(il Timone) Giustizia: Perchè occorre scontare la pena

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Riflessioni in margine al caso Sofri: la pena deve
ristabilire l’uguaglianza tra gli uomini infranta dal
reo, perciò non basta il pentimento per reclamarne la
conclusione. Essa restituisce dignità al reo, ma
moltissimi cattolici lo hanno dimenticato.

Riflessioni in margine al caso Sofri: la pena deve
ristabilire l’uguaglianza tra gli uomini infranta dal
reo, perciò non basta il pentimento per reclamarne la
conclusione. Essa restituisce dignità al reo, ma
moltissimi cattolici lo hanno dimenticato.

Mentre scrivo questo articolo non so come andrà avanti la
proposta di legge per ottenere la grazia per Sofri, che
svariati processi hanno dichiarato essere il mandante
dell’assassinio di Luigi Calabresi.
Non so se la potentissima lobby degli amici di Sofri
riuscirà nel suo intento, ma questa ennesima puntata del
caso Sofri offre lo spunto per fare alcune considerazioni
sulla funzione della pena.

Infatti, molti ripetono continuamente che Sofri è cambiato
ed è pentito, perciò non ha più senso la continuazione
della pena.
Ora, anche se ammettessimo che sia vero il pentimento di
Sofri, quest’argomentazione denuncia un gravissimo errore
circa la funzione della pena, ed esprime una teoria della
pena sbagliatissima, che è ormai purtroppo dilagata
paurosamente anche nel mondo cattolico, tra teologi,
sacerdoti, credenti, ecc., secondo cui la pena ha due
funzioni:
1) rieducativa, cioè ha lo scopo di produrre il pentimento,
il ravvedimento del reo;
2) preventiva-difensiva, cioè ha lo scopo di evitare nuove
minacce all’incolumità della società, esercitando un’azione
intimidatrice nei confronti del reo e di coloro che
potrebbero emularlo.

Ora queste due funzioni della pena sono giuste, ma non
sono sufficienti e debbono essere integrate da una terza
fondamentale funzione, quella retributiva.
Essa consiste in un atto di contraccambio al reato compiuto,
è il corrispettivo, proporzionato, del male commesso dal
reo, che ristabilisce la giustizia.
Infatti, ciascun uomo vive con gli altri uomini in un
rapporto di uguaglianza, di reciprocità, di simmetria.

Ora, che cosa fa il reo?
Egli cancella questa uguaglianza, infrange questa
reciprocità, ottiene un vantaggio indebito a spese degli
altri.
Perciò, come chi ha guadagnato un vantaggio ingiusto deve
risarcirlo, come chi si è arricchito illecitamente deve
restituire il maltolto e come una squadra sportiva che ha
barato deve essere penalizzata, così il reo che ha commesso
un reato che ha rilevanza penale deve subire una pena
afflittiva, per scontare il male che ha compiuto.

Perché afflittiva?
Perché il reo ha prevaricato con la sua volontà e la sua
libertà sulla volontà e la libertà dei suoi simili, perciò
la pena deve affliggere la sua volontà e la sua libertà
per riequilibrare il male che egli ha compiuto.
Non solo, ma il reo, prevaricando sui suoi simili, ha
abdicato alla propria dignità, perciò la pena, facendogli
espiare il male compiuto, gli restituisce quella dignità
che egli ha perso; in tal modo, come dice Platone, la
cosa peggiore che può capitare ad un uomo non è commettere
ingiustizia, ma commettere ingiustizia e non venire punito,
perché chi non viene punito non recupera la propria
dignità che ha leso.

Ciò significa che esiste un diritto-dovere dello Stato di
punire, ma anche un diritto del reo di essere punito dallo
Stato (anche se il reo non ne è quasi mai consapevole):
il reo ha il diritto di essere punito per poter recuperare
la propria dignità.

Qual è la differenza con la vendetta?
La vendetta vuole danneggiare il reo, invece la pena come
retribuzione ha un’intenzione diversa: ristabilire
l’uguaglianza infranta dal reo e ridargli la dignità che
egli ha perso, quindi non vuole il male del reo, ma il suo
bene.
Fare del male a qualcuno non vuol dire sempre fare il male
morale: il padre che punisce il figlio che ha sbagliato
gli fa male, ma non fa del male morale, anzi fa del bene
morale, e fa il bene del figlio.

Qual è la differenza con la legge del taglione?
È vero che la pena dev’essere proporzionata, ma non guarda
solo ai fatti (occhio per occhio), ma anche alle
intenzioni, alla consapevolezza e alla premeditazione del
reo; inoltre la logica del taglione colpisce anche chi
non c’entra (se x uccide i figli di y, y per ritorsione
uccide i figli di x), mentre la pena retributiva affligge
solo il responsabile di un male.

Un ultima obiezione dice che il male compiuto non si può
cancellare, e che la pena aggiunge un nuovo male a quello
già compiuto.
In realtà, come ho già accennato, nessuno pretende che il
male sia cancellato, il male resta; con la pena si vuole
ristabilire l’uguaglianza tra gli uomini, quindi la pena
non aggiunge un nuovo male a quello già esistente, bensì
fa del bene.

Il discorso che ho fin qui sviluppato è stato teorizzato
in modo simile da grandi filosofi come Platone, Kant ed
Hegel.
Ma non è contrario al cristianesimo?
Mi basta citare il più grande filosofo e teologo cristiano
di tutti i tempi, S. Tommaso, che spiega che la pena
«tende principalmente a un bene al quale si giunge mediante
la punizione dei colpevoli, per esempio al loro emendamento
[funzione rieducativa], o almeno alla repressione del male
per la pubblica quiete [funz. preventiva.-difensiva],
oppure alla tutela della giustizia e all’onore di Dio
[funz. retributiva]»
(Somma teologica, II-II, q. 108).

Ma il cristianesimo non dice di perdonare?
Certo, ma il perdono concerne il colpevole e non toglie la
colpa: se la pena fosse solo rieducativa, nel sacramento
della confessione non avrebbe senso comminare la penitenza
al peccatore, che è già pentito.
Invece, pur essendo già pentito e pur essendo già stato
perdonato, il peccatore riceve una penitenza, che è una
retribuzione afflittiva del male che ha compiuto, e ciò
dimostra che il perdono e la punizione non sono
alternativi, bensì complementari.

Del resto la funzione retributiva della pena è chiaramente
indicata dal Catechismo della Chiesa Cattolica:
«La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine
introdotto dalla colpa» (2266).

Un altro esempio clamoroso di retribuzione è l’inferno,
come si comprende chiaramente dal fatto che esso perdurerà
anche dopo la fine del mondo.
Infatti, è chiaro che dopo la fine del mondo la pena
dell’inferno non può avere una funzione rieducativa, in
quanto i dannati non possono essere rieducati, né una
funzione preventiva ed intimidatrice, perché non esiste
più nessuno che sulla terra possa ricavare un monito da
essa: dunque dopo la fine del mondo l’inferno conserva
solo una funzione retributiva.

Il vangelo non è almeno incompatibile con la funzione
difensiva della pena?
Non chiede di porgere l’altra guancia?
Si, ma porgere l’altra guancia non esclude la liceità della
legittima difesa che, dice il Catechismo, «oltre che un
diritto, può anche essere un grave dovere, per chi è
responsabile della vita degli altri» (n. 2265), perché io
posso scegliere di porgere l’atra guancia se qualcuno
aggredisce me, ma ho il dovere di reagire se qualcuno
aggredisce chi è sotto la mia responsabilità (per es. se
io sono un padre e qualcuno aggredisce mio figlio, oppure
se sono un governante e qualcuno mette in pericolo i
cittadini che io devo tutelare).

Per mancanza di spazio devo fermarmi qui, sperando che
dal poco che ho potuto dire sia chiaro che non basta il
pentimento di un reo per chiedere la conclusione della
pena.
E se proprio si ritiene di concedergli la grazia è
imprescindibile che egli la chieda.

Giacomo Samek Lodovici
(C) il Timone, n. 31
http://timone.totustuus,info/

Bibliografia

Mathieu, V., Perché punire? Il collasso della giustizia
penale, Rusconi 1978, specialmente pp. 73-298.
Catechismo della Chiesa Cattolica, punti 2261-2266.
Tommaso d’Aquino, Somma teologica, II-II, q. 108.
Platone, Gorgia, 477 E – 479 E.

Ricorda
«L’arte di procurar ricchezze […] libera dalla povertà,
la medicina dalla malattia, e la giustizia libera dalla
dissolutezza e dall’ingiustizia. […] Dunque […] il
fare ingiustizia e non scontare la pena è veramente il
più grande e il primo di tutti i mali».
(Platone, Gorgia, 478 A – 479 E).