Manifesto dei conservatori

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Roger Scruton, Manifesto dei conservatori, Edizioni Raffaello Cortina, 2007, pp. 247, € 22.

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Non sono i libri che salveranno il mondo e nemmeno i loro autori. Matthew Arnold, eccelso sul piano della critica, aveva torto marcio nel dire che la poesia può sostituire la religione. Anzi, se la si carica di così gravoso compito, la quinta arte diviene al più un esercizio di onanismo, dannoso e insulso come tutti i suoi pari. Ma se invece la poesia accetta e onora il proprio prezioso ruolo di coppiere degli dèi, allora sì che esalta. In soldoni è così che Roger Scruton, inglese, filosofo, racconta Thomas Stearns Eliot nel suo nuovo, grandioso libro, Manifesto dei conservatori (Cortina, pp. 248, E 22,00), prefato da Giuliano Ferrara.
Un libro la cui ragione d’essere è semplicemente questa. Mentre tutto attorno crolla, o ci si accoda alla fila di chi cammina mesto verso il baratro, o si cerca di reagire. Semplice, ma efficace. E imprescindibile. Ora, secondo Scruton, che il nostro mondo sia avviato al disastro non è certo una notizia. Nel suo nuovo libro il filosofo espone l’idea con abbondanza di documentazione, ripercorrendo la crisi della morale tradizionale, la perdita del concetto naturale di famiglia fondata sul matrimonio, lo smarrimento dei canoni attraverso cui una società può essere autenticamente a misura di uomo, l’avvento dello scientismo prodotto da una certa piega presa dall’illuminismo che ha finito per fare a pugni con la religione invece che esaltarla attraverso il corretto uso della ragione, la fine della politica che rispetta le identità nazionali, il sentimentalismo con cui oggi si affrontano questioni decisive quali il rapporto uomo/natura.

Il senso comune
Che il nostro mondo sia avviato al disastro non è una novità, ma questo non è nemmeno un destino ineludibile. Per Scruton, infatti, il migliore antidoto è la conservazione. Non la conservazione gelosa di un passato che ha fatto il proprio tempo e che per forza di cose non può tornare, ma la conservazione nobile di ciò che di più nobile vi è nell’uomo. Vale a dire un senso comune, per quanto minimo, che renda ancora possibile riconoscersi in un linguaggio fungibile. Il senso comune, infatti, non è la communis opinio nel senso della somma dei vari “secondo me”. È invece l’intuizione fondamentale dell’essere in tutti i suoi gradi di analogia, l’esperienza elementare di sé e del mondo che coincide con la percezione del reale esistente come primo e originario atto conoscitivo dell’essere umano.
Il senso comune è l’idea stessa dell’unità e dell’identità dell’io come distinto dal resto del creato, e del creato come popolato di società, nazioni, cultura, persino Dio – quanto minimalisticamente qui poco importa – in un modo tale per cui questi concetti conservino ancora un significato proprio e intelligibile, e quindi siano comunicabili.
Il conservatore oggi, suggerisce bene Scruton, altri non è che queconoscersi sto. E il suo maestro più efficace resta Eliot, il poeta che poetò con Questa coscienza.

La tradizione
«Senza Eliot – scrive diretto Scruton – la filosofia del conservatorismo avrebbe perso qualunque forma di solidità durante il secolo scorso» e l’efficacia del poeta è stata quella di lavorare costantemente sul termine «che meglio sintetizza il suo contributo alla coscienza politica del nostro secolo: “tradizione”».
Il riferimento principale, ma non unico, è il famoso saggio Tradizione e talento individuale, del 1919, in cui Eliot asserisce lapidario che l’unica vera originalità consiste nel riconoscersi figli e partecipi di una tradizione, che pure a ogni istante che passa l’artista – l’uomo che fa – rivive, rinnova, riattua. Del resto, per Scruton i versi di Eliot «ci riportano alla convinzione che è il nucleo del conservatorismo moderno, alla credenza nel contratto à la Burke tra i vivi, i defunti e chi non è ancora nato; e, come Burke sottointendeva, solo chi ascolta la voce di chi non c’è più è in grado di proteggere chi non è ancora venuto al mondo». Scruton cita il famoso verso (burkeano in essenza) di Little Gidding, nei Quattro Quartetti, che per il filosofo inglese è la migliore testimonianza eliotiana dello spirito autentico del conservatorismo: «i defunti comunicano con lingue di fuoco al là del linguaggio dei vivi».

Ma non è un sogno del passato. Scruton osserva che «questo è il messaggio conservatore per la nostra epoca, un messaggio che va oltre la politica, un messaggio di spessore liturgico e di autorità, che deve essere recepito se si vuole che una politica partecipe e moderata rimanga una possibilità». E lo è soprattutto e anzitutto perché «il conservatorismo è esso stesso un modernismo, e qui sta il segreto del suo successo».
L’origine di questo spirito predata però lo stesso Eliot – come bene riconosce il filosofo – nel quale vibra lo spirito burkeano: «Ciò che distingue Burke dai rivoluzionari francesi non il suo attaccamento alle cose del passato, ma il suo desiderio di vivere pienamente il presente, capendolo in tutte le sue imperfezioni e accettandolo come l’unica realtà che ci viene offerta». E prosegue: « Come Burke, Eliot ha colto la distinzione tra una nostalgia volta al passato – che non è altro che un’altra forma di sentimentalità moderna – e una tradizione genuina che ci dà il coraggio e l’ottica giusta con i quali vivere nel mondo
moderno».

Il cerchio si chiude
Il conservatorismo, insomma, è cultura più consona alla realtà delle cose, al mondo in cui siamo, perché permette ancora il senso comune. Tutto il contrario, insomma, di una fuga all’indietro. Scruton lo afferma con forza, e nel farlo con originalità si piega docile a una tradizione, in cui si riconosce volentieri.
Scruton, infatti, ripropone così – con questo suo ultimo libro, ma anche con l’intera sua produzione filosofica, letteraria, artistica – un itinerario fondamentale; quello che da Edmund Burke porta a T.S. Eliot, cioè dal primo critico della Modernità filosofica nata dalla e con la Rivoluzione Francese al suo interprete più cogente. E l’itinerario è lo stesso con cui, a partire dagli anni Cinquanta, il padre della rinascita conservatrice statunitense della seconda metà del secolo XX, Russell Kirk, ha rimesso in gioco la filosofia del conservatorismo, il primo vero “manifesto dei conservatori”. Non a caso Scruton definisce il pensatore americano il «più poderoso rappresentante moderno» di Burke, «il suo discepolo americano più originale».
Sta in questo cerchio che si chiude proposta di Scruton per il presente: un conservatorismo che permetta ancora di dire – in primis a noi stessi, dunque agli altri – “uomo”, “famiglia”, “società”, “nazione”, “Dio”, tradizione”, “futuro”. E così di resistere. Non è la salvezza eterna, perché questa non la possono dare i libri loro autori, ma è l’unica possibilità salvezza del nostro mondo.

Marco Respinti
Con il permesso dell’Editore
© il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 6, n. 21, Milano 26-5-2007, p. 4