Basta avere sensi di colpa per gli immigrati e l’islam

Per cambiare la politica, è stato trasformato il passato. Così la civiltà è stata letta come colonizzazione, l’evangelizzazione ha finito per equivalere a cancellazione delle culture autoctone. E chi si è opposto è stato inserito suo malgrado nella categoria dei “medioevali”, rimasta oramai l’unica che è lecito discriminare secondo il nuovo catechismo politicamente corretto.
Tutti gli altri al contrario non possono essere offesi, se no scatta la censura, che agisce come «una camicia di forza lessicale».
Perciò i gay pride sono divenuti eventi meritori del patrocinio istituzionale, durante i quali è ben accetta la partecipazione di eterosessuali, mentre la famiglia finisce nel contenitore dei rifiuti ideologici e guai se un divorziato o una madre single osano aderirvi.

Se un fenomeno di tale portata è potuto accadere, la causa è l’imposizione alla società, da parte di alcune minoranze, di un senso di colpa ideologico dal quale ci insegna a liberarci il politologo francese Alexandre Del Valle, con l’opera Il complesso occidentale. Piccolo trattato di decolpevolizzazione, (Paesi edizioni, pp. 432, 15 euro), che esce oggi in traduzione italiana.

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Vescovi coraggiosi, Trieste: prima viene il diritto a NON emigrare. Poi attenzione all’islam

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L’arcivescovo di Trieste:

  • “La dottrina sociale della Chiesa è chiara: i popoli devono rimanere nelle loro terre. La politica decide se accogliere o no, la religione deve annunciare Cristo. Ma forse qualcuno se n’è scordato…”
  • La politica deve prima di tutto conoscere le religioni di cui si occupa […] un dovere che va attuato anche nei confronti dell’islam. […] Anche la Chiesa dovrebbe valutare l’islam”
  • Non bisogna far finta che nella teologia islamica non ci siano elementi che rendono difficile l’integrazione

A leggere alcuni proclami sull’accoglienza dei migranti sembra di trovarsi davanti a un nuovo dogma. C’è, si, un innegabile imperativo di assistenza umanitaria, ma anche una distinzione tra assistere e accogliere. E la dottrina sociale della Chiesa cattolica non avalla affatto l’indiscriminata accoglienza spesso predicata assumendo toni di scelta politica. La Verità ha incontrato monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste e presidente dell’Osservatorio cardinale Van Thuan sulla dottrina sociale, per cercare di capire come interpretare il problema senza cadere in facili slogan.

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Monsignor Crepaldi, si moltiplicano gli appelli all’accoglienza, spesso anche da parte di uomini di Chiesa. Quali sono i criteri che la Dottrina sociale offre per affrontare il problema delle migrazioni senza precipitare nel vuoto buonismo?

“Non potendo andare tutti a Lampedusa ad accogliere immigrati bisogna impegnarsi con una buona politica, la quale deve sempre perseguire il bene comune, che non è solo quello degli immigrati, ma anche quello della nazione accogliente e quello del bene della comunità universale”.

Quindi?

“Quindi le politiche dell’immigrazione devono considerare i bisogni di chi chiede accoglienza e, nello stesso tempo, interrogarsi sulle reali possibilità di integrazione. Oltre all’assistenza immediata ci sono altri problemi”.

Quali ad esempio?

“Combattere la criminalità organizzata che organizza gli sbarchi, disincentivare la collusione di alcune Ong, non scaricare tutta la responsabilità sull’Italia ma favorire la collaborazione europea e mediterranea e così via. La carità personale getta spesso il cuore oltre l’ostacolo, ma la politica deve regolare l’accoglienza in modo strutturale nella tutela del bene di tutti”.

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Mons. Negri: immigrazione, sindaci, obiezione di coscienza a solo scopo elettorale

Monsignor Negri: “Usare l’obiezione di coscienza per fare politica è sbagliato”

L’Arcivescovo emerito di Ferrara si smarca dalla linea Bagnasco. «Chi vuole integrarsi deve fare passi di immedesimazione nella società».
I sindaci sbagliano a puntare sull’obiezione di coscienza contro il decreto sicurezza. L’integrazione deve essere affrontata con prudenza e realismo mettendo al centro diritti e doveri insieme. Lo afferma monsignor Luigi Negri, classe 1941, arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio e teologo.
Nella presente versione l’intervista è stata arricchita da citazioni di riferimento alla pluri-secolare dottrina cattolica.

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 Eccellenza, che cosa ne pensa dell’obiezione di coscienza evocata dai sindaci contro il decreto sicurezza?
«La Costituzione italiana e una prassi consolidata fanno sì che non si possa tirare fuori l’obiezione di coscienza di fronte a tutto, in chiave politica, soprattutto in particolare di fronte a disposizioni amministrative di un governo… e magari dagli stessi che l’hanno finora negata proprio lì dove era invece legittima e doverosa.
Il diritto all’obiezione va difeso quando sono messi in crisi principi fondamentali.
Quei sindaci che usano dell’obiezione di coscienza – volutamente come strumento politico – nei confronti di legittimi interventi di autorità superiori o pari, abusano del concetto
».

  • [«Il cittadino è obbligato in coscienza a non seguire le prescrizioni delle autorità civili quando tali precetti sono contrari alle esigenze dell’ordine morale, ai diritti fondamentali delle persone o agli insegnamenti del Vangelo», CCC 2242]

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Vescovi coraggiosi. Mons. Crepaldi: l’islam problema politico, non religioso.

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L’integrazione che l’Islam non può accettare.
Esce il Rapporto su “Islam: problema politico”
dell’Osservatorio Van Thuân

Il decimo Rapporto dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân dedicato all’Islam politico (vedi qui ) «apre una pista nuova» e, cioè, non solo s’interroga sulla realtà dell’Islam politico, ma ne analizza la sua «compatibilità o incompatibilità con i principi della Dottrina sociale della Chiesa». Così scrive mons. Giampaolo Crepaldi[1], per via della poca attenzione dei media e del mondo politico e culturale nei confronti dell’impatto sociale che l’Islam ha in ambito europeo.

Due soltanto, a questo proposito, sembrano essere le preoccupazioni degli europei, a parere di Crepaldi.
Quanto alle istituzioni politiche, si pensa di arginare ogni problema con il solo «principio di tolleranza».
Quanto alla Chiesa cattolica, l’unica preoccupazione gira attorno all’urgenza di avviare il «dialogo interreligioso».
Entrambi gli ambiti – civile e religioso – sembrano fondare ogni futura iniziativa nei confronti degli immigrati o dei cittadini musulmani sul «principio della libertà religiosa».

Calibrare tutto sulla libertà religiosa, però, «è insufficiente» – sostiene l’arcivescovo, poiché «in questo modo non si affronta il problema della verità delle religioni e quello delle particolarissime caratteristiche della religione islamica». Proprio a motivo della natura teologica dell’Islam, ad esempio, non ci si può limitare alla questione della semplice tolleranza, poiché da parte islamica non vi può essere un contraccambio, al punto che «un certo fondamentalismo è inseparabile» dalla religione di Maometto.

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Caccia alla ragazzine bianche

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Maxiblitz della polizia in Gran Bretagna

 Anche a Newcastle le gang islamiche
vanno a caccia di ragazzine bianche

  “Tutte le donne bianche sono buone solo a una cosa. Per gli uomini come me sono da abusare e utilizzare come spazzatura. Nient’altro“.
A parlare è uno degli imputati coinvolti in quella che è stata battezzata “operazione santuario”: l’ennesima indagine su sfruttamento sessuale e abuso di minori per mano di “asiatici” in Gran Bretagna.
 E’ balzata agli onori della cronaca non troppe ore fa dopo che a Newcastle diciassette uomini e una donna sono stati ritenuti colpevoli – la sentenza definitiva arriverà a settembre – di abusi e spaccio di droga. Niente di nuovo sotto il sole d’Inghilterra, insomma, neanche per questa estate.

L’inchiesta di grandi dimensioni, di cui Newcastle è solo la punta di diamante ha portato, fino ad ora, all’arresto di 461 persone, all’interrogatorio di 703 denunciati e contato almeno 700 vittime.

Tutte bianche e di età compresa tra i tredici e i vent’anni.

Siamo di fronte al settimo scandalo che ha per protagonista una gang islamica che ha colpito il Regno Unito dopo i casi infami di città come Rotherham, Rochdale, Oxford e Bristol, e di cui vi abbiamo già raccontato.

La banda dei diciotto “asiatici” – come piace chiamarli al politicamente corretto – di Newcastle usava adescare ragazzine e adolescenti con festini in cui droga e alcool erano l’esca e contemporaneamente il mezzo con cui avvenivano le violenze sessuali. Abusi che spesso si perpetravano ai danni di tredicenni e quindicenni in completo stato di incoscienza.

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La comunità internazionale e la furia islamica

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Il terrorismo islamico in Africa

In Nigeria Boko Haram fa scempio di chiese, donne e bambini

4 Ago 2017

 

Boko haram

Le storie di terrore e di paura, di inferno e di dolore targate, ancora una volta, islam, in Nigeria si intrecciano e si perdono nel nulla. La furia islamica, si sa, non conosce misericordia e una terra come la Nigeria ne è testimone muta e inerte. Come, d’altronde, il resto della comunità internazionale. La Nigeria non è in stato di guerra e ha un’economia che ha superato quella del Sud Africa, eppure uno degli ultimi rapporti della Food and Agriculture Organization (Fao), prevedeva che “la più grave crisi umanitaria in Africa, nel nord-est della Nigeria, si aggraverà tra giugno e agosto”. E le cose stanno esattamente così. La sicurezza alimentare e nutrizionale viene sempre più meno. Come già scritto su queste pagine, da una parte la corruzione endemica e l’incapacità di governo delle classi dirigenti locali, dall’altra l’imposizione della legge islamica tengono il Paese nella povertà e in una morsa di terrore.

E poi c’è Boko Haram (il nome significa “vietata l’educazione occidentale”). “Gli uomini di Boko Haram sono venuti a casa mia, hanno portato via tutto e poi hanno intimato a mio marito di convertirsi all’Islam. Quando ha rifiutato lo hanno ucciso davanti ai miei occhi”. E’ Esther a parlare, e come lei ce ne sono tantissime. C’è Rose il cui marito è stato ucciso a bruciapelo per aver rifiutato l’islam. E poi c’è Agnes e i suoi 9 figli da crescere da sola e nemmeno una degna sepoltura per il marito sgozzato. Il vescovo di Maiduguri, a nord della Nigeria, racconta di almeno 5mila casi simili. Cinquemila donne rimaste vedove per mano dei terroristi islamici. Così oltre le circa 20.000 vittime della violenza di Boko Haram – che si contano fino ad ora – ci sono le vite di donne e bambini segnate irrimediabilmente.

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L’accusa infuocata di un gesuita egiziano

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 Il «J’accuse!» di Padre Henri Boulad, gesuita egiziano

 J’accuse! Padre Henri Boulad, gesuita egiziano esperto di islam, lancia un’infuocata filippica al mondo accademico musulmano e alle gerarchie ecclesiastiche cattoliche 

 Henri Boulad, 86 anni, dall’età di 19 anni membro della compagnia di Gesù. Una vita dedicata all’Egitto e alla sua ricca, vivace e numerosa comunità cristiana. In seguito ai recenti attentati contro i Copti ortodossi, ha deciso di uscire allo scoperto e pubblicare una lucida riflessione sul rapporto tra islam e violenza, intitolata J’accuse! 
 Un’analisi tanto profonda quanto inequivocabile che merita di essere letta, i cui contenuti sono stati approfonditi dallo stesso padre Boulad nel corso di una lunga intervista rilasciata a TV Libertés, in Francia, la settimana scorsa.

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TVL: padre Boulad, qual è la situazione dei cristiani in Egitto e qual è il loro ruolo in seno alla società?
HB: Su novanta milioni di abitanti, in Egitto vi sono dieci milioni di cristiani, duecentomila dei quali sono cattolici e il resto copti ortodossi. L’importanza morale e culturale della comunità cristiana è, al di là dei numeri, considerevole. Nel paese troviamo centosettanta scuole cattoliche private che rappresentano un’eccellenza assoluta, scuole che sono frequentate al 60% da studenti musulmani.

TVL: dopo i recenti attentati contro la comunità cristiana lei ha pubblicato una dura riflessione volta a destare le coscienze. A chi è rivolto, in particolare, il suo J’accuse! ?
HB: io accuso l’apparato ideologico che favorisce il comunitarismo, il radicalismo e, di conseguenza, il terrorismo islamico. Io accuso l’islam, poiché l’ideologia islamica è la fonte primaria del terrorismo.
Questa ideologia è costantemente e ufficialmente veicolata nelle scuole e nelle grandi università islamiche che formano gli imam. Essa è presente nelle fonti e nei testi fondamentali: il corano, gli hadith, la vita di Maometto etc., fonti che legittimano l’odio e la violenza dei musulmani verso i non-musulmani.
Se noi leggiamo questi testi, ci accorgiamo che coloro che chiamiamo “terroristi” sono in realtà coloro che mettono in pratica alla lettera i dettati coranici nonché l’esempio di Maometto stesso.
Io ho quindi deciso di denunciare le vere cause del pensiero estremista perché occorre avere il coraggio di dire che non si tratta di fonti islamiste ma di fonti islamiche in tutto e per tutto, io voglio denunciare ciò che l’islam è e ciò che l’islam insegna.
Occorre avere il coraggio e l’onestà intellettuale di riconoscere che il primo centro di radicalizzazione islamica del mondo intero è l’università al-Azhar del Cairo (dove papa Francesco si è recato di recente). Si tratta della più importante università sunnita ed è presentata in tutto l’occidente come un’istituzione moderata e tollerante, ma non è così! 
Un esempio illuminante che dimostra quanto sia ingannevole pensare all’al-Azhar come ad un’istituzione moderata: di recente il presidente Al-Sisi ha a più riprese richiesto ufficialmente ed espressamente ai vertici dell’al-Azhar di sopprimere ogni insegnamento facente riferimento alle fonti islamiche che incitano all’odio e alla violenza contro ebrei e cristiani. Tali richieste sono sempre cadute nel vuoto.
Perché questo? Perché odio e violenza sono parte integrante e insopprimibile delle fondamenta dell’islam e quindi non possono non fare parte dell’insegnamento ufficiale degli imam e, di conseguenza, della loro predicazione. Sono proprio gli imam formati ad al-Azhar che in molte, troppe, moschee d’Europa vanificano ogni speranza di integrazione alla società occidentale delle nuove generazioni di giovani musulmani. 
L’università al-Azhar del Cairo è il primo destinatario del mio J’accuse! perché essa è il primo responsabile del radicalismo che si diffonde in tutto il mondo.

TVL: se da un lato il mondo musulmano si radicalizza, dall’altro vi sono nuovi pensatori o filosofi impegnati nella diffusione di un islam più moderato che mette da parte le fonti inneggianti all’odio?
HB: è necessario distinguere l’islam dai musulmani. Una cosa è l’ideologia religiosa (e le istituzioni che la propagano), un’altra sono i c.d fedeli. Io ritengo che i musulmani siano le prime vittime dell’islam, del fascismo islamico. Molti di questi musulmani sono in realtà persone pacifiche.
Il fascismo islamico invece non lo è, e non può essere assolto.
Ritengo più coerente assolvere i terroristi che spesso sono cresciuti o sono stati immersi, nutriti a forza, di ideologia islamica e non hanno fatto altro che metterla in pratica, non hanno fatto nulla di diverso da ciò che i testi sacri, corano in primis, chiedono loro di fare.
Non è semplice dare un giudizio sulle “masse” del mondo musulmano.
Certo, al suo interno vi sono i giovani, vi sono i liberal-progressisti, che non accettano il radicalismo imposto dal “clero” islamico, in essi c’è la voglia di rompere le catene dell’ortodossia e dell’ortoprassia islamica. Tuttavia, si tratta di istanze ancora troppo minoritarie e, cosa ancor più grave, senza rappresentanza politica.
La maggioranza dei musulmani non chiede riforme e nello stesso tempo professa e vive una fede edulcorata, soft, limitandosi a rispettare la preghiera, il ramadan e parte dell’ortoprassi riguardante l’abbigliamento femminile o le regole alimentari, niente di più.
La stragrande maggioranza dei musulmani vive seguendo uno standard di regole sufficienti per essere accettati in seno alla umma, per mescolarsi alla comunità dei fedeli, senza preoccuparsi dell’islam ufficiale.
Questo perché l’islam, il vero islam del corano, degli hadith, l’islam dell’al-Azhar è semplicemente invivibile per la gente normale. Invivibile perché non lascia vivere. L’uomo è fatto per vivere tranquillo non per fare la jihad o per odiare. 
In Egitto, coloro che incitano e predicano il vero islam, gli interpreti dell’islam delle fonti ufficiali, sono i Fratelli musulmani, non certo dei moderati… messi fuori legge da Al-Sisi, ma presenti ovunque, dappertutto, per questo l’islam non riesce a “modernizzarsi” e fallisce ineluttabilmente il necessario giro di boa della pace, del rifiuto dell’odio. 

TVL: père Boulad, il vostro J’accuse! è rivolto anche alle gerarchie cattoliche, tanto francesi quanto vaticane. Perché? 
HB: perché i vertici della Chiesa sono troppo compiacenti nei confronti dell’islam radicale!
Dal 1965, dal concilio vaticano II, la Chiesa ha deciso di iniziare un cammino di dialogo con l’islam. Quali sono i risultati di questo mezzo secolo di dialogo? Che quei paesi che un tempo erano le roccaforti della cristianità sono pieni di moschee mentre il mondo musulmano non conosce altro che discriminazioni, minacce e persecuzioni ai danni dei cristiani! Uccisi, cacciati! Che bel dialogo…
Non mancano i testi, i congressi, le conferenze, i caffè insieme, le dichiarazioni congiunte con i musulmani… abbiamo visto il papa recentemente al Cairo. E poi? Risultati concreti? Zero assoluto.
Per questo motivo, sono convinto che il solo vero dialogo provvisto di senso sia quello costruito sulla verità e sulla ragione. A carte scoperte, sul tavolo, come ebbe il coraggio di fare papa Benedetto XVI. Il coraggio di mettere il dito nella piaga, sfidando il politicamente corretto, e di domandare ai musulmani: “cosa volete farne delle incitazioni alla violenza e all’odio presenti nei vostri testi sacri e nell’insegnamento che da essi derivate?”.
Le conseguenze del discorso di Ratisbona furono alquanto paradossali. Da un lato, in occidente il Papa è stato accusato di intolleranza, razzismo e quant’altro, mentre nei paesi islamici si bruciavano chiese e si ammazzano i preti! 
È chiaro che ognuno, cristiani e musulmani si richiama ai propri testi sacri, un punto d’incontro non può che essere trovato che sui valori comuni, la pace, il rispetto reciproco, la ragione, e sul riconoscimento dei fatti storici.
Ma siamo sicuri che l’islam sia pronto a questo passo? Guardando gli ultimi mille e cento anni di storia e ancor più gli ultimi cinquant’anni…direi di no.

TVL: il papa attuale, papa Francesco, è come voi un gesuita, questa circostanza non vi aiuta a dialogare con lui, a capire la sua strategia o a cercare di elaborarne una più efficace?
HB: Qualche mese fa gli ho scritto una lettera: “padre santissimo e fratello carissimo – visto che siamo entrambi gesuiti – vi ammiro e vi stimo ma permettetemi di farvi notare due cose. Primo, l’islam con il quale dialogate e del quale parlate voi non lo conoscete! (visto che in Argentina la presenza musulmana è pressoché inesistente), poiché l’islam è quasi impossibile da capire finché non ci si è vissuti con, a fianco, dentro! non si può studiare sui libri, non basta! 
Secondo: questa invasione dell’Europa da parte di migranti musulmani che benedite e incoraggiate, merita una riflessione più profonda”.
A questa mia lettera, il papa non ha mai risposto. So con certezza che il cardinal Schönborn gliel’ha consegnata personalmente.
Allora ho deciso di tradurre la lettera in spagnolo e di fargliela consegnare da un amico, vescovo egiziano, in occasione della sua visita recente in Egitto, quindi l’ha ricevuta anche questa volta. E anche questa volta non mi ha risposto.
Ovunque, trovo persone che mi confermano che il papa risponde, o fa rispondere ai suoi segretari, anche ai biglietti di auguri di Natale. 
Eppure a me, suo confratello, più anziano per giunta, della Compagnia di Gesù, che si rende disponibile a dialogare con lui su uno dei temi più scottanti della nostra epoca, niente, non risponde. Sono francamente sorpreso, e un po’ amareggiato.

L’integrale, in francese dell’intervista a padre Boulad, di cui questo pezzo è la fedele traduzione dei primi 20 minuti, può essere trovato su YouTube sul canale di TV Libertés.
Sempre in rete è disponibile, a questo link, il testo integrale del J’accuse! di padre Henri Boulad: 
https://www.christianophobie.fr/cartes-des-evenements/2017/042017/pere-henri-boulad-jaccuse

A cura di Luca Costa, martedì 25 luglio 2017 da: http://www.culturacattolica.it/attualit%C3%A0/in-rilievo/ultime-news/2017/07/25/il-j-accuse-di-padre-henri-boulad-gesuita-egiziano

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Ius soli o Ius sanguinis?

  • Categoria dell'articolo:Islam

 Ius soli o Ius sanguinis?  Questa l’accesa, e a tratti violenta, diatriba politica che negli ultimi giorni ha infiammato il dibattito pubblico, dopo l’approdo al Senato del disegno di legge, approvato alla Camera alla fine del 2015 che, se promulgato, riconoscerebbe automaticamente la cittadinanza italiana a tutti coloro che nascono sul territorio italiano.

Un’epocale cambiamento del nostro istituto giuridico che, con un colpo di spugna, cancellerebbe il secolare principio della discendenza di sangue, per il quale il titolo di cittadino viene trasmesso per diritto, di padre (o madre) in figlio, o attraverso avi di accertata nazionalità italiana.

Il tema è di quelli fortemente divisivi e ha dato vita a schieramenti contrapposti. Da un lato, i favorevoli della “polis universale” e della “cittadinanza globale” che vedono questa legge come una doverosa concessione “umanitaria” e una miracolosa panacea che risolverebbe, d’un tratto, tutti i problemi di integrazione. Sull’altro fronte, i contrari che, all’opposto, in tale disegno di legge, scorgono nitidamente una catastrofe annunciata che porterà a conflitti razziali e alla svendita totale della nostra identità culturale.

All’interno dell’emiciclo, la legge è voluta e sostenuta da tutto il “Partito Democratico” e da “Area Popolare” di Angelino Alfano, mentre sono contrarie le principali forze di opposizione: Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia. Il Movimento 5 Stelle ha, per evidente opportunità politica, preferito astenersi su un tema così “spinoso”, come già aveva fatto alla Camera, anche se è facile immaginare che la maggioranza dei suoi deputati per formazione politica sia certamente a favore.

Come spesso accade, anche in tale contesa, i minori sono stati strumentalizzati per impietosire e manipolare l’opinione pubblica. Dare la cittadinanza ai poveri e sfortunati bambini in fuga dalla fame e dalle guerre che «parlano la nostra lingua, frequentano le nostre scuole, ecc. ecc.» sembra essere infatti l’argomento principale utilizzato dai sostenitori dello jus soli per spiegare la bontà e la ragioni di una legge che permetterebbe finalmente a questi bambini di sentirsi accolti e “a casa”.

Tuttavia, non ci sembra questo il punto dal quale partire per analizzare e valutare il problema, dal momento che, per altro, questi minori arrivati in Italia, secondo la legislazione attualmente in discussione al Senato, non avrebbero comunque diritto alla cittadinanza, in quanto non nati sul suolo italiano.

Inoltre, in realtà, già da tempo in Italia i minori stranieri, sia che figli di immigrati regolari che di clandestini, godono degli stessi diritti dei minori italiani e raggiunta la maggiore età (18 anni) possono richiedere la cittadinanza e dopo aver solennemente giurato sulla Costituzione diventare cittadini italiani a tutti gli effetti.

Come cambierebbe la legge

L’attuale legge sulla cittadinanza introdotta nel 1992, contempla un’unica modalità di acquisizione diretta, denominata ius sanguinis (dal latino, “diritto di sangue”): un bambino ha diritto alla cittadinanza italiana se almeno uno dei genitori è italiano. Un bambino nato da genitori stranieri, anche se partorito sul territorio italiano, può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e se dimostra di essere, fino a quel momento, risieduto in Italia «legalmente e ininterrottamente».

La legge incriminata introduce due nuovi criteri per ottenere la cittadinanza prima dei 18 anni: il cosiddetto ius soli temperato o “diritto legato al territorio” e lo ius culturae o “diritto legato all’istruzione”.

La prima delle due strade per ottenere la cittadinanza italiana, ius soli “temperato”, a differenza dello ius soli puro, che prevede che chi nasce nel territorio di un certo stato ottenga automaticamente la cittadinanza (oggi è valido solo negli Stati Uniti, ma non è previsto in nessuno stato dell’Unione Europea), stabilisce che «un bambino nato in Italia diventi automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori si trova legalmente in Italia da almeno 5 anni. Se il genitore in possesso di permesso di soggiorno non proviene dall’Unione Europea, deve aderire ad altri tre parametri: 1) deve avere un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale; 2) deve disporre di un alloggio che risponda ai requisiti di idoneità previsti dalla legge; 3) deve superare un test di conoscenza della lingua italiana».

La seconda strada, ancora più agevolata, per ottenere la cittadinanza è invece quella del cosiddetto ius culturae, e passa attraverso il sistema scolastico italiano: «Potranno chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che abbiano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie). I ragazzi nati all’estero ma che arrivano in Italia fra i 12 e i 18 anni potranno ottenere la cittadinanza dopo aver abitato in Italia per almeno sei anni e avere superato un ciclo scolastico».

La cittadinanza nel mondo

Ma fuori di casa nostra come si regolano gli altri paesi? Riccardo Pelliccetti su Il Giornale, a dispetto dei fan dello ius soli, ha fatto notare come nel mondo vi siano ben 160 Paesi che non lo applicano e alcuni di questi che lo avevano adottato hanno fatto successivamente delle prudenti marce indietro: «lo ius soli è tipico dei Paesi anglosassoni, soprattutto il Nord America, territorio d’immigrazione, bisogna ricordare che la Gran Bretagna e l’Eire, dove era in vigore, hanno deciso di abolirlo, rispettivamente nel 1983 e nel 2005. Anche la Germania, che applica lo ius soli, ha messo dei rigidi paletti: cittadinanza ai nuovi nati solo se i genitori hanno un permesso di soggiorno da tre anni e risiedano nel Paese da almeno otto anni. Perché nel mondo allora nessuno lo adotta? Semplice: per tutelare la cultura e l’identità della popolazione e, quindi, la sua sopravvivenza, messa a rischio da uno sbilanciamento etnico e demografico con generazioni che per cultura e fede difficilmente potranno integrarsi nella comunità nazionale».

Anche il politologo Roberto Marchesi, dalle colonne del Il Fatto Quotidiano, in un interessante articolo, ha illustrato i motivi per i quali introdurre lo ius soli in Italia sarebbe una vera e propria “follia”, spiegando come, negli Stati Uniti, l’introduzione della cittadinanza per nascita abbia agito, a suo tempo, da attrattore di mano d’opera a buon mercato, salvo costringere poi negli ultimi anni l’amministrazione americana a costruire un «muro lungo quanto o più della muraglia cinese tra Usa e Messico» per cercare di arginare «l’immigrazione clandestina dal Centro e Sud America».

Per questo secondo Marchesi, «se l’Italia adottasse lo ius soli spalancherebbe la sua già malandata porta d’ingresso a una ondata migratoria dall’Africa (e da tutti i Paesi della confinante Asia Indo-Europea) che sarebbe l’equivalente di uno tsunami umano di proporzioni bibliche. L’Italia non ha attualmente alcun bisogno di mano d’opera a basso costo, ha al contrario bisogno di dare lavoro a una marea di italiani in cerca di lavoro a un livello di paga minima degno degli standard europei. Attivando lo ius soli si amplierebbe all’infinito la possibilità di attribuire a chiunque la cittadinanza italiana senza nemmeno coinvolgere in questo tutta l’Europa. Diventeremmo così la colonia d’Europa. Luogo di arrivo e primo ostello (e crescente povertà) per la procreazione di tutta la futura mano d’opera a basso costo d’Europa».

A conferma del cupo scenario prospettato da Marchesi, l’Osservatorio parlamentare di politica internazionale ha recentemente pubblicato un inquietante dossier intitolato La situazione occupazionale sulle sponde del mediterraneo che certifica, dati alla mano, la drammatica “transizione demografica” in corso nel Mediterraneo a causa del progressivo invecchiamento della popolazione e della incessante contrazione demografica, per la quale, nello spazio di pochi decenni avremo -2% di europei, +50% di africani e +67% di mediorientali. «Oggi – si legge nel documento – i paesi membri dell’Ue rappresentano il 39,2% del totale Med, che sommato al 16,6% dei ‘candidati’ porta il totale al 55,8%. Il restante 44,2% è composto dalla popolazione del Medio oriente (8,7%) e da quella del nord Africa (35,5%). Gli europei che si affacciano sul Mediterraneo oggi sono più della metà del totale ma, tra 35 anni, scenderanno al 46,3% e, di conseguenza, avranno perso la “maggioranza”. Il 53,7% sarà invece composto da Nord africani e medio orientali, che nel 2050 saranno 120,8 milioni in più rispetto ai numeri del 2015. (…) In un solo secolo il mediterraneo cambierà completamente la sua demografia, con quelli che una volta rappresentavano il 76,3% della popolazione che si ritroveranno sotto la soglia del 50%».

In ultima analisi, non è possibile valutare l’adozione di una legge “impattante” come lo ius soli senza considerare il problema dei problemi, ovvero l’Islam.

È evidente come il conferimento della cittadinanza automatica ai figli dei tantissimi immigrati già residenti in Italia accelererebbe in maniera cruciale la già costante e sostenuta crescita demografica della popolazione musulmana nel nostro paese, rendendo realtà quanto profetizzato da Houari Boumediene nel 1974 dagli scranni delle Nazioni Unite: «Un giorno milioni di uomini lasceranno l’emisfero sud per fare irruzione nell’emisfero nord. E non in modo amichevole. Verranno per conquistarlo, e lo conquisteranno popolandolo con i loro figli. È il ventre delle nostre donne che ci darà la vittoria».

In questo senso, l’adozione dello ius soli rappresenta un formidabile e suicida assist servito su un piatto d’argento ai fautori della strategia d’espansione islamica, per così dire,“soft”, in quanto alternativa a quella “dura” rappresentata dal terrorismo, che mira a conquistare il potere per vie pacifiche attraverso i nostri stessi mezzi democratici. Ed è proprio in questa prospettiva che recentemente l’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (UCOII), la più diffusa e radicata organizzazione islamica presente in Italia, ha dato vita alla “Assemblea Costituente islamica” come strumento finalizzato a «dare ai musulmani una rappresentanza eletta», ovvero a costituire un partito politico islamico che possa un domani non così lontano rappresentare le istanze del Corano nel nostro Parlamento.

(Lupo Glori, per https://www.corrispondenzaromana.it/ius-soli-o-ius-sanguinis/)

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Il Califfo su YouTube…

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… e la rivolta degli inserzionisti di Google 

 

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 E' nella pericolosissima terra di mezzo di internet che la "chiamata" alla Jihad, la Guerra Santa, viene alimentata da anni e con successo dal terrorismo islamico. Il collegamento tra la piattaforma video YouTube e il terrore jihadista è quanto mai radicato. I terroristi islamici hanno capito che la piattaforma video più famosa al mondo può essere essere letale come i coltelli che usano per sgozzare gli "infedeli". I jihadisti utilizzano proprio i video per diffondere il loro messaggio, reclutare nuova manovalanza, indottrinarla e organizzare attentati. All'inizio di giugno il Telegraph raccontava che l'antiterrorismo inglese era riuscito a monitorare i movimenti di una cellula jihadista nella zona del London Bridge – prima dell'attentato – proprio attraverso YouTube, eppure la piattaforma proprietà di Google non è servita a impedire la carneficina. YouTube è diventato un covo virtuale per imam ed esperti reclutatori di "martiri", ogni video pubblicato è stato, ed è, parte della missione contro l'Occidente.

Eppure YouTube tende a rimuovere raramente questo tipo di contenuti criminali. Dei 100 video di Osama bin Laden e della glorificazione dell'attacco alle Torri Gemelle 58 sono rimasti on line fino ad oggi. Sono passati anni dall'11 Settembre, ma quei video sono ancora lì. Dei 127 video contrassegnati come pericolosi di Anwar al-Awlaki – imam statunitense naturalizzato yemenita – 111 non sono stati toccati. Dei 125 ritenuti più sensibili del leader di Al Qaeda, Ayman Al-Zawahiri, 57 sono ancora reperibili. E si potrebbe continuare a lungo. Recuperare filmati che suonano più o meno con un "ecco come muore un soldato di Allah", oppure "i martiri dell'islam muoiono con il sorriso" è alla portata di tutti.

YouTube a riguardo offre una vetrina ben fornita, e nella stragrande maggioranza dei casi, al massimo, la piattaforma video vi avviserà che si tratta di "age-restricted content", contenuti inadatti ai minori, e vi chiederà un mero click per procedere, così che in totale libertà potrete godere dello spettacolo: le immagini di cadaveri sorridenti sono online e sono fonte d'ispirazione per le giovani leve islamiste. Qualche settimana fa, l'Istituto di ricerca del Medio Oriente (MEMRI) ha pubblicato un rapporto che rivela la totale incapacità di Google nel rimuovere i contenuti inneggianti all'odio (hate speech) che promuovono e organizzano il terrorismo islamico. E' più o meno dal 2010 che viene chiesto ai padroni di internet di intervenire sui contenuti islamicamente sensibili e in più occasioni anche Google ha promesso che sarebbero stati più attenti, eppure in questi anni non è cambiato praticamente nulla. 

Anche perché i jihadisti sfruttano gli strumenti digitali per la loro 'missione' non solo per tutte quelle operazioni che vanno dal reclutamento al proselitismo, ma anche per la raccolta di fondi necessari al finanziamento della loro guerra santa. Già un'inchiesta del Times aveva evidenziato l'utilizzo da parte dello Stato islamico & Co delle pubblicità di celebri marchi per ottenere denaro dai click sui loro video. E poco male se si tratta di marchi e prodotti che sono l'esemplificazione di quello stile di vita tutto occidentale che i jihadisti odiano tanto, tutto può servire alla causa: dai suv delle più prestigiose aziende automobilistiche ai supermercati snob, persino istituti di ricerca e ong per i malati terminali.

E' stato calcolato che i terroristi incassano decine di migliaia di sterline ogni mese: considerato il numero di visualizzazioni dei video e che ogni migliaio di click gli permette di incassare circa 7 euro, le casse della jihad informatica non sono mai vuote. Non è un caso che a marzo importanti marchi come At &T, Verizon, Johnson & Johnson, Enterprise Holding e GSK hanno iniziato a ritirare l'autorizzazione della pubblicità a Google Inc. – proprietario di You Tube – per non correre più il rischio di finire sponsor della propaganda islamica. Eppure quelli di YouTube garantiscono che il loro "staff visiona video segnalati 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana per determinare se violano la nostra Comunità", ma a quanto pare c'è qualcosa che non funziona. Secondo la società di analisi Nomura Instinet, You Tube potrebbe perdere fino a 750 milioni di dollari in introiti pubblicitari a causa di quei contenuti sponsorizzatri che vanno a finanziare il terrorismo e chi promuove l'omicidio su vasta scala. Una cifra che non rischia di mettere nei guai le casse di Google, ma che testimonia che gli inserzionisti siano sempre più preoccupati.

In un editoriale del Financial Times, uno dei consulenti di Google ha ammesso l'esistenza di contenuti terroristici e promesso l'impegno a renderne più complicata la pubblicazione con un non meglio specificato "metodo di reindirizzamento per disperdere i messaggi di reclutamento dei jihadisti". Eppure in Italia il Codacons ha denunciato come inadatti e inefficaci i sistemi di controllo, come pure i "gravi ritardi nell'attività di intervento di Google". Non si riesce a capire come sia possibile che nessuno sia capace di bloccare la diffusione di certi contenuti, non si riesce a spiegare perché risulti tanto difficile per l'antiterrorismo prevenire le stragi con gli stessi sistemi con cui questi soggetti le organizzano, resta misteriosa la scelta dei padroni di internet di affidare la gran parte del lavoro a meri algoritmi che intelligenti quanto vuoi restano pur sempre una macchina che può essere aggirata dai malintenzionati.

E comunque il problema non è solo l'estrema inerzia con cui Google si sta muovendo per trovare un rimedio, ma che cosa, in questo momento, è censurato dai signori di Internet e cosa no. Appena si osa uscire dagli schemi del politicamente corretto, interviene una sorta di "polizia del pensiero", che si mette a 'perseguitare', penalizzandoli, vlogger con centinaia di migliaia di fan ma allergici al pensiero dominante, e che di certo non mostrano immagini di teste decapitate. Lo stesso impegno però a quanto pare non viene profuso con i video del terrorismo islamico. Se il paragone poi è quello tra gli sforzi, le forze impiegate e gli investimenti profusi da Google per contrastare la islamofobia, e quelli fatti invece per prevenire indottrinamento e reclutamento jihadista, la bilancia pende dalla prima parte. E' evidente che questo stato di cose proseguirà almeno fino a quando i padroni del web non smetteranno di trattare i musulmani come una specie di "gruppo protetto", non curandosi dei pericoli del terrorismo in Rete. 

Siamo in un clima culturale (o multiculturale) che ha compromesso il significato di parole ed espressioni come "incitamento all'odio", "terrorismo", "estremismo", "religione di pace", lasciando che questi concetti assumessero dei contorni vaghi e indeterminati, fornendo a Google e YouTube i giusti paraocchi. Per esempio non si ammette mai che quello del terrorismo islamico sia incitamento all'omicidio di massa: in questi termini ogni prospettiva sarebbe davvero ridimensionata. Due pesi e due misure? Così sembra. C'è una strana atmosfera sul web e nel mondo occidentale, in cui una perversa malizia sventola sul concetto di libertà di parola. E in questo silenzio imbarazzato e imbarazzante, gli unici a rallegrarsi sono i terroristi islamici.

 

di Lorenza Formicola | 28 Giugno 2017 | https://www.loccidentale.it/articoli/145779/il-califfo-su-youtube-e-la-rivolta-degli-inserzionisti-di-google

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Città islamiche in Europa

  • Categoria dell'articolo:Islam

 “Sharia controlled zone”

 Nel 2014, quando il “Califfo dei musulmani”, dal pulpito della moschea irachena di al Nuri, vagheggiava un ipotetico quanto sconfinato Califfato universale, destinato ad estendersi al di là delle porte d’Europa, nessuno lo prese troppo sul serio. Ma, in realtà, la colonizzazione era in atto da un pezzo.

Il Vecchio Continente brulicava già di piccole roccaforti sharitiche. Quartieri-ghetto, cittadine-enclaves dove, nel corso degli anni, un numero sempre crescente di musulmani si è radicato e radicalizzato preparando così il terreno europeo ad accogliere il seme dell’intolleranza. Francia e Gran Bretagna ma anche BelgioOlandaGermaniaSvezia e Danimarca. Queste sono alcune delle capitali europee dove paura, e Sharia, fanno novanta. Insomma, non solo il quartiere Molenbeek di Bruxelles, che lo scorso anno offrì protezione all’ex primula rossa del Bataclan, ma un vero e proprio network di satelliti del Califfato all’ombra dell’Unione. “Le società semi-autonome”, di cui parlava Douglas Murray, esperto inglese di immigrazione e direttore della Henry Jackson Society, l’indomani dell’arresto di Salah Abdeslam.

A partire proprio dalla Francia, teatro dell’assalto pionieristico alla redazione di Charlie Hedbo che, nel 2015, ha inaugurato una lunga stagione di sangue. Oltralpe vengono chiamate “Zus” (Zone urbane sensibili) e, secondo le autorità di Parigi, sono 751 in tutto il Paese ed ospitano almeno 5milioni di musulmani. Una di queste è Sevran, banlieue di 50mila anime, nel dipartimento della Senna-Saint-Denis, dove il 90 per cento degli abitanti sono di origine straniera.

Nel Regno Unito, invece, c’è il “Londonistan”. Un’area apparentemente unita che, a dispetto del nome, interessa tanto la metropoli inglese quanto altre zone. Una specie di confederazione nera che finisce col racchiudere quasi tutte le città del Regno Unito: da Liverpool e Manchester e Leeds, da Birmingham a Derby, e Bradford, oltre a Derby, Dewsbury, Leicester, Luton, Sheffield, per finire con Waltham Forest a nord di Londra e Tower Hamlets nella parte orientale della Capitale. Difficile non rendersi conto di dove comincia questo stato nello stato perché persino i manifesti sono lì a ricordare che “stai entrando in una zona controllata dalla Sharia”.

In Belgio, ormai, tutti conoscono Molenbeek. L’esempio più lampante della “segregazione autoimposta in grandi città” a cui fa riferimento Murray nell’intervista rilasciata a Il Foglio. Qui nessuno, anche se non islamico, è autorizzato a bere o mangiare in pubblico durante il Ramadan. Le donne sono rigorosamente velate ed è bandita ogni attività ritenuta “haram” dalla legge coranica che, progressivamente, si è andata a sostituire a quella dello Stato. Bere alcool ed ascoltare musica sono attività non gradite. Come, altrettanto sgradito, fu il blitz con cui l’antiterrorismo parigina mise finalmente le manette ai polsi di Salah Abdeslam. Ma che il quartiere offrisse protezione ai terroristi non lo si è certo scoperto in quell’occasione. In altri anni, Molenbeek, si era già distinta per aver ospitato il gotha del jihadismo internazionale. Stiamo parlando di personaggi del calibro di Abdessatar Dahmane, uno degli assassini di Ahmad Shah Massoud, ma anche Youssef e Mimoun Belhadj e Hassan el-Haski, le menti degli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004.

In Olanda esistono 40 aree urbane off-limits, a partire dal distretto di Kolenkit, ad Amsterdam. Ma anche alcuni quartieri di Rotterdam come Pendrecht, Het Oude Noorden e Bloemhof. Utrecht deve fare i conti con la zona di Ondiep. Nella capitale, l’Aia, c’è il distretto di Schilderswijk, ex quartier generale del gruppo “Hofstadt”, che nel pianifico l’assassinio del regista Theo van Gogh.

Anche la Danimarca, così come gli altri Paesi scandinavi, deve fare i conti con il jihadismo diffuso. E, secondo le forze dell’ordine, il numero di persone vicine ad ambienti radicali ha subito un’impennata. Anche grazie a sobborghi enclavizzati come TingbjergNørrebro e Mjølnerparken, dove l’80 per cento dei residenti non ha origine danese bensì africana o mediorientale.

In Svezia, ancora convalescente dalla strage dello scorso aprile, la città più islamizzata è Malmo, dove il 30 per cento della popolazione è di fede musulmana. Lì si trova il Rosengaard, quartiere nato negli anni ‘60 ed abitato da soli migranti provenienti da Iraq, Afghanistan, Somalia e Balcani. In passato salì agli onori della cronaca, destando notevole scalpore, per via dell’apparizione di alcuni manifesti che minacciavano: “Nel 2030 prendiamo il controllo”.

La Germania ospita un gran numero di migranti e, nella Capitale, esiste Neukolln, uno dei più grande quartieri musulmani del Paese che, non a caso, è stato ribattezzato “la provincia ottomana”. In proposito, Franz Solms-Laubach, giornalista parlamentare del quotidiano Bild, ha scritto: “Anche se ci rifiutiamo ancora di crederlo, intere zone della Germania sono governate dalla legge islamica. Poligamia, matrimoni di minori, giudici della sharia. Da troppo tempo non si fa rispettare lo Stato di diritto. Ci credereste che a Berlino un terzo degli uomini musulmani che vivono nel quartiere di Neukölln abbia due o più mogli?”

In Spagna, invece, c’è una regione intera chiamata “Xarq al Andalus” (Il Levante Spagnolo). Si tratta della porzione di Penisola Iberica affacciata sulla costa mediterranea che, storicamente ottomanizzata, è rivendicata oggi come parte integrante del Califfato islamico. Ma, per i soggetti più radicalizzati, il richiamo non è solo storico ed ideale. Secondo Soeren Kern, analista europea per l’Istituto Gatestone a New York, infatti, le recenti misure antiterrorismo varate da Parigi avrebbero causato una specie di piccola diaspora islamica verso in Spagna.

Ultima, non certo per importanza, è l’Italia. La cui intelligence è recentemente finita al centro delle polemiche per non aver saputo neutralizzare Youssef Zaghba, il terrorista italo-marocchino che, assieme a due complici, ha fatto strage di pedoni sul London Bridge. La Capitale vanta un quartiere, quello di Torpignattara, che – in fatto di densità demografica dei credenti musulmani – non ha nulla da invidiare a Molenbeek. Ma il vero “rischio banlieue”, secondo uno studio uno studio della Fondazione Leone Moressa, riguarderebbe di più altre città italiane come, ad esempio, Bologna. Nella Capitale, infatti, le periferie non sono ancora dei ghetti e la componente multietnica dei quartieri sembra aver scongiurato, per ora, l’avanzata della radicalizzazione.

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