(l’Espresso) La convivenza pacifica passa dalla conoscenza

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C’è un islam pacifico alle foci del Gange

A insegnarlo è un filosofo musulmano dell’università di Dhaka, a fianco a fianco con docenti cristiani, ebrei, buddisti, induisti. Ecco una sua intervista, con un missionario cattolico

di Sandro Magister ROMA, 15 maggio 2006 – Nel suo primo discorso importante a esponenti musulmani, pronunciato a Colonia il 20 agosto 2005, Benedetto XVI volle rivolgersi in particolare agli “educatori”. Disse in quell’occasione il papa:

“Voi guidate i credenti nell’islam e li educate nella fede musulmana. L’insegnamento è il veicolo attraverso cui si comunicano idee e convincimenti. La parola è la strada maestra nell’educazione della mente. Voi avete, pertanto, una grande responsabilità nella formazione delle nuove generazioni. Insieme, cristiani e musulmani, dobbiamo far fronte alle numerose sfide che il nostro tempo ci propone. Non c’è spazio per l’apatia e il disimpegno ed ancor meno per la parzialità e il settarismo”.

Esistono oggi nel mondo islamico educatori che già attuano questa speranza invocata da Benedetto XVI? La risposta è sì.

Uno di questi è un musulmano del Bangladesh. Il suo nome è Kazi Nurul Islam. Ha creato e dirige nell’università di Dhaka, la capitale, un dipartimento dedicato alle religioni mondiali, nel quale le principali religioni sono insegnate da docenti che professano la stessa fede da essi insegnata. Un sacerdote cattolico laureato in teologia insegna il cristianesimo, e lo stesso vale per l’islam, l’induismo, il buddismo e l’ebraismo: unico esempio del genere, nel mondo musulmano. Kazi Nurul Islam è sposato con Azizun Nahar Islam, direttrice del dipartimento di filosofia nella medesima università.

Il Bangladesh è uno dei più popolosi paesi musulmani del mondo. Il 10 per cento della popolazione sono indù, mentre i cristiani sono una piccolissima minoranza, di appena 4 su mille.

Lo scorso 17 agosto, tre giorni prima che il papa pronunciasse a Colonia il discorso sopra citato, organizzazioni terroristiche fecero esplodere contemporaneamente in vari luoghi del Bangladesh 400 bombe, facendo tre morti e numerosi feriti, e seminando molta paura.

Ma più che per le bombe – e per le minacce di morte che lui stesso ha ricevuto – il professor Kazi Nurul Islam si dice preoccupato per l’aumento nel suo paese del fanatismo islamico, propagato in centinaia di madrasse, le scuole del Corano per ragazzi e giovani.

A questo indottrinamento fanatico, Kazi Nurul Islam contrappone “un’educazione alla convivenza pacifica e armonica tra le diverse tradizioni religiose attraverso la conoscenza dell’altrui fede. Una conoscenza non soltanto intellettuale, ma esistenziale, che nasce dall’incontro concreto con l’altro”.

Sono le parole, queste ultime, di un missionario cattolico che ha incontrato più volte il professor Kazi Nurul Islam.

Da questi incontri è nata la seguente intervista, pubblicata in Italia sul numero di maggio di “Mondo e Missione”, il mensile del Pontificio Istituto Missioni Estere al quale l’intervistatore, padre Francesco Rapacioli, appartiene:


”È l’ignoranza la madre dell’odio”

Intervista a Kazi Nurul Islam


D. – Professor Kazi Nurul Islam, come è nata in lei l’idea di fondare nell’università di Dhaka un dipartimento delle religioni?

R. – Devo rifarmi alla mia storia familiare, a un’esperienza che ha segnato per sempre il destino di mio padre e il mio. Una volta, ero ragazzo, chiesi a mio padre verso quali studi indirizzarmi. Mi rispose: “Io sono nato in una famiglia musulmana, ma, trascorsi i primi anni della mia vita, ho ricevuto il latte materno da una donna indù. In questo paese queste due comunità si odiano reciprocamente. Se tu potrai in qualche modo aiutare la comunità musulmana e quella indù a convivere pacificamente, farai di me la persona più felice al mondo”. In quel momento ho fatto una specie di promessa che ha segnato tutte le mie scelte professionali successive e la mia vita.

D. – Quali studi ha intrapreso?

R. – Inizialmente scienze politiche. Avendo però avuto un docente eccezionale di filosofia, Aminul Islam, alla fine mi orientai verso la filosofia e nel 1971 ottenni il master.

D. – Come ricorda gli anni dell’università e quelli immediatamente successivi?

R. – Durante gli anni dell’università mi consideravo ateo. Nel 1971, durante la guerra di liberazione dal Pakistan, divenni un partigiano. Un giorno fui catturato dall’esercito pakistano e condannato a morte. Mentre portavano me e un compagno di guerriglia sul luogo della fucilazione, ricordo di aver formulato una specie di preghiera: “Dio, se esisti, salvami!” Sperimentai una grande pace e sono convinto che Allah davvero diede ascolto a quella preghiera. I nostri aguzzini improvvisamente cambiarono idea e invece di sprecare un proiettile decisero di buttarci nel fiume. Io provengo da Barishal, nel sud del Bangladesh, dove abbondano i fiumi e dove i bambini imparano sin da piccoli a nuotare, per cui riuscii a salvarmi. Dopo questa esperienza drammatica ho ricominciato a credere e a praticare la mia fede islamica.

D. – Non ha avuto altre crisi di fede?

R. – Al contrario: successive esperienze mi hanno confermato nella mia fede in Dio. Penso spesso a tutto ciò che ho ricevuto nella vita e per ciò ringrazio Dio. Sento, inoltre, una forte responsabilità nei confronti degli altri e dell’intero creato. In questo paese, tanti sono tentati dal fanatismo e io sento una responsabilità nei loro confronti. Nel giorno del giudizio potrò forse dire a Dio di aver fatto qualcosa.

D. – Come ha continuato a coltivare i suoi interessi sulle religioni?

R. – Benché avessi ricevuto parecchi inviti da università in Occidente, nel 1976 decisi di andare a Varanasi, nota anche come Benares, la città sacra degli indù, dove rimasi per cinque anni. Imparai il sanscrito in modo da poter fare ricerca sui testi originali delle scritture indù. Feci una tesi sui Vedanta o Upanishad. L’anno prima, nel 1975, mi ero sposato e convinsi mia moglie, anch’essa insegnante, ad accompagnarmi a Benares, a studiare buddhismo. Mia moglie fece una tesi sulla natura della sofferenza nell’islam e nel buddhismo, ed è la sola donna musulmana, a quanto mi risulta, ad aver approfondito sistematicamente questa religione.

D. – Poi tornò in Bangladesh.

R. – Nel 1980 tornai a insegnare filosofia all’università di Dhaka. Già a Varanasi avevo avvertito la necessità di fondare un dipartimento delle religioni. Tre anni dopo cercai di persuadere il collegio dei professori della necessità di un dipartimento di religioni comparate, ma il tentativo fallì soprattutto perché il corpo docente non era convinto che io fossi veramente all’altezza del compito. A quel punto, con mia moglie mi recai in Inghilterra: all’università di Birmingham mia moglie approfondì il cristianesimo, mentre io feci approfondimenti sull’islam e sull’ebraismo. L’anno successivo, nel 1991, mi recai in un’università di Tokyo per approfondire il mondo delle religioni tradizionali. Imparai fluentemente il giapponese.

D. – Si direbbe che la sua è fondamentalmente una conoscenza accademica delle religioni.

R. – Non è così. Il mio approccio alle religioni non è mai stato semplicemente libresco: ho sempre voluto incontrare una comunità concreta che viveva quella determinata fede, recandomi ai loro templi e partecipando ai loro riti e preghiere. L’incontro con una religione è per me primariamente una esperienza viva ed esistenziale.

D. – Può fare qualche esempio?

R. – A Varanasi riuscii a entrare in un tempio dove ai musulmani era vietato l’accesso. Non ho scritto la religione a cui appartengo sulla fronte! Questo mi sembra molto importante: soltanto partecipando alla vita religiosa di una comunità io posso conoscere dal di dentro quella comunità e comprenderne la fede. Successivamente, soggiornai per un periodo di tempo in Cina al fine di approfondire taoismo e confucianesimo. Ho imparato anche i rudimenti del mandarino.

D. – Dopo questo lungo periodo all’estero come fu accolto al suo rientro in Bangladesh?

R. – Finalmente il corpo docente dell’università si convinse che la mia proposta di istituire un dipartimento delle religioni all’università era seria e che io sarei stato in grado di portarla a compimento. Nel 1996, quando l’Awami League, il partito attualmente all’opposizione, andò al governo, finalmente ottenni il permesso di fondare il dipartimento, che nel 1998 ottenne l’approvazione definitiva. Ma non fu facile.

D. – Quali difficoltà ha dovuto affrontare?

R. – Il primo problema era il nome stesso del dipartimento, “delle religioni comparate”, che non rispondeva alla natura dei corsi proposti e dava adito a fraintendimenti. Dopo molta riflessione, mi venne in mente “Dipartimento delle religioni mondiali” (World Religions Department). Ne parlai con alcuni amici, sia in Bangladesh che all’estero, e tutti ne furono entusiasti: da allora il dipartimento porta questo nome, anche se il syllabus, ossia l’insieme delle materie di insegnamento, è rimasto quello di prima.

D. – In cosa si distingue il dipartimento?

R. – A quanto mi risulta, è il primo e per ora unico caso del genere in Asia, oltre ad essere l’unico esempio nel mondo musulmano. Qui ciascuna religione è insegnata da una persona che, oltre a conoscere la religione che insegna, la pratica. Ciò vale per ciascuna delle cinque religioni maggiori: cristianesimo, islam, induismo, buddhismo e giudaismo.

D. – La sua sembra più una vocazione che una carriera universitaria.

R. – Sento molto forte la responsabilità di illuminare la mente dei miei studenti aiutandoli a coltivare una forte tensione etica. La sento come la mia missione.

D. – Gli inizi del dipartimento sono stati particolarmente controversi?

R. – Sì. All’inizio di questa avventura ricevevo telefonate anonime sia a casa che all’università che mi minacciavano di morte, di sequestro della mia famiglia, eccetera. Io cercavo sempre di convincere l’interlocutore di venire a trovarmi perchè potessi spiegargli le ragioni che mi avevano spinto a intraprendere tale iniziativa.

D. – Sta aumentando il numero dei fanatici in Bangladesh?

R. – Sì e in modo allarmante! Se i governanti non daranno adeguata attenzione al problema dell’educazione soprattutto nelle scuole coraniche, il futuro del Bangladesh è decisamente in pericolo. Coloro che attualmente sono educati nelle madrasse costituiranno nel prossimo futuro un peso e un reale pericolo per il paese. Nelle madrasse non si insegnano la storia, la geografia e la scienza. Anche se è previsto l’insegnamento delle varie religioni come il cristianesimo e l’induismo, queste materie non sono assolutamente materia di esame. Purtroppo il governo sembra poco preoccupato di questa situazione dilagante.

D. – Oggi come descriverebbe la situazione?

R. – Per certi aspetti continua ad essere controversa. Lo scorso agosto, dopo l’esplosione simultanea di circa 400 bombe in tutto il paese, sono stato intervistato in televisione. Ho detto che coloro che avevano fatto un gesto del genere non soltanto non erano da considerarsi musulmani, ma neppure essere umani. Non ho paura di morire per una causa che ritengo giusta e degna. Non appartengo ad alcun partito politico e mi sento libero di dire quello che penso.

D. – Qual è la situazione nel vicino Pakistan?

R. – La situazione in Pakistan è peggiore della nostra. Sono stato molte volte in quel aese, anche qualche mese fa. Là in generale la gente è più fanatica di quanto non sia il nostro popolo. In Bangladesh la maggioranza delle persone sono pacifiche e amanti della pace. Abbiamo comunque bisogno di una leadership illuminata per far fronte al dilagante fanatismo.

D. – Quali sono i suoi sogni?

R. – Il primo è quello di creare una biblioteca in università, dove gli studenti e anche la gente comune che lo desidera possa ottenere tutte le informazioni sulle maggiori religioni. In Bangladesh non ci sono biblioteche di questo tipo nelle quali chiunque, dalla mattina fino a notte, possa consultare testi di questo tipo. L’attuale biblioteca del dipartimento è aperta agli studenti dalla mattina fino a mezzanotte.

Il secondo sogno è un museo delle religioni. Già ora verifico come sia efficace mostrare video sulle varie religioni, preceduti e seguiti da una spiegazione competente, per cui, essendo l’approccio a una religione un’esperienza di vita, vorrei consentire a ciascuno di farsi un’idea dei riti, dell’arte e delle diverse tradizione di ogni religione. La facoltà universitaria sembra d’accordo a concedermi lo spazio necessario, ma occorre trovare i fondi. Non so se riuscirò nel mio intento, ma voglio provarci e così dare il mio piccolo contributo per portare a termine il compito che mio padre mi affidò molti anni fa.

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La rivista del Pontificio Istituto Missioni Estere che ha pubblicato l’intervista:

> “Mondo e Missione”