Parola e comunità politica

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\"\"STEFANO FONTANA, Parola e comunità politica. Saggio su vocazione e attesa, Edizioni Cantagalli, Siena 2010, pp. 165, Euro 11,50.
 
E’ uno degli aspetti più sottovalutati dei nostri tempi, eppure resta un dato di fatto osservabile da chiunque che la ‘società liquida postmoderna’ attraversi una diffusa crisi della vocazione, a vari livelli. Crisi della vocazione non solo nel senso ‘tradizionalmente’ religioso (sebbene anche questo sia un aspetto rilevante e, per la verità, tutt’altro che marginale) ma prima ancora in senso umano, nel senso di dare una ragione e un fine coerente alle scelte della propria esistenza. Una crisi che investe come forse mai prima era successo i comportamenti pubblici e le scelte intime dell’uomo contemporaneo, fino ad arrivare a quella che alcuni hanno chiamato una vera e propria “atrofia” (pag. 13) dell’intelligenza e del cuore. Su questa crisi riflette Stefano Fontana, giornalista pubblicista, direttore dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina Sociale della Chiesa e consultore del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, in un notevole saggio in uscita in questi giorni che non mancherà di suscitare dibattito per la visione ‘alta’ ed impegnata di un progetto educativo che rifugge con coraggio dagli astratti modelli pedagogici di omologazione e dai riduzionismi tipici della cultura attuale.    

L’opera, a dispetto dell’apparente brevità piuttosto esigente, si compone di cinque capitoli d’indagine sulle ‘problematiche centrali’ del momento presente e una conclusione con qualche proposta per uscire dalla crisi. Nel primo (“Fenomenologia della vocazione”, pp. 15-42), l’Autore presenta i termini della questione definendo la vocazione “una parola che irrompe a nostra insaputa e ci interpella [rendendo] possibile la salvezza e con essa la libertà” (pag. 20). Dinanzi a questa chiamata ognuno, nel suo ambito e nelle sue competenze, ha il dovere della risposta ed è dall’esito e dalla sincerità di questa risposta che dipende non solo la trasmissione della fede o del credo ma anche l’organizzazione della convivenza civile e il suo fine. Negare un senso alla vocazione o alla stessa realtà che ci circonda, come parrebbe sollecitare il neo-positivismo imperante sordo ad ogni dato che non sia di ordine squisitamente empirico, vorrebbe dire invece limitare clamorosamente le nostre possibilità di sviluppo, con effetti difficili da prevedere. “Il mondo delle cose ci parla: ci dice che esiste, che è incontraddittorio, che noi stessi siamo qualcosa (meglio qualcuno), che ha un ordine finalistico, che questo ordine è criterio per la libertà, che è necessario un Fondamento” (pag. 33). Da ciò ne consegue che anche la spensierata cultura dominante, accademica e non, ha le sue gravi responsabilità educative, dal momento che “labbandono della metafisica comporta una riduzione o addirittura lannullamento della nostra capacità di leggere nelle cose una vocazione” (pag. 34).

Il secondo capitolo (“Epistemologia della vocazione”, pp. 43-90), sciogliendo i nodi della crisi della vocazione, offre illuminanti riflessioni sulla natura moralmente corrosiva del processo di secolarizzazione della modernità che, lungi dal liberare l’uomo da un supposto oscurantismo confessionale di derivazione medioevale, lo imprigiona in gabbia di disperazione ben peggiori: infatti, riprendendo un pensiero dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, “la negazione di Dio dellilluminismo moderno è a carattere religioso, esso è una fede e una religione esattamente come quella che afferma di voler combattere” (pag. 58). Drammatica è in questo senso, nella società globalizzata, l’equiparazione di taglio ideologicamente multiculturalista di tutte le identità che, anziché rafforzare la fragile convivenza civile finisce invece per degenerarla irrimediabilmente minando la complessa tenuta del bene comune (“solo una identità indifferente, ossia suicida, è oggi considerata degna”, pag. 71). Le identità con dei contenuti forti infatti vengono sempre più ridimensionate, oppure vissute in privato e non in pubblico, “inteso oggi come il luogo della coesistenza indifferente delle identità” (pag. 74). Si diffonde così, non di rado presso gli stessi vertici istituzionali o politici che dovrebbero essere portatori di valori, l’idea astrusa che la sfera pubblica debba essere in toto una sorta di terra di nessuno, una sfera ‘concettualmente’ vuota: “a questo vuoto si dà il nome di laicità o di democrazia” (pag. 75).


Il terzo capitolo (“Antropologia della vocazione”, pp. 91-104) riflette sulla dimensione ‘parlante’ della natura umana, essa stessa una via d’uscita dalla crisi se solo la si volesse ascoltare, giacché “nella natura umana è contenuto un disegno. La nostra natura umana è un discorso che ci è rivolto, un appello che liberamente possiamo accogliere o rifiutare” (pag. 94). La vocazione dell’uomo si rivela dunque per l’Autore, stricto sensu, come un appello che viene dall’eternità e rimanda al compimento di un ufficio ‘letteralmente’ eterno che segna lo scorrere del tempo, preesistendo alla nascita, allo sviluppo e alla morte delle singole civiltà: tratti universali ed esperienze di senso comune come mascolinità e femminilità o paternità e maternità sono parte integrante di questo disegno costitutivo sulla natura umana. Ma, se questo è vero, ne consegue che, per dire il minimo, istituti naturali quali famiglia e matrimonio sono come inscritti, ab origine, nel DNA di ogni uomo di ogni tempo e di ogni luogo. A prescindere dalle singole ideologie al potere e dalle strutture sociali o economiche di riferimento. Certamente nelle stagioni più confuse della storia, il loro significato potrà essere oscurato, dibattuto e perfino messo in discussione, ma esso non potrà venire mai meno perché la natura, contrariamente a quanto poteva pensare il filosofo Jean-Jacques Rousseau, precede sempre la cultura e i suoi costrutti artificiali. Se così non fosse, non si darebbe un senso morale (universale) nella realtà che ci circonda, né una lettura razionale degli accadimenti del mondo. Ma il solo fatto – tra i tanti – che la dimensione religiosa sia una caratteristica costante dell’umanità fin dall’epoca primitiva (prima ancora della venuta di Cristo), che l’esistenza di una legge naturale oggettiva sia verificabile quotidianamente da chiunque sia disposto a riconoscerla o che l’uomo sia in quanto tale ‘homo religiosus’, bisognoso di trovare ‘risposte di verità’ all’apparente dittatura insensata del divenire storico che tutto dissolve si oppone recisamente al riemergere di simili utopie materialiste, vecchie e nuove.        


Nel successivo quarto capitolo (“Il peccato originale come problema politico, pp. 105-128), l’Autore indaga i limiti intrinseci della società relativista, inebriata dalla dittatura del desiderio e sempre sul punto di tagliare lo stesso ramo sui cui poggia la sua libertà. La modernità, in tutte le sue forme, si è infatti caratterizzata per un dato comune: la negazione del peccato originale. Tale negazione, per le sue evidenti ricadute sociali, non ha valore solo per la dimensione religiosa di una comunità ma finisce per impedire ogni forma di vocazione. L’ultimo capitolo (“Politica della vocazione”, pp. 129-150) e le conclusioni lo evidenziano incisivamente: oggi più che mai la politica è, al proprio fondo, “una questione teologica” (pag. 151). Il problema principale per gli uomini del XXI secolo è che posto dare a Dio nel mondo: dalla risposta a questa domanda dipenderà buona parte dello sviluppo, della pace e perfino della libertà dell’umanità ventura.                                    

                                                                                                                     

Omar Ebrahime