Card. Caffarra: distruzione ecclesiastica del matrimonio?

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La comprensione della condizione in cui versa il matrimonio è oggi un compito particolarmente urgente. Da una parte, infatti, esso è entrato in una crisi istituzionale che non ha precedenti; dall’altra, essendo il matrimonio uno dei pilastri di ogni cultura, la sua crisi istituzionale non può lasciare indifferente nessuna persona pensosa dei destini dell’uomo.

A chi poi ha precise responsabilità ecclesiali e/o sociali è particolarmente urgente questo compito, perché non ci si sterilizzi in amari lamenti, ma data una diagnosi obiettiva, ciascuno si senta impegnato seriamente a far uscire il matrimonio da questa crisi.

La mia riflessione sarà molto essenziale: tanto da sembrare perfino … apodittica. Me ne scuso. Ma il poco tempo a disposizione per la nostra riflessione e l’obiettiva complessità della materia mi costringono ad un’esposizione del genere, per una sufficiente chiarezza didattica.

Enuncio subito la tesi centrale della mia riflessione.
E’ la seguente: nella post-modernità è giunto a termine il processo di de-costruzione dell’istituzione matrimoniale, così che ora ci troviamo nelle mani tanti pezzi di un edificio, che non hanno più un significato proprio, che derivava loro dell’insieme.

Prima di mostrarvi nei fatti questa tesi, devo spiegarla, in modo che ne sia chiaro il significato: senza equivoci.

Come dice anche il termine post-modernità, noi oggi ci troviamo al traguardo di un “processo culturale” connotato col termine modernità: stiamo raccogliendo i frutti maturi di una semina e coltivazione che ci hanno preceduto. Noi vogliamo vedere quali sono questi frutti maturi per ciò che riguarda l’istituzione matrimoniale. Il “processo culturale” connotato dal termine modernità, per ciò che riguarda il matrimonio, l’ho chiamato “processo di de-costruzione dell’istituzione matrimoniale”. Pensiamo ad un edificio: esso viene smantellato, smontato, de-costruito appunto pezzo per pezzo. E questo è stata l’opera della modernità.

Quale è il frutto maturo di quest’opera di de-costruzione? Esistono ancora tutti i pezzi, ma ormai privi del loro proprio significato.

Questa è la tesi centrale della mia riflessione. Come procederò? In un primo punto cercherò di mostrarvi il processo di de-costruzione dell’istituzione matrimoniale. Nel secondo punto, cercherò di mostrarvi quali sono i frutti di questa de-costruzione. Nel terzo punto cercherò di dare alcuni orientamenti fondamentali per poterci muovere dentro a una situazione obiettivamente molto difficile.

1. LA DE-COSTRUZIONE DELL’ISTITUZIONE

La de-costruzione dell’istituzione matrimoniale accade dentro alla, ed accompagna passo a passo la demolizione della soggettività della persona. La perdita di se stesso, che è la vera tragedia dell’uomo contemporaneo non poteva non coinvolgere anche la perdita dell’istituzione matrimoniale: persona e matrimonio “simul cadunt aut simul stant”.

Cercherò prima di mostrare positivamente la connessione persona-matrimonio [1,1]; vedremo poi come è accaduta la demolizione della soggettività della persona [1,2]; infine verificheremo come per una persona demolita nella sua soggettività risulti impensabile e quindi impraticabile l’istituzione matrimoniale [1,3].

 

1,1 [Persona e matrimonio]. Dobbiamo partire da una considerazione la più perspicace possibile della persona umana. La persona umana è la realtà più strana e paradossale che esista nell’universo poiché è “composta” di due elementi fra loro essenzialmente diversi: di materia (corpo) e di spirito. L’uomo è un corpo; l’uomo è uno spirito. Non voglio fermarmi a considerare la prima dimensione della persona, quella corporale: di essa abbiamo un’esperienza immediata. Mi fermo un momento a considerare la dimensione spirituale. Che cosa significa “l’uomo è spirito”? Significa che l’uomo, che ciascuno di noi è capace di compiere alcune azioni che nessun altro vivente è capace di compiere. Due precisamente: pensare ed amare. In che cosa consiste precisamente la spiritualità del pensare e dell’amare? Pensare significa capacità di far essere in se stessi l’altro senza farlo diventare se stessi, senza trasformarlo in se stessi, ma lasciandolo nel suo proprio essere. In questo modo, cioè pensando, io mi apro a tutto ciò che esiste: divento in un qualche modo tutto. Amare significa riconoscere la bontà dell’altro, stimarlo secondo la preziosità sua propria: volere il bene dell’altro in quanto è dell’altro (e non il mio bene!). E’ facile vedere come la nostra capacità di amare sia radicata nella nostra capacità di pensare. Ma su questo per ora non voglio fermarmi.

Dunque l’uomo, ciascuno di noi, è contemporaneamente corpo e spirito. Come è possibile questo “prodigio”? E siamo alla domanda più seria sull’uomo.

Comincerò a rispondere facendo un esempio. Se noi facciamo l’analisi chimica di un pezzo della Pietà di Michelangelo e l’analisi chimica di un pezzo di marmo di Carrara, il risultato è identico. Sono la stessa cosa? Nessuno può dire questo. Che cosa rende quel pezzo di marmo che è la Pietà diverso da qualsiasi pezzo di marmo? Il fatto che il primo è “in – formato” da un’altissima ispirazione artistica che gli dà una forma nella quale l’ispirazione risplende. Una cosa analoga accade nell’uomo, fin dalla sua origine. Il nostro corpo è come informato dal nostro spirito che lo plasma dal di dentro, lo configura ed attraverso il quale si esprime. Ecco chi è concretamente la persona umana: ciascuno di noi. Essa è questo particolare soggetto spirituale-corporale, capace di pensare e di amare e quindi capace di relazionarsi con ogni realtà. “L’uomo non è l’anima, ma qualcosa di composto dal corpo e dall’anima” (S. Tommaso d’A., 1,q.75,a.4c).

Facciamo ora un passo avanti nella scoperta del mistero della persona umana. Noi vediamo che non esiste una generica persona umana: esiste la persona umana-uomo ed esiste la persona umana-donna. Esiste cioè una fondamentale divaricazione o di-morfismo all’interno della stessa umanità. E’ inevitabile, per chiunque desideri conoscere l’intera verità sull’uomo, domandarsi: che senso ha questo dimorfismo? La prima risposta potrebbe essere la seguente. Considerando l’intero universo dei viventi, si vede che quanto più complesso è l’organismo tanto più la specie si perpetua attraverso il dimorfismo sessuale: l’uomo non fa che continuare questa costante biologica. E pertanto il dimorfismo sessuale ha un significato biologico: è in ordine ad una buona perpetuazione della specie.

La cosa è vera; ma non è interamente vera. Anzi detta così rischia di farci cadere in un grave errore: quello di non percepire la specificità umana del dimorfismo sessuale. E’ pericoloso voler capire l’uomo partendo dal basso!

Tenendo conto che l’uomo è unità di spirito-corpo, anche il dimorfismo sessuale non può essere un fatto puramente corporeo. Esso è un fatto che riguarda la persona. Non è un corpo che è maschio/femmina, è la persona che è uomo/donna. La mascolinità/femminilità appartiene alla persona stessa. Che cosa mi dice allora sulla persona il fatto che sia uomo/donna? Atteso che mascolinità-femminilità sono qualità “reciproche”, esse significano che la persona umana non esiste mai come “individuo a sé ed in sé stante”, ma esiste da sempre, originariamente, come “soggetto in relazione a….”. Ogni persona umana si trova “correlata all’altra”, poiché ogni persona nasce “uomo” o “donna”.

Il di-morfismo sessuale significa il carattere relazionale della persona, e nello stesso tempo rende la persona-uomo capace di porsi in relazione con la persona-donna. La sessualità è il “performative language” della relazione fra le persone.

Facciamo un ulteriore passo avanti nella scoperta del mistero della persona. Che cosa significa “relazione fra la persona-uomo e la persona- donna”? Più concretamente: quando esiste questa relazione? Non esiste quando si crea una sorta di “andro-gino”, un’unità indistinta nella quale l’uomo nega ciò che è proprio della sua mascolinità e la donna ciò che è proprio della sua femminilità.

Non esiste relazione, quando si costituisce attraverso il dominio-uso dell’uno nei confronti dell’altro. Questa relazione in realtà non è più inter-personale (fra due persone), ma si costituisce sulla base della degradazione di una delle due a cosa (di cui fare uso).

Non esiste relazione, quando si costituisce attraverso una sorta di contrattazione nella quale due libertà originariamente interessate solo alla felicità dell’individuo, convergono nella condizione di una parità fra il “dare-avere”. Questa relazione contrattuale nasce da una falsificazione dell’umanità della persona, e pertanto costruisce un’apparenza di correlazione. In realtà è la coesistenza provvisoria di due egoismi opposti.

La relazione si costruisce solo come reciproca appartenenza, costituita dall’auto-donazione: è la “communio personarum”, nella quale la persona-uomo e la persona-donna mutuamente si donano e si ricevono. La frase biblica è molto profonda: “…si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen. 2,24b).

Proviamo a fermarci un momento per ripercorrere sinteticamente il cammino fatto nel tentativo di avere una qualche intelligenza del “mistero” della persona umana. Chi è la persona umana? E’ questo soggetto spirituale-corporale, reso capace nella e dalla sua costituzione sessuale di costituire una comunione fra uomo e donna, posta in essere dalla reciproca donazione: donazione nella quale i due diventano una sola carne.

Ci resta ancora un passo da fare. [Prima però devo fare una precisazione, perché tutta la riflessione precedente non sia fraintesa. Non ho voluto dire che quando ed ogni volta che si parla di “altro”, si deve intendere sempre e solo “altro sesso”. Il concetto di “alterità”è più comprensivo ed esteso del concetto di “alterità sessuale”. Ho voluto dire che l’esperienza originaria dell’alterità è attestata nell’esperienza dell’alterità sessuale.]

La comunione inter-personale uomo-donna non implica la scomparsa dei due: fra uomo e donna non esiste complementarietà, ma reciprocità. E questa sussiste fino a quando esistono i due nella loro dualità. Cioè: l’unità lascia sussistere l’alterità, la dualità.

Esiste dunque un’impossibilità radicale dei due di costruire un’unità completa? Esiste: questa unità è il figlio. E qui recuperiamo il vero valore umano di quella visione biologica di cui ho parlato al principio. La capacità procreativa è inscritta nel momento massimamente unitivo dell’uomo e della donna non casualmente, ma perché risponde all’intima verità dell’amore che li unisce. La loro unità non li chiude in se stessi, ma urge per realizzarsi nella persona del figlio. Nella biologia della generazione è inscritta la logica del dono.

Siamo così giunti alla conclusione del nostro interrogarci sul “mistero” della persona umana, considerata nella sua interezza, concretezza ed unità spirituale-corporale di soggetto capace di pensiero e di amore, e quindi capace a causa del suo di-morfismo sessuale, di porre in essere una comunione interpersonale fondata sulla reciproca donazione ordinata al dono della vita ad una nuova persona.

Arrivati a questo punto della nostra riflessione, noi possiamo constatare come il matrimonio sorga per così dire, abbia origine dalla natura stessa della persona umana. E’ necessario chiarire subito rigorosamente il significato preciso della dizione “natura della persona umana”. Essa significa ciò che io capisco quando rispondo alla domanda: “che cosa è la persona umana?”. “Natura della persona” umana equivale quindi a “verità della persona umana” . Non significa pertanto natura biologicamente intesa: ciò che è conosciuto attraverso la metodologia scientifica. Inoltre, significa che l’humanitas della persona non è semplicemente un puro flatus vocis riempito dalle convenzioni sociali.

Ora possiamo riprendere la nostra riflessione, per cercare di capire bene in che senso il matrimonio ha origine dalla natura della persona umana.

Esso non trova la sua spiegazione nella pura biologia della persona; non è il risultato di istinti biologici semplicemente. In questo senso, il matrimonio segna un salto di qualità fra il regno animale ed il regno umano. Esso poi non è una creazione di convenzioni umane: ha le due radici nella struttura stessa della persona umana. Certamente, la “forma” che può assumere il matrimonio è molto diversa da cultura a cultura, ma esso, nella sua intima struttura, esprime la capacità naturale della persona di donarsi.

Che cosa è il matrimonio se non la comunione inter-personale fra l’uomo e la donna nella quale essi reciprocamente si donano e si ricevono, in ordine al dono della vita? E questa comunione è la realizzazione della soggettività spirituale-corporea della persona.

La connessione fra matrimonio e persona, non significa che ogni persona debba necessariamente sposarsi per realizzarsi; non significa che il matrimonio non sia attinente alla struttura della persona. Significa che il matrimonio è radicato nella costituzione stessa della persona; che mediante il matrimonio la persona manifesta e realizza se stessa.

 

1,2 [La demolizione della soggettività]. Dobbiamo ora vedere come la persona è arrivata a perdere se stessa, a demolire la propria soggettività.

Vorrei descrivere questo processo brevemente, iniziando col chiarire che cosa io intenda per “soggettività”. Una consistente tradizione teologica [Gregorio di Nissa, per l’oriente; Tommaso d’Aquino, per l’occidente] pone nella libertà il segno più inequivocabile della somiglianza dell’uomo a Dio. L’atto libero è il punto in cui convergono le due fondamentali energie dello spirito, la ragione e la volontà. Ma non una qualsiasi ragionevolezza è capace di generare un atto libero: solo una ragione che non ponga limiti alla sua capacità di interrogare. Non una qualsiasi forza volitiva è capace di scegliere liberamente: solo una volontà che si muove [= voluntas ut ratio] verso quella pienezza di bene a cui è naturalmente orientata [= voluntas ut natura]. E’ in sostanza l’insuperabile “scarto” vigente fra il desiderio umano e ciò che l’universo (creato) mette a disposizione dell’uomo, che rende l’uomo grande nella sua povertà: lo rende libero. Una libertà, quella umana, che al contempo significa e la ricchezza della persona e la sua povertà. La sua ricchezza: essa trascende ogni realtà creata; è “più che” ogni altra realtà creata. La sua povertà: essa è un infinito “in votis” cioè un vuoto immenso alla ricerca di un bene che sia corrispondente alla sua fame.

Agostino, non ancora cristiano, aveva ben visto, a causa della morte di un amico [e non a caso!], che per questa precisa costituzione l’uomo è a se stesso “magna quaestio”: essere “magna quaestio” significa essere ricondotti dalla verità e dalla bontà del proprio esserci che è destinato a sparire, alla Verità e al Bene che in esso (esserci) si riflettono e che da esso sono invocati. E’ questa in fondo la tristezza propria del pagano vero, ben diversa dalla tristezza, che sta devastando il cuore dei giovani oggi.

Ora posso spiegare che cosa intendo dire, quando dico che l’uomo occidentale ha perduto se stesso, demolendo progressivamente la propria soggettività.

E’ accaduto come una sorta di “collasso spirituale”, di “caduta a picco” della (in-)tensione [intentio] spirituale nell’uomo. In breve: nell’intimo dell’uomo il legame della libertà colla verità è stato spezzato, perché la ragione ha spezzato il suo legane alla Verità e la volontà al Bene.

La ragione ha subito un collasso di tensione, poiché si è giudicata incapace di conoscere una verità sul bene che valga in sé e per sé, di conoscere un bene che non sia quello della propria utilità individuale. La non esistenza di “ragioni per agire” che siano vere e valide per ogni persona, è una necessaria conseguenza ed è il dogma centrale di ogni utilitarismo etico: dottrina oggi di fatto largamente vincente nelle nostre società occidentali.

La volontà ha subito un collasso di tensione, poiché radicata in una ragione solo utilitaria, essa si toglie ogni capacità di tendere ad un Bene che non è tale per me solamente: ad un Bene che semplicemente merita di essere voluto per se stesso, cioè amato.

Nulla è più capace di difendere l’uomo dalla verità costruita dalla ragione e dagli interessi considerati validi dalla volontà a seconda delle varie situazioni.

Perché una tale demolizione della soggettività perde l’uomo? Perché semplicemente gli toglie la possibilità di essere libero, cioè “causa sui”. Egli non è più capace di agire; è solo in grado di re-agire. E la reazione può essere duplice: o l’omologazione o la ribellione. Reazioni che sono proprie dello schiavo. La persona libera né si omologa né si ribella.

Molti sono i segni di questa condizione spirituale dell’uomo occidentale. Mi limito a richiamarne brevemente tre, perché mi sembrano particolarmente significativi per la nostra riflessione.

Il primo è costituito dal prevalere dell’”impersonale” sul “personale”. Intendo parlare di quella progressiva riduzione della persona alla sua funzione; della progressiva ed implacabile burocratizzazione della vita associata.

Il secondo è costituito dalla riduzione dell’amore all’eros e quindi del diritto, inteso come facoltà morale, al desiderio.

Il terzo è costituito dalla necessità di eliminare l’imprevedibile, il novum, sottomettendoci al previsto e al calcolato. Per dirla col vocabolario heideggeriano: non è più il pensiero che pensa, ma la ragione che calcola.

Ma non voglio andare oltre alla semplice enunciazione di questi tre segnali di un grave evento culturale, poiché – nel breve tempo a disposizione – mi interessa maggiormente riflettere sulla caratteristica fondamentale di quell’evento stesso.

Ho parlato poc’anzi della tristezza propria del paganesimo, diciamo, naturale. In fondo, era la nostalgia di una patria che non si sapeva con certezza se esistesse oppure anche se certi dell’esistenza, la si giudicava irraggiungibile. Pertanto, anche quando il pagano accorciava la misura del suo desiderio [spem longam reseces: Orazio], era consapevole di rinunciare ad una parte di se stesso.

Il collasso spirituale di cui ho parlato avviene invece senza alcun dramma né tragedia: è semplicemente vissuto. Un grande pensatore italiano cristiano ha parlato di “gaio nichilismo contemporaneo”. Gaio in un duplice senso. Nel senso che la nobilitazione dell’omosessualità non è casuale: è la celebrazione della alleanza colla morte. Nel senso che si accetta di navigare sempre a vista, senza orientarsi a nessun porto, con noiosa tranquillità. “Non so chi mi abbia gettato nell’essere, non so che cosa mi aspetta dopo la morte: ma non è neppure necessario saperlo”: è la formula del gaio nichilismo occidentale.

1,3 [L’impensabile ed impraticabile matrimonio]. Siamo ora giunti al momento decisivo, per così dire, della nostra riflessione. Riflessione che posso riassumere nel modo seguente: una soggettività così demolita non può pensare e non può praticare il matrimonio. Abbiamo qui la spiegazione più profonda ed ultima del fatto che oggi i giovani si sposano sempre di meno, che preferiscono sempre più le “libere convivenze”.

La cosa, a questo punto, non è poi così difficile da capire. Facciamoci due domande: quale ragionevolezza implica la decisone di sposarsi? quale volontà è capace di decidersi al matrimonio?

Prima di cominciare a rispondere faccio due necessarie precisazioni. La prima è che quando dico “sposarsi-matrimonio” intendo quel matrimonio di cui ho parlato nel § 1,1 e che era quello sostanzialmente pensato e vissuto nella cultura occidentale. La seconda è che le due domande solo in parte coincidono con il problema, sempre presente nella disciplina e nella giurisprudenza canonica, risolto dai Cann. 1095-1096 del C.J.C..

Quale ragionevolezza implica la decisione di sposarsi? una ragione che sia capace di conoscere la verità del dono della persona, la verità della “communio personarum”. Mi spiego.

La verità del dono e la verità della “communio personarum” sono strettamente connesse. Se, infatti, non è possibile una vera e propria comunione inter-personale se non attraverso l’autodonazione reciproca, l’incapacità di capire se stessi come soggetti chiamati al dono di sé comporta inevitabilmente l’incapacità di capire un evento come la comunione interpersonale.

La verità della persona è scoperta da chi è capace di andare oltre ai fenomeni in cui si manifesta la persona, per raggiungere quella sostanza spirituale in cui ciascuno di noi sussiste. E’ quel processo di interiorizzazione e di distacco dall’esteriorità che occupa un posto tanto importante nella visione agostiniana.

A questo tipo di ragionevolezza oggi si oppongono una cultura, un modo comune di pensare e stili di vita che inducono la persona ad agire in modi sempre più “esteriori”, sempre meno coinvolgenti la propria soggettività.

L’estenuazione in tanti giovani di oggi della loro ragionevolezza, della loro capacità umana innata di porsi la domanda ultima su di sé “chi sono io?”, li ha portati ad una incapacità strutturale a capire la verità della “communio personarum”. (Cfr. Lettera alle famiglie 13,4-6).

Quale volontà è capace di decidersi a sposarsi? quella che è capace di volere il bene in sé e per sé: di riconoscere la persona dell’altro nella sua dignità propria. In una parola di amare. E’ la volontà che è capace di accettare e realizzare radicalmente la verità dell’uomo come persona che si ritrova attraverso il dono di sé.

Ad una ragionevolezza estenuata corrisponde una volontà, più concretamente l’esercizio di una libertà che non è orientata se non al proprio utile/piacere. Alla comunione del dono si sostituisce la contrattazione degli utili.

Se voi ora confrontate quanto appena detto con ciò che dicevo sulla demolizione della soggettività della persona, vi potere rendere conto subito che a causa di quella demolizione della soggettività di cui ho parlato nel § 1,2, la persona oggi è incapace di sposarsi.

Penso che questo sia il vero, fondamentale problema pastorale del matrimonio e della famiglia: un uomo demolito nella sua soggettività non può costruire una vera e propria coniugalità.

Ho terminato il primo punto della mia riflessione. Che cosa ho voluto dire? che la de-costruzione della soggettività della persona ha demolito l’istituzione matrimoniale, rendendola impensabile ed impraticabile.

 

2. LE MACERIE DOPO LA DEMOLIZIONE

 

In questo secondo punto vorrei, per così dire, mostrarvi che ora ci troviamo nelle mani ancora tutti i pezzi di cui si componeva l’istituzione matrimoniale, ma che essi non hanno più gli stessi significati di prima.

Quali sono, prima di tutti, questi “pezzi”. Richiamo brevemente le affermazioni fondamentali fatte all’inizio del punto precedente (cfr. § 1,1). La prima: il matrimonio, inteso come comunione fondata sull’auto-donazione reciprocamente fatta ed accettata di un uomo e di una donna, è radicato nella struttura stessa della persona. La seconda: la paternità-maternità trova la sua origine nella coniugalità e ne è l’espressione compiuta.

Come potere vedere, i “pezzi” di cui si compone questo “intero” sono: la persona, il suo dimorfismo sessuale [uomo-donna], la “communio personarum”, la paternità-maternità. Essi sono intimamente connessi fra loro. “Intimamente” non significa “soggettivamente”. Significa piuttosto che la coesione delle varie parti è esigita dalla natura stessa della persona.

A causa di quel processo di demolizione della soggettività di cui parlavo, ora ognuno di quei pezzi è stato staccato dagli altri: ed ha mutato sostanzialmente il significato. Brevemente verifichiamo come ciò è accaduto.

 

2,1 [Prima rottura: coniugalità-paternità/maternità]. Il 25 luglio 1968 Paolo VI pubblica l’Enc. Humanae Vitae nella quale egli insegna come verità non solo per i credenti ma anche per ogni uomo, che la contraccezione è obiettivamente ingiusta. Atto contraccettivo ha un significato molto preciso nel Magistero della Chiesa: è l’atto di privare la sessualità umana della sua fecondità in vista durante o immediatamente dopo un atto coniugale, al fine di evitare il concepimento di una nuova persona..

L’Enciclica rispondeva alla tendenza ormai chiara di ritenere come dotata di un significato obiettivo etico la separazione dell’esercizio della sessualità coniugale dalla fertilità in essa eventualmente presente. Era la prima separazione, sconnessione della coniugalità dalla paternità / maternità. La seconda avviene esattamente dieci anni dopo.

Nel luglio del 1978 viene al mondo la prima persona umana concepita non mediante un rapporto sessuale, ma mediante un procedimento tecnico di fecondazione in vitro. Dimostrando possibile il concepimento umano senza alcuna relazione sessuale, la fecondazione in vitro separava per ciò stesso in linea di principio almeno, la paternità/maternità dalla sponsalità / coniugalità . In un duplice senso. Nel senso che l’attività responsabile del concepimento non è più un rapporto inter-personale carico di per sé di un significato di amore e di dono, appunto coniugale, ma è un’attività produttiva-tecnica. E nel senso che le cellule germinali non necessariamente provengono dal corpo dei due sposi: come poi di fatto si cominciò a fare. E qui il primo pezzo della costruzione è stato smontato: la paternità/maternità non implica di per sé una relazione biologicamente fondata. Per essere padre/madre non è necessario esserlo anche biologicamente.

E’ vero che la dipendenza biologica del figlio dalla madre è ben più consistente di quella dal padre: la gestazione è della madre. Tuttavia, una volta posto il principio della non essenzialità della dimensione biologica, si può di fatto anche chiedere ad un’altra donna di compiere la gestazione: una sorta di presta-utero, che, se ricompensata, acquista il carattere di un vero e proprio “affitto di utero”. Ciò che è puntualmente accaduto, introducendo un’ulteriore precisazione: non solo maternità non implica necessariamente discendenza biologica, ma neppure gestazione. Pertanto, madre non è necessariamente né chi ti ha generato, né chi ti ha portato in utero.

 

2,2 [Seconda rottura: communio personarum- uomo/donna]. Qui ci troviamo di fronte ad un fatto spirituale fra i più gravi che siano avvenuti in questi decenni, nei paesi occidentali. Non abbiamo purtroppo tempo di fermarci su di esso come meriterebbe. Esso consiste nella progressiva equiparazione etica, di valore cioè, fra comunità coniugale [etero-sessuale] e convivenza omosessuale. Alla base di questa progressiva equiparazione si ha un avvenimento spirituale assai grave.

Si tratta della interpretazione della sessualità umana come non avente in sé e per sé un suo proprio significato. Sono costretto a presentare un fenomeno culturale assai complesso in tempo breve, e quindi in modo assai scarno. Il dimorfismo sessuale, l’essere uomo – l’essere donna, non è più interpretato in termini di reciprocità, come abbiamo fatto nella prima parte della nostra relazione.

Nel momento in cui questa interpretazione del dimorfismo sessuale umano cessa, la sessualità umana perde il suo significato proprio: viene cioè negato che ne possegga qualcuno originario. Ha quel significato che la persona vuole attribuirgli. E pertanto, la convivenza omosessuale è della stessa natura (si fa per dire) della convivenza eterosessuale. Si giunge cioè alla equiparazione etica dei due modelli di comportamento sessuale.

In che senso questa equiparazione influisce sul processo di smontatura del concetto di paternità/maternità e del concetto di matrimonio? Nel senso che non si vede più perché non si debba dare un figlio anche alle coppie omosessuali da una parte, e dall’altra il concetto di maternità non è più correlativo a quello di paternità e viceversa. E’ da ritenersi pienamente legittimato che una persona abbia “socialmente” due madri senza un padre o due padri senza una madre.

Ho terminato questo secondo punto. Ci troviamo dunque in una situazione che può essere descritta con tre affermazioni fondamentali. La prima: il matrimonio è un fatto puramente convenzionale, la cui struttura istituzionale ed antropologica cioè è completamene a disposizione di chi si sposa. La seconda: la coniugalità non dice ordine alla paternità/paternità né reciprocamente; la coniugalità non dice ordine all’etero-sessualità né reciprocamene: pertanto “coniugalità”, “communio personarum”, “paternità/maternità” sono ormai macerie di un edificio come tale è crollato.

La terza: l’architettura dell’edificio era l’architettura del bene in sé e per sé e l’architettura che cerca ora di comporre quelle macerie è l’architettura del desiderio della propria felicità individuale.

 

 

  • ORIENTAMENTI FONDAMENTALI

 

Devo ormai ridurmi a pure enunciazioni: avremo altre occasioni per riprendere questi temi, che esigono riflessioni profonde, accurate e prolungate.

In situazioni come queste, le reazioni emotive sono le meno indicate. Tre sono le sfide fondamentali.

Trattasi di una sfida alla nostra ragione, intesa come capacità di conoscere la verità. E’ una crisi di verità in primo luogo: non sappiamo più chiaramente come stanno le cose.

Trattasi di una sfida alla nostra libertà, intesa come capacità di sottomettersi solo alla verità conosciuta e non semplicemente ai propri desideri: non crediamo più alla nostra libertà.

Trattasi di una sfida alla nostra capacità di educare , intesa come capacità di portare i giovani alla vera ed intera pienezza della loro umanità: abbiamo rinunciato all’educazione per accontentarci dell’informazione.

Abbiamo bisogno di maestri, di santi, di padri: maestri che ci aiutino a pensare, santi che ci facciano sentire il fascino della libertà, padri che sappiano generare in umanità.

IL MATRIMONIO NELLA POST-MODERNITA’, San Giuseppe di Comacchio, 26 giugno 1999(in: http://www.caffarra.it/post-mod.php)

Questo articolo ha un commento

  1. stefano beccari

    interessante ma parecchio difficile e mancano esempi per capire meglio dta la complessita della questione

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