(il Timone) L’importanza dell’apparecchio alla morte

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Vita o morte

di Gianpaolo Barra A ben leggerla, la cronaca molto insegna e altrettanto dovrebbe far riflettere chi, come noi, per grazia vive nell’orizzonte della fede cattolica.
Persino quella "nera" offre, insieme a una quantità notevole di casi, purtroppo, anche molti spunti per ragionare delle cose che contano; anzi, come vedremo, della sola cosa che conta.
Un cenno agli ultimi, luttuosi accadimenti.
Cina, maggio scorso: una terrificante scossa di terremoto, durata solo qualche decina di secondi, seppellisce sotto le macerie in questo breve, marginale arco di tempo centinaia di migliaia di persone, delle quali oltre 50.000 non si salveranno. In un attimo, creature passate dalla vita alla morte. Fino a un momento prima, gioivano, pativano, lavoravano, amavano e odiavano, in una parola… vivevano. Poi, tutto finito, e per sempre.
Birmania, poche settimane prima: un tornado strappa alla vita, nel giro di poche ore, oltre 100.000 esseri umani, la metà dei quali – ma forse di più – bambini. Improvvisa, crudele e terribile, la morte giunge dall’aria, scoperchia e distrugge, finendo il suo compito disseminando cadaveri e lasciando una scia di pianto e di dolore tra i superstiti.
Ancora: non passa giorno che la cronaca non ci racconti di incidenti stradali, schianti terribili che a volte I colpiscono famiglie intere, con bambini piccoli, rapite dalla vita e consegnate alla morte. In un attimo.
Tragedie senza fine, con il corollario di dolore e croce sulle spalle di parenti e conoscenti di tante vittime. Dalle quali trarre, tuttavia, qualche lezione fondamentale, per chi ha il dono della fede.
Innanzitutto: la nostra vita è davvero – come si suoi dire – appesa a un filo. In un batter d’occhio potremmo non esserci più. Progetti, imprese, affetti, parentele, interessi, preoccupazioni, finanche hobbies e passatempi: tutto può venir spazzato via da un inesorabile soffio mortale, improvviso e inaspettato. Sarà bene ricordare, a questo punto, che un istante dopo la morte daremo conto al Giudice giusto e misericordioso della nostra esistenza. Lì ci verrà assegnato un destino eterno, di gioia senza fine, magari dopo doverosa purificazione, o di eterna sofferenza. È, quello, il momento in assoluto decisivo e più importante della nostra esistenza, al quale buon senso vuole che ci si arrivi preparati.
E invece, lo si pensa poco. Meditare sulla buona morte è fuori moda, anche in casa cattolica. Ma la domanda va posta: «sono pronto?». Se il Signore mi chiamasse in quest’istante, in che stato troverà la mia anima? E una risposta va data. Ciascuno la propria.
È, questo, un quesito che riguarda la sola cosa che davvero conta, alla "fin della fiera": la vita eterna. Ma è domanda dimenticata, rimossa, rinviata anche da molti che pur sono cattolici.
Mi capita spesso, durante le mie conferenze, di provocare l’uditorio su questo tema, chiedendo soprattutto ai giovani se conoscono la distinzione tra "peccato mortale" e "peccato veniale". Duole ammetterlo, ma in larga parte questi ragazzi, che frequentano chiese e oratori, che sono ancora freschi di catechismo e di corsi parrocchiali, non ne sanno nulla.
E come si confessano? E in che stato fanno la comunione? E come curano la salute dell’anima? Ci pensano? Sanno che Dio chiama quando meno ce o aspettiamo? Sanno – terribile a dirsi, ma è cosa vera – che se si muore in stato di peccato mortale c’è l’Inferno?
Temo – anzi: sono certo, purtroppo – che queste preoccupazioni non turbino più di tanto.
Ma faremmo bene a pensarci più spesso. Ne va della nostra vita eterna. Che i drammi della cronaca ci servano da severo avvertimento. Teniamoci desti e pronti all’appuntamento finale dell’esistenza terrena: l’incontro con il Padre che ci ama.

 

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