(l’Espresso) Pio XII: la santità responsabile

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Un figlio della Chiesa di Pio XII rompe il silenzio sulla sua santità


La beatificazione di papa Pacelli torna a dividere. Tra ebrei e cattolici c’è chi la rifiuta. Pietro De Marco la difende. E spiega qual è il vero miracolo compiuto da questo papa

di Sandro Magister

 ROMA, 27 gennaio 2005 – Nei rapporti tra gli ebrei e il papato le luci si alternano alle ombre.

Un grande momento di luce è stato, il 18 gennaio, l’incontro in Vaticano tra Giovanni Paolo II e 130 rabbini ebrei di diversi paesi.

La finalità dell’incontro – voluto dai rabbini e organizzato dalla Pave the Way Foundation di New York presieduta da Gary Krupp – era di ringraziare il papa per il suo straordinario impegno nel riconciliare ebrei e cristiani e nel difendere il popolo giudaico fin da quando era giovane prete in Polonia. Dopo avergli detto “grazie” e “shalom” con accento commosso, tre rabbini hanno benedetto Giovanni Paolo II con formule in ebraico e in inglese.

La sera precedente, in una conferenza a Roma al centro Pro Unione, il rabbino Jack Bemporad del Center for Interreligious Understanding ha affrontato la questione di Pio XII e dei suoi discussi “silenzi” sugli sterminii compiuti dai nazisti.

“Pio XII fece quello che giudicava doveroso fare”, ha detto. “Guardiamo a cosa accadde in Grecia, a Tessalonica, dove il 96 per cento degli ebrei furono arrestati e deportati nei campi di concentramento. Lì i vescovi sia cattolici che ortodossi protestarono pubblicamente, e furono arrestati e deportati nei campi anche loro”.

Anche dalla Polonia i vescovi chiesero ripetutamente al papa di elevare una pubblica protesta contro le uccisioni di preti e suore. Ma egli non lo fece. “Dobbiamo quindi supporre che Pio XII fosse anticattolico poiché non condannò i massacri dei cattolici in Polonia?”.

Bemporad ha concluso che è estremamente difficile esprimere giudizi su Pio XII, poste le minacce estreme che dovette fronteggiare. “Non era chiaro nemmeno chi avrebbe vinto la guerera, né se la Chiesa sarebbe potuta di sopravvivere”.

Gli ha fatto eco un altro rabbino della delegazione, Moses A. Birnbaum del Plainview Jewish Center di Long Island, New York: “Non dimentichiamo che numerosi ebrei ringraziarono Pio XII dopo la guerra”. Gli ebrei, ha aggiunto, dovrebbero star fuori dalla discussione sulla possibile sua beatificazione.


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Invece, proprio contro la beatificazione di Pio XII si era espresso pochi giorni prima il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni.

Prendendo spunto da nuovi documenti vaticani apparsi sulla stampa a proposito dei bambini ebrei ospitati negli anni della guerra da famiglie e istituti cattolici – documenti da lui definiti “terribili” – l’11 gennaio Di Segni ha detto all’agenzia Apcom:

“La Chiesa ha tutti i diritti di elevare agli altari chi ritiene opportuno. Semmai il problema diventa nostro, perché se la Chiesa beatifica non fa altro che indicare un modello di perfezione spirituale ai cristiani. Di fronte a una Chiesa che identifica come ideale spirituale un soggetto che ha avuto determinati comportamenti, noi [ebrei] possiamo, come conseguenza, anche decidere se e come dialogare”.

Negli stessi giorni, contro la beatificazione di Pio XII – avviata da Paolo VI nel 1965 – si era pronunciato anche lo storico cattolico Alberto Melloni, dell’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna fondato da don Giuseppe Dossetti e presieduto da Giuseppe Alberigo. Ha scritto sul “Corriere della Sera” del 9 gennaio:

“Un processo [di beatificazione] non è un dogma al quale dovrebbero piegarsi preventivamente gli storici, i cattolici e soprattutto gli ebrei, per non ostacolarne lo sviluppo”.

Pio XII, a giudizio di Melloni e Alberigo, fu “un papa solitario e calcolatore, nella cui figura gli elementi politici dominano per logica interna”.

Curiosamente, però, sull’ultimo numero della rivista diretta dagli stessi Alberigo e Melloni, “Cristianesimo nella Storia”, compare un saggio di Kenneth L. Woodward che registra i giudizi unanimemente positivi su Pio XII che comparvero sulla stampa in lingua inglese dopo la sua morte nel 1958.

“Per esempio – scrive Woodward – un editoriale del ‘New York Times’, oggi uno dei più impegnati forum delle critiche a [papa Eugenio] Pacelli, esaltò il papa per il suo opporsi ai nazisti […] e ne descrisse l’intensa spiritualità”. L’unica critica che il più critico dei giornali dell’epoca, il liberal ‘The Reporter’, rivolse al papa defunto fu “d’aver trascurato di riempire i vuoti nel collegio dei cardinali”.

Woodward aggiunge che perché i giudizi su Pio XII cambiassero “bisognava aspettare altri cinque anni e la pubblicazione [nel 1963] del dramma di Rolf Hochhuth, ‘il Vicario’, generalmente considerato come l’evento che ha precipitato i mutati e largamente negativi pronunciamenti su Pacelli dei giorni nostri, almeno in alcuni ambienti”.


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Insomma, Pio XII continua a essere segno di contraddizione, dentro la Chiesa cattolica e fuori. E lo sarebbe ancor più qualora fosse proclamato beato.

Ma dietro la cortina delle polemiche, rischia di sparire il Pio XII autentico. E resta inafferrabile la sua santità.

Nella nota qui sotto Pietro De Marco – che è stato figlio della Chiesa di Pio XII – penetra oltre questo muro di incomprensione e traccia di questo papa un profilo libero dagli schemi. Libero e liberante.

Pietro De Marco, specialista in geopolitica religiosa, è professore all’Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. Ha scritto questa nota per www.chiesa:

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Per una valutazione di Pio XII

di Pietro De Marco


La mia formazione cristiana è avvenuta nella Chiesa di Pio XII. I miei parroci, i miei insegnanti di religione erano uomini della Chiesa di Pio XII. Non mi fu trasmesso alcun atteggiamento antisemita, a meno che non si debba ritenere che Credo, Catechismo, Messa, Vangeli lo fossero o lo siano. Ho pregato per anni ogni venerdì santo per i “perfidi Judaei”, sapendo fin da giovane che “perfidus” significa nel latino cristiano “incredulo”, rispetto al Cristo.

Il mio insegnante liceale di religione e mio direttore spirituale – mio e di tantissimi altri a Firenze – fino alla sua morte, don Raffaele Bensi, era un prete della Chiesa di Pio XII, per quanto formato al sacerdozio nei due pontificati precedenti. Egli fu prete della Chiesa di Pio XII anche nell’intensa azione di aiuto ad ebrei e uomini della Resistenza svolta durante la guerra.

Da don Bensi ho però appreso che, con lo stesso coraggio e libertà con cui la Chiesa cercò di aiutare resistenti ed ebrei, essa intese salvare la vita anche agli uomini della parte opposta, quando sconfitti diventarono bestie cui dare la caccia.

La Chiesa di Pio XII era ancora la Chiesa sovrana nel proprio giudizio sulla storia, nelle decisioni che investono i propri uomini, negli orizzonti di scelta ultima cui questi vengono chiamati. Può sbagliare, negli uomini come in questo o quell’atto o giudizio; ma trae capacità di giudizio e di giurisdizione dal proprio fondamento soprannaturale: e in ciò nessuna istanza diversamente fondata può sostituirla o vincolarla. Questo è il senso della sua “perfectio”, che è strettamente connessa al martirio, poiché la collisione con altri poteri – anche i più legittimi – è certa.

Aggiungo che l’umanità provata e consapevole che uscì dalla guerra e dalla sua catena di ritorsioni e massacri capiva il senso di questo illimitato e sovrano esercizio della carità (anzi del perdono) della Chiesa, per cui il giorno prima si era salvato un partigiano e il giorno dopo si volle sottrarre all’esecuzione sommaria il tedesco o il fascista. Diritto di asilo, diritto di legare e sciogliere, segno della superba e mite giustizia di Dio.

Don Bensi ci parlò con ammirazione e, insieme, distacco del libro “Esperienze pastorali” del “ribelle” don Lorenzo Milani. Ma lo stesso Milani, forse il suo figlio prediletto, era nato prete e restò sempre nella dialettica austera, difficile, virile, della Chiesa di Pio XII; non fu mai “conciliare”. Anche Bensi era insofferente su mode e risonanze della stagione conciliare; ci insegnò a tenere la mente e il cuore vigili su parole d’ordine, su “svolte” e “conquiste”, sempre equivoche in una tradizione religiosa.

Così, anche nella mia stagione di giovane cattolico legato ai progetti di “reformatio Ecclesiae” e molto vicino alla sinistra politica – gli anni Sessanta e Settanta, per capirci – una trascendenza non spiritualistica della Chiesa e il suo primato ultimo sulla città degli uomini sono rimasti per me dati irrinunciabili. Un primato anche “sociale”, nel senso proposto da Henri De Lubac in “Catholicisme”. La Chiesa-istituzione come forma irrinunciabile di manifestazione del Santo.

Assieme alla Chiesa-istituzione e a Roma che la rappresenta, neppure il “bianco Padre” della mia adolescenza è stato mai cancellato in me da svolte o rivolte. Il mio legame cattolico con papa Pio XII ha resistito alla prova degli anni Sessanta. L’aggressione contro di lui compiuta dal “Vicario” di Hochhuth mi parve – e mi pare ancora – spregevole; ma in verità parve così a quasi tutti, anche nel mondo cattolico progressista. Va detto, però: le persone nate come me nel periodo della guerra, se non sono state poi ideologicamente “rifatte”, conservano un ineguagliabile senso della complessità della vita quotidiana e della storia, e una insofferenza antiretorica. Anzi, conservano un senso e un bisogno di verità che poco ha a che fare con l’astratto infierire, sia venti sia sessant’anni dopo, su vicende nel frattempo diventate incomprensibili, anche quando meglio note nei dettagli.

Non si sarebbe salvato dalla riprovazione di don Bensi chi gli avesse detto che Pio XII doveva “parlare”, “testimoniare”, “incarnare la Parola”. Il “bianco Padre” fece ciò che la sua coscienza gli ordinò: ed era la coscienza di un papa, cioè di un responsabile vero e non retorico della Chiesa universale e della salute spirituale e in quel momento fisica di tanti uomini. Pio XII volle e seppe evitare d’essere impedito di agire. Ed entro lo spazio di guida, di governo, così salvato, operò realmente per il bene di molti, credo in misura enorme.

Il confronto con Gandhi – nuovamente proposto in questi giorni – è insostenibile. La Chiesa, il popolo cristiano, non sono una nazione, non si mobilitano come una grande etnia; l’esercito tedesco di occupazione non è paragonabile alle truppe inglesi; i capi britannici non erano le SS. Papa Eugenio Pacelli non ebbe decenni davanti a sé, ma una scansione serrata di giorni ognuno dei quali poteva essere l’ultimo per il suo governo. Né Gandhi – mi arrischio a dire – ha la complessità di un santo cristiano; in lui circola dall’inizio il vangelo semplificato di Tolstoi. È insensato immaginare il papa alla testa di una manifestazione non violenta in piazza San Pietro, in un qualsiasi giorno del 1943. Tale esibizione, posto che fosse pensabile dalla mente rigorosa di Pio XII, non avrebbe sgomentato l’alto comando tedesco.

Furono invece la impenetrabile nitidezza e la capacità di governo di papa Pacelli a fermare Hitler davanti ai cancelli della Città del Vaticano. Su Hitler non potevano avere successo le parole ma lo ebbero, probabilmente, sia l’evidenza del legame tra il Vicario di Cristo – sì, il Vicario! – e il suo popolo universale, ovvero uno straordinario fatto di carisma politico-religioso, sia il timore che porre le mani sul pontefice avrebbe avuto su di lui, Hitler, una portata delegittimante, sconsacrante, non solo presso i popoli cattolici.

Insomma, l’unico fondamento e l’unico spazio di azione politica rimasto a Pio XII di fronte a Hitler era la propria persona, come “corpo del papa”, e il proprio carisma d’ufficio. Li volle e li conservò liberi e operosi, per quanto gli fu possibile. La libertà di Pacelli fu la residua “libertas Ecclesiae” e questa rappresentò, e salvò, la vita di molti.

Troppo semplice è pretendere oggi – magari chiamando a controesempio il sacrificio di padre Kolbe – che Pacelli, in quel frangente, andasse incontro al personale “martyrium”. Il martirio sarebbe stato solo una liberazione dagli oneri dell’ufficio, dall’esercizio quotidiano del carisma. Ho riletto ancora una volta l’”Assassinio nella cattedrale” di T.S. Eliot. Pubblicato e rappresentato nel 1935, non so se Pacelli lo conoscesse allora. Poco prima della morte il protagonista, Tommaso Becket, affronta le antiche tentazioni (beni indegni ma concreti, “real goods, worthless but real”, come egli dice) e le nuove, presentate all’arcivescovo dall’estremo Tentatore, se stesso. Di fronte alla tentazione ultima, quella della santità certa mediante il martirio, Tommaso esamina e sceglie il subire, ovvero il non-agire: né andare incontro né sottrarsi al martirio.

Pacelli scelse l’agire. Ma tra lui e Becket vi è differenza. Tommaso per risarcire il sangue e il vuoto lasciato a Canterbury dalla propria, indifesa, offerta di sé agli assassini può rinviare al papa. Ma Pacelli “è” il papa, e non vi è altra istanza ordinatrice superiore a lui sulla terra.

In Pio XII si manifesta, dunque, l’eroicità di chi opera nell’estrema responsabilità, nel caso d’eccezione: è la santità della roccia, la meravigliosa santità cattolica che sgorga dalla decisione e non dall’omelia. Santità che, magari dopo il tormento, sa di non potersi arrestare al tormento e all’indecisione.

Il miracolo di Pio XII è la casa sulla roccia (Mt 7, 24) che egli conservò integra nel silenzio e in virtù del silenzio, capace perciò di ospitare e proteggere, laddove le parole l’avrebbero distrutta.

Certo, Pacelli niente ha a che fare, anche per la sua nascita aristocratica, con la “clasa discutidora” dell’invettiva celebre di Donoso Cortés. Della pericolosa vacuità della chiacchiera rivoluzionaria Pacelli aveva già avuto esperienza da nunzio in Germania, a Monaco, nel 1919.

Razionalità, incarnazione nel ruolo di guida – “pasce oves meas” –, opere: anche per tutto questo il “dolce Cristo in terra” guardò l’orrore con occhi che nella mia mente non assomigliano, per fortuna, a quelli delle reincarnazioni cristiche dostoevskiane che piacciono ai letterati. Un modello di santità né sorridente, né utopizzante, né sacrificale.

Per questo, anche, è ricchezza per noi – ed è un dono della “complexio oppositorum” cattolica – che la santità di Pio XII sia così, e che la Chiesa intenda proporcela. Sugli altari, sarà un altissimo modello di responsabilità e razionale rigore carismatici, dei quali abbiamo un tremendo bisogno.

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Per altri particolari sull’incontro del 18 agennaio 2005 tra 130 rabbini ebrei e Giovanni Paolo II, vedi la Newsletter di John L. Allen, corrispondente da Roma del “National Catholic Reporter”:

> “The Word from Rome”, January 20, 2005