(l’Espreso) La Chiesa adotta le maniere forti con la Cina

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Alla Cina il papa chiede libertà, non perdono

Le autorità cinesi ricominciano a ordinare vescovi illegittimi. Ma questa volta il Vaticano risponde duro. È il nuovo corso inaugurato da Benedetto XVI

di Sandro Magister ROMA, 8 maggio 2006 – La consacrazione avvenuta in Cina, nei giorni scorsi, di due vescovi non approvati dalla Santa Sede sembra riportare indietro di sei anni la storia dei rapporti tra il Vaticano e Pechino.

Anche nella festa dell’Epifania del 2000 vi furono in Cina delle consacrazioni episcopali non approvate da Roma. Quella volta i nuovi vescovi furono cinque, ma sarebbero dovuti essere dodici. Sette di loro rinunciarono dopo aver saputo della disapprovazione della Santa Sede. Uno dei vescovi ordinati in quell’occasione, Pietro Fang Janping, è stato tra i consacranti di uno dei due vescovi ordinati nei giorni scorsi.

Oggi, però, le reazioni ufficiali della Santa Sede sono state molto diverse rispetto a quelle di sei anni fa.

Il 4 gennaio del 2000, due giorni prima quelle ordinazioni illegittime, la Santa Sede si limitò a diramare – nella sola lingua italiana – questo breve e timido comunicato, letto dal portavoce vaticano Joaquín Navarro-Valls:

“Devo manifestare la meraviglia e il disappunto della Santa Sede perché questa decisione interviene in un momento in cui da più parti si levano delle voci che lasciano ben sperare per una normalizzazione dei rapporti tra la Santa Sede e Pechino, mentre questo gesto viene a porre degli ostacoli che certamente intralciano tale processo”.

Questa volta, invece, la protesta è stata energica e circostanziata. Ed è stata diramata il 4 maggio da Navarro-Valls in italiano e in inglese. Eccola integrale:

“Sono in grado di far conoscere la posizione della Santa Sede circa le ordinazioni episcopali dei sacerdoti Giuseppe Ma Yinglin e Giuseppe Liu Xinhong, che hanno avuto luogo, rispettivamente, domenica, 30 aprile scorso, a Kunming (provincia dello Yunnan) e mercoledì, 3 maggio corrente, a Wuhu (provincia dell’Anhui).

“Il Santo Padre ha appreso le notizie con profondo dispiacere, poiché un atto così rilevante per la vita della Chiesa, com’è un’ordinazione episcopale, è stato compiuto in entrambi i casi senza rispettare le esigenze della comunione con il papa.

“Si tratta di una grave ferita all’unità della Chiesa, per la quale, com’è noto, sono previste severe sanzioni canoniche (cfr. canone 1382 del Codice di Diritto Canonico).

“Secondo le informazioni ricevute, vescovi e sacerdoti sono stati sottoposti – da parte di organismi esterni alla Chiesa – a forti pressioni e a minacce, affinché prendessero parte a ordinazioni episcopali che, essendo prive del mandato pontificio, sono illegittime ed, inoltre, contrarie alla loro coscienza. Vari presuli hanno opposto un rifiuto a simili pressioni, mentre alcuni non hanno potuto fare altro che subirle con grande sofferenza interiore. Episodi di questo genere producono lacerazioni non soltanto nella comunità cattolica ma anche all’interno stesso delle coscienze.

“Si è, quindi, di fronte a una grave violazione della libertà religiosa, nonostante che si sia cercato pretestuosamente di presentare le due ordinazioni episcopali come un atto doveroso per provvedere il pastore a diocesi vacanti.

“La Santa Sede segue con attenzione il travagliato cammino della Chiesa cattolica in Cina e, pur consapevole di alcune peculiarità di tale cammino, pensava e sperava che simili episodi deplorevoli appartenessero ormai al passato.

“Essa considera ora suo preciso dovere dare voce alla sofferenza di tutta la Chiesa cattolica, in particolare a quella della comunità cattolica in Cina e specialmente a quella dei vescovi e dei sacerdoti, che si vedono obbligati contro coscienza a compiere o a partecipare a ordinazioni episcopali, che né i candidati né i vescovi consacranti vogliono effettuare senza avere ricevuto il mandato pontificio.

“Se corrisponde a verità la notizia secondo cui dovrebbero aver luogo altre ordinazioni episcopali secondo le medesime modalità, la Santa Sede ribadisce la necessità del rispetto della libertà della Chiesa e dell’autonomia delle sue istituzioni da qualsiasi ingerenza esterna, e si augura, perciò, vivamente che non vengano ripetuti tali inaccettabili atti di violenta e inammissibile costrizione.

“La Santa Sede ha, in varie occasioni, ribadito la propria disponibilità a un dialogo onesto e costruttivo con le competenti autorità cinesi per trovare soluzioni, che soddisfino le legittime esigenze di entrambe le parti.

“Iniziative come quelle sopra indicate non soltanto non favoriscono tale dialogo, ma creano anzi nuovi ostacoli contro di esso”.


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Il confronto tra questo comunicato e quello di sei anni fa è uno dei tanti indicatori del mutamento di rotta adottato dal Vaticano nei confronti della Cina: un mutamento che si è particolarmente accentuato dopo l’elezione a papa di Joseph Ratzinger.

Negli anni passati, a dominare era una prudente Realpolitik. La diplomazia vaticana adottava con Pechino la medesima linea di “appeasement” che aveva a lungo caratterizzato, in Europa, i suoi rapporti con i regimi comunisti al di là della cortina di ferro.

Un documento che espresse questa linea al massimo grado fu il messaggio di Giovanni Paolo II del 24 ottobre 2001 ai partecipanti al convegno internazionale “Matteo Ricci. Per un dialogo tra Cina e Occidente”.

Un anno prima, il 1 ottobre del 2000, Giovanni Paolo II aveva beatificato in San Pietro 120 martiri cinesi. E le autorità di Pechino avevano protestato platealmente: come se quella beatificazione fosse stata un’offesa al popolo della Cina, tanto più in quanto celebrata nel giorno di una sua festa nazionale.

Ma nel citato messaggio di Giovanni Paolo II non c’era una sola riga in difesa della beatificazione di quei martiri.

Nè v’erano cenni alle persecuzioni che in Cina continuavano a colpire i cristiani; nè allo sterminio, negli ultimi decenni, di innumerevoli vescovi, preti, fedeli; nè alle incarcerazioni; nè alle torture e ai lavori forzati; nè ai diritti elementari di libertà sistematicamente violati.

Tutto l’opposto. Era Giovanni Paolo II a chiedere “perdono e comprensione” per gli “errori” compiuti dalla Chiesa in Cina. Nel testo del papa la formulazione di questi “errori” ricalcava pari pari le accuse rivolte sistematicamente dal governo di Pechino al Vaticano, tra le quali quella di essere stato al servizio di “potenze straniere” ostili.


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Di questa politica vaticana remisssiva nei confronti della Cina un esponente illustre è stato il cardinale Roger Etchegaray, presidente emerito del pontificio consiglio della giustizia e della pace.

Curiosamente, Etchegaray ha pubblicato un libro di memorie dei suoi viaggi in Cina e dei suoi contatti con le autorità cinesi nel marzo del 2005, proprio quando questa politica “realista” era alla fine.

Raccontando uno dei suoi viaggi, compiuto nel 2000 dopo la contestata beatificazione dei 120 martiri cinesi, Etchegaray scrisse d’aver subìto due “requisitorie” consecutive, per complessive quattro ore e mezza, da parte di due dirigenti “ad altissimo livello”. Ma lui tacque. E di ritorno a Roma, in un’intervista alla Radio Vaticana, piuttosto definì “molto spiacevole la concomitanza della beatificazione con la festa nazionale del popolo cinese, che ferisce profondamente una sensibilità a fior di pelle dopo tutte le umiliazioni subite da parte delle potenze occidentali”.

A Roma non mancano le notizie sulle oppressioni di cui sono vittime i cattolici cinesi. Ma fino a qualche anno fa, di regola, il Vaticano non denunciava pubblicamente tali fatti. L’allora direttore di “Fides”, l’agenzia della congregazione vaticana per la propagazione della fede, padre Bernardo Cervellera, accusato di dare ad essi troppa evidenza, fu rimosso nel 2002 dal suo incarico per volere della segreteria di stato.

I due passi che le autorità cinesi reclamano sistematicamente dal Vaticano sono la cessazione dei rapporti diplomatici con Taiwan e la non ingerenza “negli affari interni cinesi, inclusi quelli religiosi”. Tra questi “affari interni” a sè riservati il regime include la nomina dei vescovi.

Sul primo punto la segreteria di stato vaticana ha detto in più occasioni – per bocca dello stesso cardinale Angelo Sodano – d’essere pronta a trasferire la sua nunziatura da Taipei a Pechino “non domani, ma stasera stessa”.

Quanto alla nomina dei vescovi – almeno fino a quando a occuparsi della Cina è stato monsignor Claudio Maria Celli, oggi segretario dell’amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica – l’esempio a cui si guardava in Vaticano era quello del Vietnam, dove dal 1996, pur in assenza di relazioni diplomatiche, la Santa Sede propone per ogni nomina all’episcopato tre possibili candidati e il governo ha il diritto di scegliere fra i tre quello che ritiene più docile.

Ma di entrambe queste soluzioni – specie se slegate tra loro – i cattolici cinesi hanno sempre diffidato. E una delle voci più critiche è da tempo quella del vescovo di Hong Kong, Giuseppe Zen Zekiun. Il vescovo che Benedetto XVI ha fatto cardinale.


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In ogni caso, da un paio d’anni e fino a pochi giorni fa – e di nuovo il 7 maggio con un’altra ordinazione a Shenyang – i nuovi vescovi consacrati in Cina sono stati insediati con la doppia approvazione di fatto della Chiesa di Roma e delle autorità politiche cinesi.

Nel frattempo, la Santa Sede ha man mano approvato la quasi totalità dei vescovi in precedenza nominati dal solo regime, e ha spinto all’unificazione i due tronconi della Chiesa cinese: quella ufficiale, l’unica riconosciuta dal governo, e quella “sotterranea”, priva di questo riconoscimento. Si è riscontrato che il consenso dei fedeli attorno ai vescovi, anche ufficiali, tanto più si rafforza quanto più è risaputa la loro unione col papa di Roma.

Nell’ottobre del 2005 Benedetto XVI diede un forte segno in questa direzione: invitando al sinodo mondiale che si teneva in Vaticano quattro vescovi della Cina continentale, dei quali tre appartenevano alla Chiesa ufficiale e uno alla Chiesa clandestina. I quattro non ottennero l’autorizzazione a partire, ma il gesto fece comunque molta impressione.

Intervenendo il 12 ottobre nel sinodo, il vescovo Zen, di Hong Kong, trasse da tutto ciò queste conseguenze:

“Risulta sempre più chiaro che i vescovi cinesi ordinati senza l’approvazione del romano pontefice non vengono accettati né dal clero né dai fedeli. Si spera che davanti a questo ‘sensus Ecclesiae’ il governo di Pechino veda la convenienza di venire a una normalizzazione della situazione, anche se gli elementi ‘conservatori’ interni alla Chiesa ufficiale vi pongono resistenza per ovvii motivi di interesse”.

I “conservatori” interni alla Chiesa ufficiale sono ad esempio il vescovo di Pechino Michele Fu Tieshan, non riconosciuto da Roma e inviso alla gran parte dei fedeli, oppure uno dei nuovi consacrati dei giorni scorsi, Giuseppe Ma Yinglin, che è anche membro dell’assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese.

Ma vi sono soprattutto i “conservatori” interni al regime comunista, per i quali una normalizzazione dei rapporti tra il Vaticano e la Cina significherebbe la fine. È questo il caso, in particolare, dell’Associazione Patriottica che controlla la Chiesa ufficiale. Il suo vicepresidente, Antonio Liu Bainian, fa di tutto per tenere in vita una Chiesa nazionalista e separata da Roma, ed è specialmente a lui che si deve la recente ripresa delle ordinazioni illegittime. È evidente che questo obiettivo contrasta con il progetto di “società armoniosa” enunciato dal presidente Hu Jintao.

La ripresa delle ordinazioni episcopali illegittime, il 30 aprile e il 3 maggio, ha dato temporaneamente un punto di vantaggio ai “conservatori”. E anche l’iniziale silenzio delle autorità vaticane è stato accolto con allarme dal neocardinale Zen, che ha dichiarato in un’intervista: “ Non posso essere io da solo a protestare. Se taciamo, prepariamo il terreno a una resa senza condizioni”.

Poche ore dopo, però, il 4 maggio, la Santa Sede ha pubblicato l’energica nota sopra riprodotta. Che sui vescovi illegittimi e sui loro consacranti fa addirittura pendere la scomunica (questo dice il citato can. 1382 del Codice di Diritto Canonico), anche se da questa li risparmia facendo sapere che hanno agito sotto costrizione.

Nella nota, la Santa Sede ribadisce che non si ritira dal dialogo con le autorità cinesi. Purché “non vengano ripetuti tali inaccettabili atti di violenta e inammissibile costrizione”.

In definitiva la questione Cina, per Benedetto XVI, ha il suo cuore nella libertà religiosa. Anzi, nella libertà tout court.