L’Unità d’Italia e il Risorgimento

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Francesco PAPPALARDO, L'Unità d'Italia e il Risorgimento, D'Ettoris Editore, Crotone 2011, pp. 76, € 7,90.

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Nel centocinquantesimo anniversario dell’unificazione politica della penisola italiana non sono mancate opere e ricostruzioni storiografiche di pregio (già segnalate peraltro su queste pagine online dell’Istituto) intese a rileggere i complessi eventi che portarono alla famosa proclamazione del 17 marzo 1861 in chiave più obiettiva, quando non semplicemente realistica, anche a costo di toccare qualche nervo scoperto. Il pericolo, con il passare inesorabile degli anni, è infatti quello di sposare e avallare — magari inconsciamente — delle letture storiche parziali — da cui derivano però, inevitabilmente, delle scelte politiche e sociali valide hic et nunc — per il semplice fatto che provengono dalle massime istituzioni del Paese o su cui, almeno superficialmente, tutte le principali agenzie politiche e culturali oggi si dichiarano, grosso modo, d’accordo.

Il nuovo, agile lavoro di Francesco Pappalardo, autore di numerosi volumi sulla storia del Risorgimento e sul cosiddetto «brigantaggio» nel Mezzogiorno, si presenta a tal proposito — soprattutto per il pubblico più «profano» e per chi abbia necessità di conoscere sinteticamente le coordinate generali del Risorgimento — come un efficace compendio su «quel che c’è da sapere» relativamente all’unificazione, avvenuta esattamente centocinquant’anni or sono.

Composto da otto brevi capitoli e una conclusione, il saggio di Pappalardo fa luce anzitutto sulla genesi e sul significato storico dei termini (fin troppo) abusati della questione: così, «Risorgimento» «[…] indica generalmente il periodo della storia d’Italia durante il quale la Penisola viene unita politicamente. Il concetto richiama l’idea di una risurrezione della nazione italiana attraverso la conquista dell’unità politica perduta da tempo immemorabile ed è accompagnato quasi sempre da considerazioni negative sulla lunga serie di inadeguatezze e di occasioni perdute che avrebbero caratterizzato la storia peninsulare» (p. 7). In questo senso il Risorgimento costituirebbe quindi il radioso riscatto della civiltà italica dopo secoli di decadenza dovuti a — e segnati soprattutto dalla — presenza sul territorio italiano della sede universale della Chiesa cattolica. Ora, se è vero che l’unificazione politica è ormai un fatto acclarato — si è resa a suo tempo necessaria e forse inevitabile per impedire guai ben peggiori — e oggi sicuramente da difendere, il Risorgimento che ha accompagnato quel processo di unificazione, in quanto «Rivoluzione culturale», che aveva l’obiettivo di modernizzare il Paese, costruendo ex nihilo «una nazione nuova caratterizzata da una nuova cultura» (p. 9), rappresenta invece oggettivamente più una cesura che un segno di continuità nella millenaria storia degli italiani e della cultura italiana, più un momento di divisione che di unione, più un aspetto problematico che un valore condiviso. Pappalardo lo spiega in dettaglio nei primi capitoli, rievocando la variegata e multiforme storia della nazione italiana, non a caso ricordata ancora oggi come la terra dei «mille campanili» e certamente come soggetto con ben più di centocinquant’anni. Il termine «nazione», peraltro, in questo senso veniva utilizzato già con cognizione di causa dallo scrittore e poeta fiorentino Giovanni Boccaccio (1313-1375): siamo nel Medioevo e l’identità italiana è dunque già viva e riconosciuta con tutta evidenza come un unicum, il che non è poco per una nazione che — soprattutto nelle sue élite più progressiste e «alla moda» — ha sempre coltivato l’autodenigrazione pubblica come una sorta di passatempo preferito. Insomma, per esprimersi correttamente, mentre lo Stato italiano è sorto nel 1861, «la nazione Italia esiste da quasi un millennio come unità culturale, pur nella diversità delle sue componenti, e si è formata all'interno della Cristianità occidentale, nei secoli dellAlto Medioevo, sulla base di una preziosa eredità romana, a sua volta maturata in un complesso mosaico di lingue e di stirpi» (p. 12). Il secolare pluralismo socio-culturale della Penisola emerge qui non solo come un mero dato storico-fattuale circoscrivibile, più o meno rilevante a seconda della prospettiva storiografica adottata, ma come valore in sé e peculiare tratto distintivo dell’«essere italiani»: «eredi dell’universalismo romano e cristiano, [essi] hanno oscillato sempre fra l’apertura all’universale e l’attenzione al particolare, fra il senso dell’appartenenza nazionale e l’attaccamento alla comunità locale, e hanno dato vita a una comunanza di cultura e di civiltà che trascendeva le singole formazioni politiche» (p. 13). Questo diffuso — e ovunque spontaneo — idem sentire, pur ripetutamente attaccato e messo alla prova, nel corso dei secoli non si è mai dissolto e non scompare nemmeno di fronte alla discesa di Napoleone Bonaparte (1769-1821), quando centinaia di migliaia d’italiani «[…] prendono le armi […] contro gli eserciti rivoluzionari […] dando vita all’ampio e poco conosciuto fenomeno dell’Insorgenza, con la quale i popoli [della Penisola] si schierano ancora una volta in difesa della patria comune» (p. 16). L’Insorgenza antigiacobina e antinapoleonica rappresenta infatti — anzitutto per le sue dimensioni e la sua capillare capacità di mobilitazione, nonché per l’elevato numero di vittime — un movimento di popolo senza eguali nella storia italiana, Risorgimento compreso.

Tuttavia, il passaggio dal XVIII al XIX secolo segna — anche per l’affermazione culturale di movimenti come il romanticismo — un momento di non ritorno per la ridefinizione dell’ethos pubblico di molti costituendi (o appena sorti) Stati europei. In questo periodo, infatti, la dimensione nazionale — fino ad allora considerata come un semplice aspetto, fra i tanti, della vita associata — diventa un valore supremo, quasi trascendente, a tal punto che «[…] sostituisce la legittimazione religiosa del potere e giustifica qualsiasi decisione politica» (p. 25). In quest’ambito un ruolo fondamentale in Italia viene svolto da Giuseppe Mazzini (1805-1872) che, fondando nel 1831 la società segreta Giovine Italia, è tra i primi a prefigurare l’unificazione della Penisola su basi utopiche e con linguaggi totalmente estranei al corpo sociale: «l’unità che egli auspica è quella di una società completamente nuova, da costruire sulla demolizione degli ordinamenti preesistenti e degli stessi valori, spirituali e storici, comuni alle popolazioni italiane in quanto estranei o contrastanti con la sua ideologia. La nuova Italia s’identifica dunque con un’identità astratta e gli italiani sono "da fare" mediante un radicale rinnovamento della società, un’opera di pedagogia collettiva» (p. 26). Se questo è vero, la famosa citazione del marchese Massimo d’Azeglio (1798-1866), ideale sintesi del processo rivoluzionario-risorgimentale, «fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani», non sorprende più di tanto e appare finalmente in tutto il suo vero, drammatico, significato. L’Italia a cui si riferiva d’Azeglio, evidentemente, non era quindi l’Italia reale, da secoli esistente, ma per l’appunto la nuova idea — disegnata a tavolino e integralmente sostitutiva della realtà — portata avanti dalle élite illuminate e non di rado massonizzate, ma, in ogni caso, sempre rivoluzionarie — che condussero, ciascuna a suo modo, il processo di unificazione politica al servizio del Regno sabaudo.

Alla luce di tutto ciò si comprende meglio come l’unificazione del 1861 e degli anni immediatamente successivi — quando, come altri hanno pure suggestivamente evocato, lo Stato ha invaso la Nazione — abbia provocato tre grandi ferite nel corpo sociale, oggi ancora vive e cioè: a) la «questione istituzionale», derivante dalla decisione di non adottare per il nuovo Stato un ordinamento federale — auspicato, fra gli altri, dal beato Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855) proprio per difendere quel ricco pluralismo sociale costitutivamente identitario della penisola — ma d’impiantare in Italia, in modo coatto, il centralismo mutuato dallo Stato rivoluzionario francese; b) la «questione meridionale», causata dal medesimo processo di «piemontesizzazione» forzata, che porta in pochi anni all’impoverimento del Mezzogiorno e a una emigrazione di massa, con tutti i relativi risvolti sociali ed economici, mai vista prima di allora; e c) la «questione cattolica» che — culminata in un periodo di inaudita persecuzione e di radicale laicizzazione della società, in cui non mancarono sacerdoti uccisi e vescovi arrestati o esiliati, migliaia gli enti religiosi soppressi — estranierà per oltre mezzo secolo l’intero popolo cattolico, cioè la stragrande maggioranza del Paese, dalle principali istituzioni rappresentative del nuovo Stato.

In conclusione e riflettendo su questi dati di fatto, mettere in discussione il Risorgimento, cioè la Rivoluzione italiana, lungi dal costituire un’offesa di lesa maestà alla storia del nostro Paese — questo di smentire un luogo comune l’intento del breve saggio — appare quantomai urgente per comprendere seriamente il proprio passato, senza il quale, per ripetere una frase fatta ma vera e in questi giorni continuamente riproposta, non si può costruire nessun futuro. Anche perché, in tempi di galoppante laicismo «istituzionale» come quelli attuali, sarà bene non dimenticare che quella «rivoluzione culturale» ha rappresentato, in epoca recente, il tentativo più serio di scristianizzazione tout-court dell’intero Paese: Scrive Pappalardo: «l’omogeneizzazione delle istituzioni e la creazione di un forte Stato centralista sono andate di pari passo con una gigantesca opera pedagogica, i cui strumenti principali sono stati la scuola e l’esercito. La coscrizione militare e quella scolastica dovevano essere collegati in modo indissolubile, perché rappresentavano la fucina migliore per formare le nuove generazioni nel culto esclusivo della patria e per ridimensionare il ruolo educativo della Chiesa […]. L’opera di pedagogia politica e patriottica degli italianidi cui è protagonista anche Garibaldi con un ruolo poco noto di "educatore" popolarevengono accompagnati dal tentativo d’inventare una tradizione per il nuovo Stato attraverso forme di sacralizzazione della monarchia e dei miti risorgimentali, presentati spesso in alternativa alle esperienze religiose tradizionali. I ceti dirigenti fanno ricorso a tutti gli strumenti a disposizione, dal culto della dinastia sabauda al tentativo di creare una liturgia civile, fino alla funzione pedagogica affidata ai monumenti e alla rivoluzione toponomastica, cioè la ridenominazione politica dei nomi delle vie e delle piazze, fino ad allora tradizionalmente ispirati a santi e a mestieri» (pp. 69- 70).

Omar Ebrahime