(l’Espresso) L’Eucaristia trasforma l’uomo ed il mondo

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Felix Colonia. Ancora sull’epifania del papa catecheta


“Sotto il segno dei Magi e della stella, Benedetto XVI ha offerto alle folle il nucleo della fede: l’icona con la Madre e il Bambino, la croce, il pane eucaristico…”

di Pietro De Marco

 ROMA, 26 agosto 2005 – Nel cantico sulla natività di Cristo del maggiore tra i poeti religiosi bizantini, Romano il Melòde, il Bambino Gesù istruisce così il cuore della Madre sul significato dei Re e Magi che chiedono a Maria di entrare ad adorarlo: “Accogli coloro che hanno accolto me. Io sono in loro come fra le tue braccia: da te non mi sono allontanato e con loro sono venuto”.

Prosegue il cantico: “Ed ella apre la porta e accoglie il corteo dei Magi. Apre la porta colei che è la porta mai aperta che solo Cristo varcò […]. Aprì la porta lei dalla quale nacque la Porta, il piccolo bambino, il Dio prima dei secoli”.

Il cantico offre una profonda chiave della vicenda liturgica e teologica, dell’epifania di Marienfeld. Con la sapienza che già aveva guidato la messa di inaugurazione del suo pontificato, Benedetto XVI ha tratto il massimo dal terreno simbolico offerto dalla Colonia sacra. Sotto il segno dei tre Re e dell’epifania (nella foto un particolare del reliquiario) ha proposto alle folle il nucleo della fede: l’icona con la Madre e il Bambino, la croce, il pane eucaristico: “presenza sua in mezzo a noi”.

Si dirà che nessuno nega, anche tra cristiani e tra cattolici di diversissima, opposta sensibilità, la centralità dell’eucaristia. Ma né i fondamenti, né le implicazioni per la fede e le opere di questa centralità sono scontati.

Non sono scontati nelle culture cattoliche. Benedetto XVI ha deliberatamente accentuato l’annuncio della presenza reale, del mutamento (in tedesco “Wandlung”, che designa la transustanziazione) realizzato nelle specie eucaristiche e delle trasformazioni (“Verwandlungen”) che esse, come dono, portano nell’uomo. Potente è la parola che trasforma. Realissima è la trasformazione dell’uomo che nell’eucaristia si nutre. Questa realtà ha spessore e peso storico, si comunica, opera: “un processo di trasformazioni il cui termine ultimo è la trasformazione del mondo” (omelia di domenica 21 agosto).

Il tema esigerebbe una catechesi cattolica urgente. Si parla di questo nelle nostre chiese? E si cura di unire alla teologia della presenza reale l’adorazione, e all’adorazione il riconoscimento del Salvatore e della sua regalità nell’amore? Non solo il riconoscimento di tale regalità sull’anima, sulla persona, ma sulla storia, sul cosmo (riconoscimento indispensabile, questo, perché il primo sia professione di fede), come si dichiara nella dossologia del Padre Nostro: “il tuo regno venga, la tua volontà sia fatta in cielo e in terra”. E si unisce a una catechesi del riconoscimento come “adoratio” – il pendere dalle labbra dell’altro, fino al bacio, come ha ricordato il papa catecheta – quella del riconoscimento come “proskynesis”, il prostrarsi alla maestà di Dio?

Non sono scontati i fondamenti della centralità dell’eucaristia, va da sé, nelle Chiese riformate. L’icona (“la Porta”) e l’ostia, senza cui la croce non ha il suo Signore e non trae la storia a sé, sono ostensioni difficili per la modernità riformata. Ma sarebbe stato male fingere che non siano decisive per la fede cattolica ed ortodossa.

Dolcemente, fermamente, Benedetto XVI ha dispiegato, lassù sull’alto luogo della collinetta di Marienfeld, la sequenza essenziale di simboli che si fonde nell’ostia, bruciante realtà, visibile! Ciò che si è innalzato davanti agli occhi del mondo andava forse nascosto per delicatezza verso i fratelli separati? O tutto andava nascosto a tutti, sempre per delicatezza? Dietro a Benedetto XVI, durante l’udienza dell’amicizia con rappresentanti del mondo musulmano, avevamo visto un grande crocifisso. Anche in questo caso, lealtà e metodo altissimi.

Torniamo sulla profonda teologia del cantico di Romano il Melòde: “Da te non mi sono allontanato e con loro sono venuto”. Ma se Gesù era già con loro, non era forse inutile il viaggio dei Re, e solo apparente la presenza, qui, della carne del Figlio in Maria e con Maria? La verità è all’opposto. È all’opposto, anche, del culto dell’assenza e del negativo che infierisce nelle culture religiose alte. Il Salvatore è qui, e necessaria è quella carne, così come è necessaria la carne della Madre in cui ha preso carne. Ma il Salvatore è già anche nella fede che lo attende (“Una stella spunterà da Giacobbe”, Num 24, 17), che affronta il viaggio per vedere e toccare, per donare (delicata e perfetta nel suo significato la piccola cerimonia dello scambio dei doni tra i “Magi” e il pontefice) e con ciò legarsi realmente, e partire trasformati. Figura della comunione sacramentale.

In Romano il Melòde i Magi parlano di un ritorno nel deserto, emuli di Mosé, parte ormai del popolo del patto. Senza l’adorare, il riconoscere, lo scambiare doni, non vi è cambiamento. Senza cambiamento, consapevole e istituito, non vi è esodo, che è un duro ma sicuro percorso. L’esodo è figura e anche fatto, con la garanzia di una promessa e sotto una disciplina di verità.

Seguendo con discernimento la catechesi di Benedetto XVI al mondo (la croce, Maria, l’ostia) si intende più profondamente anche la genialità di Giovanni Paolo II, dono di Dio per noi. Papa Karol Wojtyla ha osato apparire, irrompere, predicare, mescolarsi con le generazioni e i popoli, le spiritualità e le civiltà, le tragedie e le gioie (dalle folle dei giovani a Guadalupe, da san Giovanni della Croce a Danzica, dalle parrocchie romane al Muro del Pianto), essere Pietro nella mescolanza delle “duae civitates”. È stato una “praeparatio”, anzi, la Stella. Ed è venuto assieme a coloro che hanno cercato, volenti nolenti, la conferma della verità di quel suo annuncio, di quel suo apparire, nella spianata di Marienfeld, nella mite ed alta epifania guidata da papa Joseph Ratzinger.

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Pietro De Marco è professore di sociologia della religione all’Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.