(il Timone) Il cinese del Tirolo

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San Giuseppe Freinademetz:
“Il montanaro che voleva convertire la Cina”


Massimo Introvigne (Il timone. Mensile di formazione e informazione apologetica, anno IX, n. 1 (gennaio 2007), pp. 54-55)

“È iniziata per la Cina una nuova epoca; ora è indispensabile attivare ogni mezzo per sfruttare questo tempo favorevole per la nostra religione. Se l’Europa fosse veramente cattolica, non dubito che sarebbe arrivato il tempo della conversione della Cina. Ma purtroppo si deve guardare al futuro con timore e tremore. Non c’è tempo da perdere e non ci si può risparmiare”. Sembrano parole scritte oggi, quando – nonostante le difficoltà e l’assenza di libertà religiosa – le statistiche vere, diverse da quelle ufficiali, ci parlano di un cristianesimo che sta diventando la religione di maggioranza relativa in Cina. Se di questa crescita sotterranea ma straordinaria profittano più i protestanti dei cattolici è perché, a differenza del mondo protestante americano, un’Europa che non è “veramente cattolica” si occupa poco della Chiesa cinese e dei suoi problemi.


Ma la citazione non è di oggi: risale a cent’anni fa, al 1905. A scrivere queste parole, in occasione del nuovo anno cinese, è un montanaro della Val Badia, che da semplice cooperatore (cioè vice-parroco) del borgo di montagna di settecento anime di San Martin de Tor, membro di una minoranza linguistica che parlava ladino e che con grandi difficoltà aveva imparato l’italiano e il tedesco, era diventato uno dei più grandi missionari della Cina. Superiore per il territorio cinese di una congregazione religiosa specializzata, i missionari verbiti, e si era fatto – come diceva – “cinese con i cinesi”, apprendendo a esprimersi correttamente in tre delle principali lingue dell’immenso paese asiatico e portando perfino il codino. Il suo nome era Giuseppe Freinademetz (1852-1908), e Papa Giovanni Paolo II lo ha iscritto nel 2003 nel catalogo dei santi della Chiesa cattolica.


L’Italia è così ricca di santi che molti rischiano di sfuggirci. Solo una visita occasionale in Val Badia, e le preziosi indicazioni di un’amica, mi hanno condotto alla povera casa natale di san Giuseppe Freinademetz nella borgata di Oies, un paesino composto da una mezza dozzina di case. In quest’angolo remoto dell’Impero Austro-Ungarico (oggi parte dell’Alto Adige italiano) nasce nel 1852 Ujöp (la versione italiana, Giuseppe, di questo nome ladino verrà solo molti anni dopo) Freinademetz. La famiglia vive in una povertà dignitosa e in una pietà tipicamente tirolese, perfino difficile da capire oggi: i ritmi di preghiera quotidiani alternati al lavoro ricordano più una comunità monastica che un nucleo familiare.


Non è straordinario che in questo ambiente maturi una vocazione religiosa, e che il giovane Ujöp – che all’inizio, appunto, non conosce che il ladino – superi tutte le difficoltà per entrare nel seminario di Bressanone e diventare sacerdote. Quello che è eccezionale è che, mentre è impegnato nel suo primo incarico pastorale in un paesino della sua valle, maturi in Freinademetz quello che sembra un sogno totalmente irrealistico: convertire al cattolicesimo il paese più popoloso del mondo, la Cina. Ma quella che sembra follia per gli uomini può essere fortezza intrisa di speranza per Dio. Anche se a Bressanone si seguivano con entusiasmo le missioni, Freinademetz sa poco della Cina: ma sa che è immensa, che non può essere esclusa dal piano di salvezza universale di Dio, e che va convertita.


Così, appresa dalla semplice lettura del bollettino della sua diocesi di Bressanone l’esistenza a Steyl, in Olanda, di un nuovo istituto missionario che intende consacrarsi soprattutto all’Asia, la congregazione dei Missionari Verbiti, fondata da un altro santo (che Giovanni Paolo II canonizzerà insieme a lui), il tedesco sant’Arnold Janssen (1837-1909), chiede e ottiene dal vescovo il permesso di partire. Janssen è un uomo all’apparenza freddo e severo, mentre Freinademetz è entusiasta ed esuberante: ma i due impareranno a capirsi e a stimarsi, e diventeranno amici.


Nel 1879 i primi due missionari verbiti partono per la Cina: sono Freinademetz e Johann Baptist Anzer (1851-1903). Il secondo – per l’umiltà del primo, che rifiuterà la carica – diventerà il primo vescovo verbita in Cina, con la carica di amministratore apostolico dello Shantung meridionale. Freinademetz, che sarà suo sottoposto come sacerdote ma cui sarà conferita ampia autonomia come provinciale dei verbiti, avrà con il vescovo – autoritario, turbato da problemi personali di alcolismo, e preoccupato di promuovere gli interessi politici in Cina del suo paese, la Germania – un rapporto assai difficile e tormentato. La morte di Anzer a Roma nel 1903 fa di nuovo considerare Freinademetz come la scelta più logica come vescovo: questa volta il veto del governo tedesco – che non vuole un suddito austro-ungarico come prelato in una zona dove desidera affermare la sua influenza – lo amareggia per la discriminazione di carattere politico e nazionale, anche se il santo non desidera la carica. Di fatto, avrà ottimi rapporti con il nuovo vescovo tedesco Augustinus Henninghaus (1862-1939), che scriverà anche la prima biografia del futuro santo.


Quando Freinademetz arriva in Cina il suo giudizio sulle religioni del paese è radicalmente negativo: che si tratti di buddhismo, taoismo o confucianesimo i prodigi che vede fare al personale religioso locale sono attribuiti al diavolo. Una certa letteratura devozionale distribuita ai pellegrini che visitano la casa natale del santo ha troppa fretta quando liquida questa persuasione come semplice pregiudizio del tempo. In realtà, anche documenti e teologi recenti non hanno escluso l’ipotesi demonologica per l’analisi di certi fenomeni umanamente inspiegabili nelle religioni non cristiane, specie quando questi si accompagnano a un contesto di violazione sistematica della morale naturale e di odio per il cristianesimo, come avveniva presso le società segrete cinesi con cui Freinademetz aveva a che fare, responsabili delle torture e dell’uccisione di tanti cristiani e missionari. Ma il magistero contemporaneo precisa che in questi casi l’opera del diavolo è normalmente sconosciuta alle persone coinvolte, e di questo si convinse anche il santo della Val Badia. Egli anzi divenne – nelle parole di Giovanni Paolo II – “modello esemplare di inculturazione evangelica”, valorizzando tutto quanto nella cultura cinese gli sembrava suscettibile di condurre o almeno di non fare ostacolo alla conversione, e apprezzando e amando anche stili culturali che all’inizio aveva mal compreso, senza però mai cadere nel “buonismo” o nel relativismo, e mantenendo sempre fermo che solo la conversione al cattolicesimo avrebbe salvato la Cina e i cinesi da orrori che l’azione di forze oscure politiche, religiose e criminali gli facevano presagire e che si sarebbero realizzati tragicamente con il comunismo maoista.


Nel 1908 Fu Shenfu – il nome con cui il santo era conosciuto dai cinesi, il “sacerdote Fu”, dalla lettera iniziale F del suo impronunciabile cognome che però significa pure “fortuna” in cinese – poteva tracciare un bilancio della sua attività missionaria nello Shantung: in condizioni difficilissime aveva trovato nella regione 158 cattolici, ne lasciava quarantamila. Li lasciava, perché – sopravvissuto alle persecuzioni e agli attentati alla sua vita, che venivano soprattutto dalle società segrete – nel 1908, fiaccato da anni di lavoro missionario in cui davvero non si era risparmiato, animato dalla preghiera e da una originale spiritualità che ha suscitato l’attenzione di un maestro di vita spirituale contemporaneo come don Divo Barsotti (1914-2006), morì stroncato dall’epidemia di tifo che imperversava in Cina.


Le sue parole sul possibile futuro cristiano e cattolico della Cina, e sull’importanza cruciale che la Cina avrebbe assunto per il mondo e per la Chiesa, hanno un sapore profetico che apprezziamo nella loro pienezza soltanto oggi. E che un montanaro nella Val Badia potesse non solo concepire ma cominciare a realizzare l’idea meravigliosa di convertire l’immensa Cina, o almeno una sua vasta regione, dimostra quali prodigi – che sfidano ogni previsione e ogni logica umana – possono realizzarsi quando la chiamata di Dio incontra la disponibilità dei santi, e i santi incontrano a loro volta la disponibilità della Chiesa a sostenere i loro sogni di apostolato.


Per approfondire: Sepp Holweck, Il cinese del Tirolo. Padre Giuseppe Freinademetz, 1852-1908, Athesia, Bolzano 2003; Divo Barsotti, Giuseppe Freinademetz dalle sue lettere, Missionari Verbiti, Bolzano 2003.