Mons. Luigi Giussani un protagonista della Chiesa del ‘900

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E’ morto a 82 anni don Luigi Giussani, Fondatore di Comunione e Liberazione

MILANO, martedì, 22 febbraio 2005 (ZENIT.org).- Alle ore 3.10 di oggi, 22 febbraio, è morto all’età di 82 anni, nella sua abitazione di Milano, don Luigi Giussani, Fondatore del movimento ecclesiale Comunione e Liberazione (Cl) “per insufficienza circolatoria e renale” a seguito della grave polmonite che lo aveva colpito nei giorni scorsi.

Questo è quanto si apprende da un comunicato inviato da don Julián Carrón, a nome della Presidenza di Comunione e Liberazione, a tutte le comunità di Cl presenti attualmente in circa settanta Paesi sparsi per i cinque continenti.

“Certi nella speranza della risurrezione, attraverso l’intenso dolore per questo distacco, nell’abbraccio di Cristo lo riconosciamo padre più che mai, egli che ora contempla la Presenza, a lui tanto cara, di Gesù Cristo, che in tutta la sua vita ci ha insegnato a conoscere e ad amare come consistenza totale di ogni cosa e di ogni rapporto”, si legge.

“Affidandoci tutti alla Madonna, ‘di speranza fontana vivace’, chiediamo alle comunità di celebrare l’Eucaristia”, continua il comunicato in cui i membri di Cl nel dirsi “grati per la vita di don Giussani” domandano “che la sua fede, speranza e carità diventino sempre più nostre”.

Pochi giorni fa il Santo Padre, venuto a conoscenza dello stato di salute di don Giussani, gli aveva fatto recapitare un messaggio nel quale rivolgeva “un affettuoso pensiero”, assicurandogli la propria “spirituale vicinanza” e le “fervide preghiere” affinché Dio lo “conforti e sostenga nella prova”.

Don Giussani è nato nel 1922 a Desio, un paesino nei pressi di Milano. Giovanissimo, entra nel seminario diocesano di Milano, proseguendo gli studi e infine completandoli presso la Facoltà teologica di Venegono sotto la guida di maestri come Gaetano Corti, Giovanni Colombo, Carlo Colombo e Carlo Figini.

Ordinato sacerdote il 26 maggio 1945, don Giussani si dedica all’insegnamento presso lo stesso seminario di Venegono. In quegli anni si specializza nello studio della teologia orientale, della teologia protestante americana e nell’approfondimento della motivazione razionale dell’adesione alla fede e alla Chiesa.

A metà degli anni Cinquanta chiede di poter lasciare l’insegnamento in seminario per quello nelle scuole medie superiori. Per dieci anni, dal 1954 al 1964, insegna al Liceo classico “Berchet” di Milano. Inizia a svolgere in quegli anni una attività di studio e di pubblicistica volta a porre all’interno e all’esterno della Chiesa l’attenzione sul problema educativo.

E proprio nel 1954, don Luigi Giussani dà vita a partire dal Liceo classico “Berchet”, a un’iniziativa di presenza cristiana chiamata Gioventù Studentesca (GS), con lo scopo di “[…] elaborare una propria proposta culturale per la crescita dall’interno e dal basso nel mondo giovanile e studentesco”.

La sigla attuale, Comunione e Liberazione (www.clonline.org), compare per la prima volta nel 1969. Nel 1982 il Pontificio Consiglio per i Laici lo riconosce come Associazione di fedeli di diritto pontificio. Essa sintetizza la convinzione che l’avvenimento cristiano, vissuto nella comunione, è il fondamento dell’autentica liberazione dell’uomo.

“L’originale intuizione pedagogica” di Cl come scrisse Giovanni Paolo II nella lettera a don Giussani, in occasione dei 50 anni del movimento celebratisi nell’ottobre del 2004, sta nel “riproporre (…) in modo affascinante e in sintonia con la cultura contemporanea, l’avvenimento cristiano, percepito come fonte di nuovi valori, capaci di orientare l’intera esistenza”.

In una lettera inviata al Santo Padre in vista di quelle celebrazioni don Giussani aveva affermato non solo di non aver “mai inteso ‘fondare’ niente” ma di vedere “il genio del movimento” nell’ “avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta”, dove “il cristianesimo si identifica con un Fatto – l’Avvenimento di Cristo -, e non con un’ideologia”.

Comunione e Liberazione, per la quale non è prevista alcuna forma di tesseramento, ma solo la libera partecipazione delle persone, ha come scopo l’educazione cristiana matura dei propri aderenti e la collaborazione alla missione della Chiesa in tutti gli ambiti della società contemporanea.

Strumento fondamentale di formazione degli aderenti al movimento è la catechesi settimanale denominata “Scuola di comunità”. La rivista ufficiale del movimento è il mensile internazionale “Tracce – Litterae Communionis” disponibile in undici lingue (italiano, inglese, spagnolo, brasiliano, portoghese, polacco, russo, francese e tedesco e, con diversa periodicità, anche in giapponese e ungherese).

Nel ricordare gli esordi del movimento in una delle ultime interviste da lui rilasciate, apparsa sul Corriere (15 ottobre 2004), don Giussani disse: “Ricordo che la scelta del Berchet fu assolutamente casuale, come un sasso lanciato nel cielo. Mentre salivo i gradini che portavano all’ interno del liceo, non avevo idea di chi mi sarei trovato davanti. Vi erano raccolti i giovani rampolli della Milano bene, che non conoscevo e di cui nessuno si occupava allora”.

Parlando di quella scelta, raccontò allo stesso quotidiano che la nascita dell’esigenza di insegnare ai giovani il vero significato del messaggio cristiano nacque casualmente come “l’ incontro improvvisato con un gruppo di giovani, qualche tempo prima, su un treno per Rimini. Parlando con loro, li avevo trovati profondamente ignoranti di che cosa fosse il cristianesimo”.

“Il criterio ultimo che adottai in classe fu di esaltare un rinnovato fervore in quei giovani, tentando di comunicare la fede di un popolo cui io avevo partecipato”, e questo prendendo “le mosse da un modo di guardare le cose come ‘passione per’, come ‘amore’, un atteggiamento di apertura che non lascia partire da soli e mette in moto la vicenda di un rapporto”.

A partire dalle ore 16.30 di oggi, 22 febbraio, e fino alle 24.00 sarà possibile accedere alla camera ardente, allestita presso la cappella dell’Istituto Sacro Cuore di Milano (via Rombon, 78). La camera ardente riaprirà mercoledì mattina.

Secondo quanto reso noto dal Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Joaquín Navarro-Valls, i funerali di don Luigi Giussani, che si svolgeranno giovedì 24 febbraio, alle ore 15, nel Duomo di Milano, saranno presieduti, a nome del Santo Padre, dal cardinal Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.


ZENIT ZI05022207


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FEDE E POLITICA

di PAOLO FRANCHI



La premessa è d’obbligo: chi scrive è stato, e resta, assai lontano da un’esperienza come quella di Comunione e liberazione. Ma lontananza non può significare indifferenza. Soprattutto nei confronti di un movimento che sin dai suoi primi passi, nel 1969, ha iniziato a mettere un suo segno visibile, tangibile, nella grande e caotica trasformazione che sta investendo la società italiana: in primo luogo, ovviamente, nel mondo cattolico. E’ nel pieno di quella stagione, infatti, che don Luigi Giussani, il prete che da quindici anni, nelle scuole, organizza la Gioventù studentesca, mette in campo Cl. L’idea forza da cui il movimento ecclesiale prende le mosse («L’avvenimento cristiano vissuto nella comunione è fondamento dell’autentica libertà dell’uomo»), per l’epoca, è quasi stupefacente. Ma questo non impedisce che conquisti migliaia di ragazze e di ragazzi, e che da Milano si estenda un po’ in tutta Italia.
E’ dapprima sorpresa, e poi apertamente e duramente ostile la sinistra, in ispecie quella extraparlamentare. Ma anche la Chiesa, e assieme alla Chiesa la gran parte dei cattolici a diverso titolo impegnati in politica e nella società, guarda Cl con scarsa simpatia. L’accusa ricorrente è quella di integralismo. E però è un’accusa che coglie solo in parte nel segno, perché non è vero che don Giussani (che pure parla di una fede da «brandire»), e con lui Cl, immaginino una società integralmente ispirata ai loro princìpi e ai loro valori. Avvertono, piuttosto, che i cristiani sono ormai drammaticamente minoranza in una società sempre più secolarizzata, temono addirittura che la Chiesa stia «scivolando» inesorabilmente verso «il disastro», ma non per questo levano un ponte levatoio verso gli altri, per tramutarsi in una setta, seppure ricca di affiliati. Questa minoranza, anzi, la chiamano a testimoniare orgogliosamente le proprie verità; ad avere chiaro, chiarissimo, che il regno di Dio non è di questo mondo, e che però bisogna starci, eccome, nel mondo, operarvi, e anche compromettersi. Cl non lo fa in prima persona, si capisce, ma attraverso il proprio braccio politico (il Movimento popolare) e il proprio braccio economico (la Compagnia delle Opere).
Entra immediatamente e consapevolmente in contrasto, Cl, con le forze cattoliche (all’epoca numerose) che muovono sulla via del superamento da sinistra dell’antico collateralismo nei confronti della Democrazia cristiana; ma anche con quei settori, ancora più vasti, e più influenti, del cattolicesimo italiano (dall’Azione Cattolica a larga parte della Dc) convinti che fede e politica vadano tenute il più possibile separate, e che dalla capacità dei cattolici di mantenere e sviluppare questa separazione risiedano, in ultima analisi, le sorti della prima e della seconda. Lo spartiacque è, nel ’74, il referendum sul divorzio. Molte associazioni e molte personalità del mondo cattolico optano per il no, molti democristiani si mettono alla finestra per assistere al disastro annunciato di Amintore Fanfani. Cl, invece, è in prima linea, anche perdendo si può seminare futuro: quella battaglia è la sua battaglia, e ancor più lo sarà, qualche anno dopo, quella contro l’aborto. Quando l’odiato compromesso storico è ormai tramontato. E quando papa è già Giovanni Paolo II, un pontefice che combatte il comunismo, non apprezza più di tanto il capitalismo, e trova i ciellini simili in tutto e per tutto ai suoi amati giovani cattolici polacchi, e lo dice apertamente, in molte occasioni.
Adesso tante ferite del passato sembrano rimarginate. Un esempio per tutti, a suo modo storico, è l’amichevole visita di una delegazione dell’Azione cattolica, lo scorso agosto, al Meeting riminese di Cl. Ma le contese del passato non si cancellano tanto facilmente. In ogni caso, senza ripercorrere anche la vicenda di Comunione e Liberazione, una rilettura seria degli anni Settanta italiani non è possibile. Tanto meno è possibile un’analisi della loro (controversa) eredità, che comprende pure, eccome, un mutamento profondo della natura stessa della questione cattolica in Italia. E non c’è dubbio che, di questo mutamento, Cl rappresenti un soggetto decisivo.

Paolo Franchi


CorSera 23-2-2005


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Il prete dei ragazzi che spiegava la fede con un giradischi

La madre era operaia, il padre socialista. L’inizio come insegnante al Berchet: comunisti e fascisti si riunivano sempre, dei cattolici non c’era traccia



« Cara beltà che amore / lunge m’inspiri… ». Il «Gius» aveva quindici anni, faceva la prima liceo al seminario di Venegono, nel varesotto, e per la verità Leopardi lo sapeva a memoria da tempo. Ma quella volta rilesse Alla sua donna come una preghiera che avrebbe ripetuto quando faceva la comunione, «essendo espressione del genio, questi versi non possono essere che profezia», in questo caso «la profezia di quello che il Signore aveva già compiuto: in fondo l’aspirazione di Leopardi era di vedere con gli occhi e di toccare con le mani la Bellezza fatta carne, il Verbo». Forse ancora non sapeva che Dostoevskij aveva scritto: «La bellezza salverà il mondo», ma in fondo è la stessa certezza che lo ha accompagnato per tutta la vita a contrastare il timore di un «disastro» imminente per la Chiesa e l’idea d’un cristianesimo astratto ridotto all’insignificanza. Il 15 ottobre, nel giorno del suo ottantaduesimo compleanno e alla vigilia delle celebrazioni per i cinquant’anni di Comunione e liberazione, monsignor Luigi Giussani aveva spiegato al Corriere come proprio dallo «stupore» dovesse iniziare tutto: «La mia partenza ha preso le mosse come “passione per”, come “amore”…». Era malato da anni, verso la fine le parole si confondevano ai sospiri, la voce sempre più roca. Però, in quell’ultima intervista, diceva: «La fede è una vita e non un discorso sulla vita, perché Cristo ha cominciato a “balzare” nell’utero di una donna!». Lui era nato nel ’22, a Desio, e l’essenziale glielo avevano spiegato i genitori. C’era la fede di mamma Angelina che fino al matrimonio aveva fatto l’operaia tessile, «mi raccontava le parabole del Vangelo e io capivo che si trattava di cose avvenute», la fede rocciosa dei brianzoli. E c’era il carattere di papà Beniamino, socialista con tendenze anarchiche e intagliatore di legno, appassionato di arte e musica (se il piccolo Luigi la faceva grossa, gli cantava dalla Traviata : « Tu non sai quanto soffrì/ il tuo vecchio genitor! ») che non si stancava di ripetergli: «Datti ragione di tutto».
Così per don Giussani esisteva la fede come «avvenimento» e la necessità di «sperimentarla», di farsene una ragione: «Per capire se un vino è buono, l’unica è provarlo». Tutto era cominciato da un viaggio in treno verso Rimini, dall’incontro con un gruppo di ragazzi «che non sapevano nulla del cristianesimo». Gli venne in mente una domanda di T. S. Eliot che avrebbe ripetuto infinite volte: «È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?». Pochi mesi più tardi, nell’ottobre del ’54, quel prete trentenne aveva ottenuto di lasciare l’insegnamento in seminario e saliva i gradini del liceo Berchet, tra i rampolli della buona borghesia laica di Milano. Dopo la prima lezione in I E, circondato dagli studenti, il «Gius» stava già discutendo in corridoio con il professore di filosofia che sosteneva l’assoluta distinzione tra ragione e fede: «Io le dico che l’America c’è, a prescindere dal fatto che l’abbia vista, secondo lei è razionale affermare questo oppure no?». Tornava a casa arrabbiato «perché i comunisti si radunavano sempre, i fascisti si radunavano sempre e dei cattolici non c’era traccia». Non era il tipo da cedere: «Quando insegnavo in prima liceo, per dimostrare l’esistenza di Dio andavo da casa mia al Berchet con in braccio un giradischi, allora c’erano quelli grossi col trombone, mi trascinavo questo grammofono e facevo sentire Chopin, Beethoven…».
Perché «nell’inizio c’è già tutto» e in quell’inizio si capisce come sia stato possibile che i «quattro scugnizzi» che lo seguirono nella prima sede di via Statuto 2 siano confluiti nella «nuova» Gioventù Studentesca (che era già stata fondata da Giancarlo Brasca, nel ’45) e dal ’69 in Comunione e liberazione, fino a moltiplicare il movimento in 70 Paesi sparsi nel mondo. L’intuizione decisiva era semplice: bisognava uscire dalle parrocchie e ricominciare il lavoro educativo dalle scuole, così quel prete dalla faccia asimmetrica e l’eterno basco in testa incrociava i ragazzi e chiedeva: «Ma il cristianesimo è presente, qui?». Quelli si mettevano a ridere o, basiti, rispondevano «no». E lui: «Allora, o la fede in Cristo non è vera, oppure richiede una modalità nuova». Non era questione di organizzazione ma di metodo, «ci seguiva uno a uno, ci invitava a parlare con lui, ci veniva a prendere a casa coinvolgendo anche i nostri genitori, dava sempre a ciascuno qualcosa da fare», ha ricordato una ragazza di allora, Anna Ferrari. Giussani insiste: vivere seguendo Cristo è vivere meglio, è come vivere cento volte tanto. Da Il senso religioso del ’57 i suoi libri si contano a decine e sono tradotti in buona parte del mondo. Il suo pensiero non è affatto semplice ma trascina. Se Cristo è «il criterio esplicativo del reale» tutto ne risulta coinvolto, dice, ci si deve aprire a tutta la realtà: la propria esperienza, l’incontro con gli altri, le lezioni e le conferenze scandite, l’arte, la letteratura, il teatro, la musica, le gite, la preghiera. E i gruppi crescono, i ragazzi del «Gius» si moltiplicano combattivi nelle scuole e nelle università. Don Giussani avrebbe insegnato al Berchet per dieci anni, dal 1964 al 1990 terrà la cattedra di Introduzione alla Teologia all’università Cattolica. Sono gli anni del grande gelo con il rettore Giuseppe Lazzati e l’Azione Cattolica. Entrano in gioco due diverse idee di cristianesimo e don Giussani non è certo tenero, a proposito del «cattolici cosiddetti democratici» parla di «dualismo» tra fede e realtà sociale e dice: «Una fede che non investe la totalità del soggetto non può non diventare astratta». Eppure riconoscerà a Lazzati un debito intellettuale che risale al fatidico ’54, a Gressoney lo sentì dire: «Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo». Negli anni Settanta il Movimento Popolare diventa una sorta di «braccio politico» di Cl, il clima è caldo, capita che qualcuno si prenda delle legnate. Nel ’76 sarà proprio «il Gius» a mettere in guardia i ragazzi dall’ideologia: «Non siamo entrati nella scuola cercando un progetto alternativo ma con la coscienza di portare Cristo, il nostro scopo era la presenza». Da arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini era perplesso, «non capisco le sue idee e i suoi metodi, ma vada avanti così», glielo avrebbe ripetuto come Papa Paolo VI: «È questa la strada». Karol Wojtyla ha conosciuto Cl fin dai tempi di Cracovia e nel 2002, per il ventesimo anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità, ha scritto a don Giussani: «Il movimento vuole indicare non una strada, ma la strada (…) e la strada è Cristo».
Però il «don Gius» è stato anche un personaggio scomodo, talvolta guardato con diffidenza dalle curie. È diventato monsignore solo nell’83, a 61 anni, ad ogni concistoro si diceva invano che fosse tra i candidati alla porpora cardinalizia. Intanto gli anni Settanta sono acqua passata, l’ultimo Meeting di Rimini ha chiuso il lungo percorso di avvicinamento con Azione Cattolica e gli altri movimenti, i ciellini sono i primi a notare come il clima intorno alla Fraternità sia diverso. Alla vigilia di Rimini, don Giussani aveva chiamato «accanto a sé» alla guida di Cl un sacerdote spagnolo di 54 anni, don Julián Carrón, figlio di contadini e docente di Nuovo Testamento, prima di incontrare Cl anche lui aveva fondato un movimento.
Di certo è difficile cogliere l’essenziale di un uomo così complesso. Però quand’era bambino gli capitò di accompagnare la madre a messa, prima dell’alba, erano le cinque e mezzo e lui s’era incantato a osservare l’ultima stella del mattino: «Mia madre, mentre io guardavo, mi disse: “Come è bello il mondo e come è grande Dio!” È stato uno di quei momenti che contengono la chiave di volta per tutta la vita. “Come è bello il mondo” vuol dire: non è inutile vivere, non è inutile fare, lavorare, soffrire; non è negativo morire, perché c’è un destino. “Come è grande Dio!”: il grande è ciò a cui tutto fluisce, il Destino».



Gian Guido Vecchi


CorSera 23-2-2005