascono qui. Qui le più importanti opere dei più innovativi artisti dell’alba dell’era moderna – i capolavori di Bramante e Michelangelo, Raffaello e Bernini – definiscono il senso della civiltà cristiana in termini di inequivocabile potere.


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Il Vaticano si trova a Roma, capitale del più esteso impero che la storia abbia conosciuto: città il cui stesso nome era sinonimo di potere universale. Nei primi quattro secoli di vita della comunità cristiana, la frase di Gesù che conclude il Vangelo di Matteo – “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” – doveva suonare come una sfida ai rappresentanti del potere romano, gli imperatori, considerati non solo reggenti del mondo ma semi-dei.

Nello stesso modo, la continuazione di quella frase di Gesù – “Andate dunque ed ammaestrate tutte le nazioni” – doveva evocare una missione civilizzatrice paragonabile, nella sua universalità, solo a quella dell’impero romano. E ancora, in una Roma che era ritenuta “città eterna”, la promessa “Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” doveva sembrare una profezia che s’incarnava nella storia: l’eternità di Roma e dei suoi monumenti inabitata ormai dall’Eterno in persona.

Ancor oggi il pellegrino o turista in piazza San Pietro è portato a collegare il Vaticano con la Roma antica.

Arrivando in Vaticano dopo aver già visto il Colosseo e i Fori Imperiali, il Circo Massimo e il Pantheon, ritrova il medesimo splendore e la stessa titanica grandezzza nella basilica con la sua piazza e nel Palazzo Apostolico con le sue aule affrescate e logge chilometriche. Ha l’impressione che i ruderi della capitale antica siano rinati a vita nuova sotto l’egida del Cristo Risorto che si erge sulla piazza, colui che nella visione di Giovanni annunciava: “Ecco io faccio nuove tutte le cose” (Apocalisse 21, 5).

Tale impressione non è dovuta solo all’ammodernamento del complesso vaticanense nel Rinascimento, ma risale ai primi del IV secolo, alla colossale basilica fatta erigere sulla tomba di Pietro dall’imperatore Costantino. Le quattro file di colonne marmoree della basilica, a definizione di cinque navate interne, nonché la lunghezza di 118 metri e l’altezza di 32 dell’aula centrale illuminata da undici grandi finestre per parte: il tutto ricordava ai visitatori del IV secolo le grandi aule civiche della Roma imperiale. Rafforzava il senso di un’ininterrotta continuità tra la città dei Cesari e quella dei papi.

Sin dall’era patristica i papi hanno coltivato l’immagine di ininterrotta continuità con l’impero, in base a una visione della storia che ritiene provvidenziale la nascita e prima diffusione della Chiesa in un epoca culturalmente omogenea e all’interno di un sistema geopolitico universale. La lingua comune, il comune codice di leggi e comportamenti, la mirabile rete viaria che facilitava le comunicazioni e gli spostamenti, e l’attribuzione al potere centrale di una missione civilizzatrice sono elementi costituitivi di questa visione, di cui i papi sono i principali architetti e il Vaticano il luogo emblematico.


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L’arte cristiana della Roma del IV-V secolo illustra questa interpenetrazione di “romanitas” e cristianesimo.

Ad esempio, il grande mosaico in una chiesa ricavata da una preesistente aula termale, Santa Pudenziana, colloca Cristo sul trono imperiale nell’esedra di un palazzo oltre le cui mura sono visibili i monumenti dell’antica capitale. Questo “Christus imperator” troneggia tra apostoli togati, con ai lati del trono i santi Pietro e Paolo incoronati da figure femminili che rappresentano, rispettivamente, la “Ecclesia ex circumcisione” (i cristiani venuti dall’ebraismo, perché la missione di Pietro era stata in primo luogo agli ebrei) e la “Ecclesia ex gentibus” (i credenti venuti dal paganesimo: Paolo era inviato ai pagani). Sopra le figure e la città, vediamo poi – tra i simboli dei quattro evangelisti – una grande croce gemmata che riassume il senso delle trasformazioni che l’immagine attesta: là dove il potere dei Cesari aveva cercato di crocifiggere la nuova fede, ora emergono concrete espressioni storiche, politiche e sociali del potere di Cristo risorto. Gli apostoli, presentati come senatori romani, diventano i nuovi “patrizi”, e la città – l’antica capitale di un impero che abbracciava il mondo conosciuto – rivela alfine il significato della sua vocazione universalista, offrendo il suo splendore come sfondo per il trionfo di Gesù Cristo.

Un’altra immagine suggestiva in questo senso è il mosaico absidale della basilica dei Santi Cosma e Damiano, dove il Cristo dell’Ascensione si staglia contro un drammatico cielo crepuscolare. Eseguito in un’aula ricavata dal complesso voluto da Vespasiano a commemorazione della guerra giudaica, il mosaico esprime la sovrapposizione della Chiesa, nuovo Isarele vittorioso, all’impero ormai tramontato. A pochi passi dall’Arco di Tito, con le sue raffigurazioni di prigionieri giudaici dietro il carro trionfale del figlio adottivo di Vespasiano e conquistatore di Gerusalemme, ecco Cristo che “ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini” (Efesini 4, 8; cfr. Salmo 68, 19). La posa di Cristo mentre ascende al cielo riprende quella attribuita agli imperatori stessi: ad Augusto, ad esempio, nella celebre statua conservata nei Musei Vaticani.

Nel mosaico della basilica dei Santi Cosma e Damiano come in quello di Santa Pudenziana, il trionfo romano di Gesù coinvolge poi la comunità da lui fondata. Nei due mosaici, infatti, vediamo rappresentanti della Chiesa vicini a Cristo ed associati al suo potere, perché, tra i doni che il Risorto distribuisce agli uomini sono anche i ruoli ecclesiali: “È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo” (Efesini 4, 11-12).

In entrambi i mosaici, poi, in prima posizione tra quelli che Cristo ha stabilito con un ruolo a servizio degli altri, vi sono Pietro e Paolo, figure dell’autorità trasmessa dal Risorto alla Chiesa istituzionale.


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Sin dai primi secoli, insomma, la Chiesa romana s’identifica con colui che, immolato, è ora “degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione” (Apocalisse 5, 12). Ha occupato, trasformandoli, gli spazi non solo topografici e architettonici ma soprattutto concettuali dell’antico impero, riconoscendo in questo stesso processo una forma di rivelazione divina – come se Dio, oltre a manifestarsi nella grandezza morale d’Israele, si fosse manifestato anche nello splendore materiale di Roma. Anzi, la marmorea magnificenza della capitale dell’impero è finita per divenire immagine della Gerusalemme celeste, le cui mura saranno rivestite di pietre rare e preziose (Isaia 54, 11-12; Apocalisse 21, 18-21) – come se Cristo, venuto non per abolire ma adempire la legge ebraica (Matteo 5, 17-19), avesse inteso similmente adempire la gloria di Roma, purificandone il senso storico, completandone la missione culturale.

Infatti, Roma è per antonomasia la città della “apocalisse” – cioè dello svelamento del senso nascosto della storia – e dal V secolo in poi i programmi iconografici delle più importanti chiese romane hanno collocato messaggi apocalittici davanti agli occhi dei credenti. Cristo nella toga dorata rivelato come “Dominus dominantium”, Signore dei signori, seduto sul trono o in piedi col rescritto del suo potere divino in mano e, davanti a lui, i ventiquattro vegliardi che giorno e notte l’adorano, bruciando incensi che simboleggiano le preghiere dei santi: sono queste le immagini dominanti le absidi delle chiese prima accennate e successivamente di San Pietro, San Paolo fuori le Mura e San Giovanni in Laterano.

In diverse basiliche, poi, queste scene rivelatrici dell’eternità completavano grandiosi cicli storici sulle pareti laterali, con episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, insistendo così sulla gloria celeste come compimento della storia terrestre. A San Pietro, nel Medioevo, questo messaggio sarà rappresentato anche all’esterno, con un monumentale mosaico sulla facciata della basilica, mettendo davanti agli occhi di fedeli e pellegrini l’Agnello, i vegliardi e la moltitudine senza numero di coloro che stanno “in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide” (Apocalisse 7, 9).


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Anche questa caratteristica dell’antica capitale dell’impero, la moltitudine, assumerà connotati apocalittici nella Roma cristiana. La città i cui teatri ed anfiteatri avevano accolto folle immense diventa la Roma papale che regolarmente accoglie moltitudini di uomini e donne “di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Apocalisse 7, 9). Fenomeno, questo, che spiega la creazione – prima al Laterano e poi al Vaticano – di vasti spazi capaci di accogliere le folle di pellegrini provenienti da tutto il mondo: uno sforzo plurisecolare che si risolve dal XVI secolo in poi con la nuova basilica vaticana coronata dalla cupola, con il colonnato del Bernini e, nel XX secolo, con l’aula delle udienze ideata da Pierluigi Nervi; anche questo rientra nel senso di continuità con l’antico impero e ne costituisce l’elemento forse più impressionante. Oggi come in passato, chiunque visiti Roma, contemplando prima la maestosità degli spazi di vita collettiva della città antica – i fori, gli anfiteatri, le terme – e poi piazza San Pietro gremita nell’occasione di qualche celebrazione liturgica, non può sfuggire dall’impressione di qualcosa d’eterno: qualcosa che, nonostante epocali mutamenti di cultura e fede religiosa, in questo luogo continua nel tempo.

Tale impressione viene poi rafforzata da altri fattori che condizionano l’esperienza dei visitatori del Vaticano. Il primo deriva dal carattere stesso della moltitudine che riempie la basilica e la piazza in determinate occasioni: è un carattere liturgico, e più che di moltitudine dovremmo parlare di assemblea. Le ordinate file di cardinali e vescovi attorno al papa, assieme alle novemila persone che possono trovare posto nella basilica e alle duecentomila nella piazza, tutte hanno scelto di partecipare a riti che esprimono la loro fede. Una tale confluenza di autonomie personali – un tale convergere di aspirazioni individuali – eleva lo spirito oltre il presente e lo svincola da ogni dimensione solamente locale: i partecipanti hanno così tante provenienze e tante storie distinte che l’assemblea sembra affondare le sue radici nel mondo intero.

Il fatto poi che l’assemblea qui radunata celebri un rito, e specificamente un rito liturgico cristiano, rafforza al massimo tale senso di continuità. La liturgia cattolica – in cui Cristo è creduto realmente presente ed operante nella persona dell’officiante come nella sostanza dell’azione compiuta – abolisce il limite temporale, aprendo il presente al passato remoto come al futuro ultimo. E sul piano della “traditio” – sul piano cioè di un modo di strutturare la vita religiosa trasmesso da padre a figlio attraverso molti secoli – la liturgia specificamente papale, il cui celebrante è considerato successore lineare dell’apostolo Pietro, mette quasi tangibilmente a contatto con il passato in cui Pietro ricevette potere da Cristo, come anche con il futuro che tale potere di legare o sciogliere dal peccato determina.


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Simili intuizioni, che al non credente possono sembrare laboriose ed astruse, ai fedeli appaiono semplici e chiare. Come avvenne il giorno della prima Pentecoste, quando, ascoltando la predicazione di san Pietro sul perdono dei peccati, molti si sentirono trafiggere il cuore (Atti 2, 37), così i cattolici davanti al successore di Pietro: la ricerca di perdono schiarisce lo sguardo di chi partecipa con fede alle grandi liturgie nella basilica vaticana e nella piazza. Solo Dio può perdonare, ma in Cristo Dio ha fatto entrare il suo perdono nella storia, e in Pietro Cristo ha esteso tale potere, che perdura nei suoi successori, i vescovi di Roma o papi. Prendere parte ai riti celebrati dal successore di Pietro, nel luogo dove l’impero che l’aveva messo a morte ha esso stesso trovato perdono, ha pertanto un impatto profondo sulle persone. È come se fossero le stesse pietre dell’antica capitale a parlare.

Quando a Pasqua, dalla facciata della Basilica il successore di Pietro pronuncia sulla folla in Piazza le parole “urbi et orbi – la benedizione papale “alla città e al mondo” – tutti gli elementi s’intrecciano e si sovrappongono: è benedetta la città nell’intera gamma della sua vita pagana e cristiana, da una vocazione unificatrice a servizio di tutte le razze e tutti i popoli; ed è benedetto il mondo – non solo quello geografico un tempo retto dai Cesari, ma il mondo interiore d’ogni uomo che col perdono rinasce alla speranza.

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Il libro:

Timothy Verdon, “La basilica di San Pietro. I papi e gli artisti”, Mondadori, Milano, 2005, pp. 210 con 155 illustrazioni, euro 20,00.

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L’omelia di Benedetto XVI ai vespri “ecumenici” del 25 gennaio 2006, nella basilica di San Paolo fuori le Mura:

> “In questo giorno, nel quale si celebra…”