(OR) Perchè i fratelli ebrei riconoscano Cristo Signore

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"Oremus et pro Iudaeis"

di Gianfranco Ravasi
Un giorno Kafka all’amico Gustav Janouch che lo interrogava su Gesù
di Nazaret rispose: "Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per
non precipitarvi".

Il rapporto tra gli ebrei e questo loro "fratello
maggiore", come l’aveva curiosamente chiamato il filosofo Martin Buber, è stato
sempre intenso e tormentato, riflettendo anche la ben più complessa e
travagliata relazione tra ebraismo e cristianesimo. Forse sia pure nella
semplificazione della formula è suggestiva la battuta di Shalom Ben Chorin nel
suo saggio dal titolo emblematico "Fratello Gesù", del 1967: "La fede di Gesù ci
unisce ai cristiani, ma la fede in Gesù ci divide".

Abbiamo voluto
ricreare questo fondale, in realtà molto più vasto e variegato, per collocarvi
in modo più coerente il nuovo "Oremus et pro Iudaeis" per la Liturgia del
Venerdì Santo.

Non c’è bisogno di ripetere che si tratta di un
intervento su un testo già codificato e di uso specifico, riguardante la
Liturgia del Venerdì Santo secondo il "Missale Romanum" nella stesura promulgata
nel 1962 dal beato Giovanni XXIII, prima della riforma liturgica del Concilio
Vaticano II. Un testo, quindi, già cristallizzato nella sua redazione e
circoscritto nel suo uso attuale, secondo le ormai note disposizioni contenute
nel motu proprio di Benedetto XVI "Summorum Pontificum" del luglio 2007.

All’interno, dunque, del nesso che unisce intimamente l’Israele di Dio e
la Chiesa cerchiamo di individuare le caratteristiche teologiche di questa
preghiera, in dialogo anche con le reazioni severe che essa ha suscitato in
ambito ebraico.

* * *
La prima è una considerazione "testuale" in senso
stretto: si ricordi, infatti, che il vocabolo "textus" rimanda all’idea di un
"tessuto" che è elaborato con fili diversi. Ebbene, la trentina di parole latine
sostanziali dell’Oremus è totalmente frutto di una "tessitura" di espressioni
neotestamentarie. Si tratta, quindi, di un linguaggio che appartiene alla
Scrittura Sacra, stella di riferimento della fede e dell’orazione cristiana.

Si invita innanzitutto a pregare perché Dio "illumini i cuori", così che
anche gli ebrei "riconoscano Gesù Cristo come salvatore di tutti gli uomini".
Ora, che Dio Padre e Cristo possano "illuminare gli occhi e la mente" è un
auspicio che san Paolo già destina agli stessi cristiani di Efeso di matrice sia
giudaica sia pagana (Efesini 1, 18; 5, 14). La grande professione di fede in
"Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini" è incastonata nella Prima lettera a
Timoteo (4, 10), ma è anche ribadita in forme analoghe da altri autori
neotestamentari, come, ad esempio, il Luca degli Atti degli Apostoli che mette
in bocca a Pietro questa testimonianza davanti al Sinedrio: "In nessun altro c’è
salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale
sia stabilito che possiamo essere salvati" (Atti 4, 12).

A questo punto
ecco l’orizzonte che la preghiera vera e propria delinea: si chiede a Dio, "che
vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità",
di far sì "che, con l’ingresso della pienezza delle genti nella Chiesa, anche
tutto Israele sia salvo". In alto si leva la solenne epifania di Dio onnipotente
ed eterno il cui amore è come un manto che si allarga sull’intera umanità: egli,
infatti si legge ancora nella Prima lettera a Timoteo (2, 4) "vuole che tutti
gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità". Ai piedi di
Dio si muove, invece, come una grandiosa processione planetaria, che è fatta di
ogni nazione e cultura e che vede Israele quasi in una fila privilegiata, con
una presenza necessaria.

È ancora l’apostolo Paolo che conclude la
celebre sezione del suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani, dedicata al
popolo ebraico, l’olivo genuino sul quale noi siamo stati innestati, con questa
visione la cui descrizione è "intessuta" su citazioni profetiche e salmiche:
l’attesa della pienezza della salvezza "è in atto fino a che saranno entrate
tutte le genti; allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto: Da Sion
uscirà il liberatore, egli toglierà le empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia
alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati" (Romani 11, 25-27).

Un’orazione, quindi, che risponde al metodo compositivo classico nella
cristianità: "tessere" le invocazioni sulla base della Bibbia così da
intrecciare intimamente il credere e il pregare, la "lex credendi" e la "lex
orandi".

* * *
A questo punto possiamo proporre una seconda
riflessione di indole più strettamente contenutistica. La Chiesa prega per aver
accanto a sé nell’unica comunità dei credenti in Cristo anche l’Israele fedele.
È ciò che attendeva come grande speranza escatologica, cioè come approdo ultimo
della storia, san Paolo nei capitoli 9-11 della Lettera ai Romani a cui sopra
accennavamo. È ciò che lo stesso Concilio Vaticano II proclamava quando, nella
costituzione sulla Chiesa, affermava che "quelli che non hanno ancora accolto il
Vangelo in vari modi sono ordinati ad essere il popolo di Dio, e per primo quel
popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale è nato Cristo
secondo la carne, popolo in virtù dell’elezione carissimo a ragione dei suoi
padri, perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili" (Lumen gentium, n.
16).

Questa intensa speranza è ovviamente propria della Chiesa che ha al
centro, come sorgente di salvezza, Gesù Cristo. Per il cristiano egli è il
Figlio di Dio ed è il segno visibile ed efficace dell’amore divino, perché come
aveva detto quella notte Gesù a "un capo dei Giudei", Nicodemo, "Dio ha tanto
amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, e non lo ha mandato per
giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (cfr Giovanni,
3, 16-17). È, dunque, da Gesù Cristo, figlio di Dio e figlio di Israele, che
promana l’onda purificatrice e fecondatrice della salvezza, per cui si può anche
dire in ultima analisi, come fa il Cristo di Giovanni, che "la salvezza viene
dai Giudei" (4, 22). L’estuario della storia sperato dalla Chiesa è, quindi,
radicato in quella sorgente.

Lo ripetiamo: questa è la visione cristiana
ed è la speranza della Chiesa che prega. Non è una proposta programmatica di
adesione teorica né una strategia missionaria di conversione. È l’atteggiamento
caratteristico dell’invocazione orante secondo il quale si auspica anche alle
persone che si considerano vicine, care e significative, una realtà che si
ritiene preziosa e salvifica. Scriveva un importante esponente della cultura
francese del Novecento, Julien Green, che "è sempre bello e legittimo augurare
all’altro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero
dono, non frenare la tua mano". Certo, questo deve avvenire sempre nel rispetto
della libertà e dei diversi percorsi che l’altro adotta. Ma è espressione di
affetto auspicare anche al fratello quello che tu consideri un orizzonte di luce
e di vita.

È in questa prospettiva che anche l’Oremus in questione, pur
nella sua limitatezza d’uso e nella sua specificità, può e deve confermare il
nostro legame e il dialogo con "quel popolo con cui Dio si è degnato di
stringere l’Antica Alleanza", nutrendoci "della sua radice di olivo buono su cui
sono innestati i rami dell’olivo selvatico che siamo noi Gentili" (Nostra
aetate, n. 4). E come pregherà la Chiesa nel prossimo Venerdì Santo secondo la
liturgia del Messale di Paolo VI, la comune e ultima speranza è che "il popolo
primogenito dell’alleanza con Dio possa giungere alla pienezza della
redenzione".