(L’Espresso) La Chiesa italiana deve essere moralista o realista?

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La controchiesa d’Italia. Vita, morte e miracoli dell’intelligencija cattolica progressista
È in corso da mesi una campagna contro il cardinale Ruini e la Chiesa “genuflessa ai ricchi e ai potenti”. Ecco chi la conduce, come, perché. La silenziosa risposta dei vescovi. E un’analisi di Pietro De Marco

di Sandro Magister

ROMA – L’attacco in corso da mesi contro il cardinale Camillo Ruini ha registrato nuovi sviluppi. È un attacco che divide in primo luogo la cattolicità italiana. Ma i suoi effetti arrivano più lontano e più in alto. Roma e l’Italia sono al centro della Chiesa mondiale. Hanno il papa come vescovo e primate. E Ruini è il vicario del papa per la diocesi di Roma, oltre che presidente, sempre per volere papale, della conferenza nazionale dei vescovi.

L’antefatto è stato raccontato in www.chiesa in un servizio dell’8 marzo 2004 che aveva per titolo: “Chiesa dei ricchi o Chiesa dei poveri? Il cardinale Ruini contestato”. E per sottotitolo: “Vescovi, monaci, gesuiti, intellettuali accusano il vicario del papa di servire i ricchi e i potenti. Sono i cattolici progressisti. Ma in Italia ci sono anche i cattolici ‘irriverenti’, che invece… Cronaca di uno scontro tra due cattolicesimi rivali”.

Ebbene, rispetto a quanto lì riferito, le novità sono due.

La prima è una nuova raffica di critiche al capo della Chiesa italiana, da parte di esponenti di punta della cultura cattolica progressista. Come già in precedenza, essi accusano Ruini di tacere davanti alle violazioni di legalità imputate all’attuale governo di centrodestra, e di sostituire alla “fede profetica” una “religione civile” asservita ai potenti.

La seconda novità è che il direttivo dei vescovi italiani ha discusso di queste critiche nella seduta del 23 marzo del consiglio permanente della CEI. E ha concluso di non rispondere. In un’intervista di pochi giorni dopo al “Corriere della Sera”, il cardinale Ruini ha spiegato il perché di questa decisione di tacere.

Ecco le novità più in dettaglio:


1. Le nuove critiche


Sul numero di aprile di “Jesus” – il mensile dei religiosi paolini che da mesi è la principale tribuna d’accusa – sono intervenute contro Ruini altre personalità cattoliche di rilievo.

Pietro Scoppola, decano degli storici cattolici, ha paragonato l’attuale capo del governo italiano, Silvio Berlusconi, al Benito Mussolini degli anni Trenta, che tendeva a “divinizzarsi” quando invece era un semplice “idolo che i popoli finiscono sempre a spezzare”. Scoppola ha ripreso queste parole d’accusa da Pio XI. E ha reclamato dall’attuale vertice della Chiesa un’altrettanto “forte testimonianza evangelica” nel denunciare il “regime” in carica.

Giorgio Campanini, specialista in storia del cattolicesimo politico, e Giovanni Bianchi, parlamentare del centrosinistra ed ex presidente delle ACLI, Associazioni cristiane lavoratori italiani, hanno dato anch’essi man forte alle critiche, nello stesso numero di “Jesus”.

Franco Monaco, altro deputato del centrosinistra, nonché ex presidente dell’Azione Cattolica di Milano e consigliere politico del cardinale Carlo Maria Martini, è tornato a difendere le ragioni della “Lettera al mio vescovo” con la quale, in ottobre, aveva dato il via all’offensiva.

Inoltre, sul numero del 15 marzo di un’altra rivista cattolica progressista, “Il Regno”, edita dai dehoniani di Bologna, il sacerdote e teologo fiorentino Paolo Giannoni ha criticato “i miseri sotterfugi della falsificazione della fede ridotta a religione civile, stoltamente perseguita dall’attuale dirigenza ecclesiastica”.


2. Il silenzio/risposta di Ruini


Dopo mesi di assoluto silenzio, e dopo averne discusso con altri vescovi nel direttivo della CEI, il cardinale Camillo Ruini ha così brevemente spiegato, in un passaggio di un’intervista al “Corriere della Sera” del 28 marzo, ciò che lo separa dai suoi accusatori e lo induce a star zitto:

D. – Parte del mondo cattolico accusa la Cei di interessarsi della famiglia e della scuola; ma di tacere sulle violazioni delle regole, che l’opposizione attribuisce al governo Berlusconi. Lei accetta queste accuse?

R. – “Le conosco bene, ma sinceramente non mi sento di accettarle. Può essere vero che [noi vescovi] non parliamo di certi temi nei termini graditi all’una o all’altra posizione politica. Ma non è vero che non ne parliamo: semplicemente lo facciamo in modo diverso. La differenza consiste nell’orizzonte nel quale certe tematiche vanno inserite: oggi questo orizzonte non può non comprendere, accanto alla questione sociale e a quella delle istituzioni democratiche, una questione che riguarda l’uomo come tale, la sua differenza dal resto della natura, con tutte le conseguenze che ne derivano, anche a livello pubblico e politico, ad esempio per la bioetica o per la concezione della famiglia”.

E ancora:

D. – Eminenza, l’accusa di alcuni cattolici è di indulgenza verso il centrodestra.

R. – “A dire il vero ce n’è anche un’altra, di segno diverso: quella di non essere abbastanza energici nel contrastare la presenza dell’islam. Di fronte al protagonismo dell’islam e alle gesta del terrorismo islamico, c’è stato un soprassalto in termini di riscoperta dell’identità cristiana. È un fenomeno da governare e pilotare, che però ha alla radice qualcosa di positivo: l’identità cristiana anche come fatto culturale. L’accusa che ci viene rivolta è di non difenderla abbastanza. Ma la difesa non può essere il rifiuto degli altri: va modulata sui principi cristiani di libertà, accoglienza, dialogo. La percezione collettiva è mutata. E in positivo. Simboli come il crocefisso non sono più visti solo come espressione religiosa, ma, appunto, come emblemi di un’identità storico-culturale. In altri termini, l’ottica non è più quella della laicità o meno dello stato, ma dell’identità complessiva del nostro popolo”.

In una precedente intervista del 12 dicembre 2002 a “L’espresso”, rispondendo ad accuse identiche alle attuali, il cardinale Ruini aveva aggiunto anche un’altra considerazione. Aveva messo in guardia i suoi critici dall’usare il “moralismo” come arma politica:

D. – Cardinal Ruini, l’accusano di prediligere la destra e di tacere su certe leggi giudicate immorali.

R. – “Primo, mi occupo dei contenuti e non degli schieramenti. Secondo, più che tacere sono semmai fin troppo insistente, nei discorsi alla CEI che sono poi i miei unici commenti che toccano anche temi politici. L’esperienza di cinquant’anni mi ha insegnato a stare attento a una tentazione: il moralismo che usa temi etici come strumenti di lotta politica. Dico cinquant’anni perché già Alcide De Gasperi [lo statista cattolico padre dell’Italia repubblicana] veniva osteggiato così. E sommessamente inviterei a una maggiore prudenza, perché se carichiamo le singole scelte della dialettica politica di una valenza etica, allora finisce che la lotta politica stessa peggiora, diventa disprezzo, odio verso le persone”.


* * *

Da queste risposte, si ricava che il cardinale Ruini non accetta le accuse che gli sono rivolte. Ma nemmeno ne rimuove gli argomenti. Semplicemente dice di affrontarli “in modo diverso”.

Della “diversità” di Ruini si sa. L’ha esposta più volte nei suoi densi discorsi alla CEI e in alcune interviste. Ma che cosa distingue, invece, la cultura e la pratica dei suoi accusatori?

Franco Monaco, su “Jesus” di aprile 2004, torna a difendere la validità di “quella subcultura che in Italia va sotto il nome di cattolicesimo democratico”, alla quale egli stesso appartiene.

E rifiuta che venga giudicata “residuale e infeconda”.

Ma il rischio che lo diventi è reale. L’ha riconosciuto già tre anni fa – in un convegno nel monastero di Camaldoli – anche un analista insospettabile come il professor Arturo Parisi, che milita a sinistra nello stesso partito di Monaco e del presidente della commissione europea Romano Prodi.

Il pericolo descritto da Parisi è la scomparsa dell’opposizione cattolica dentro il magma della pura protesta contro i poteri civili ed ecclesiali.

È questo l’approdo della cultura cattolica progressista? La sua campagna contro il cardinale Ruini ne è la conferma?

Nel saggio pubblicato qui di seguito il professor Pietro De Marco, docente all’università di Firenze e alla facoltà teologica dell’Italia centrale, dà una risposta per molti aspetti nuova e sorprendente. Storia, politica, teologia, cultura, processi sociali: tutto concorre a disegnare l’istruttivo tragitto di quella che è stata la cultura dominante nel cattolicesimo italiano del secondo Novecento.


Le “sociétés de pensée”, la nuova casa dell’opposizione cattolica

di Pietro De Marco



L’allarme diffuso nella stampa di opposizione per un’Italia che “precipita nella barbarie” ha più di un aspetto istruttivo. Si tratta essenzialmente di un’arma verbale in uso tra coloro che costituiscono il nerbo della “sinistra che le spara grosse” e però “non si sentono annichiliti dalla propria sparata”, di cui ha scritto Francesco Merlo su “la Repubblica” del 29 gennaio di quest’anno.

Un grande storico contemporaneo delle idee politiche, John Pocock, ha detto a proposito di simili linguaggi: “Le parole divengono paradigmatiche, nel senso che possono venir usate da più d’uno per trasmettere più d’un contenuto o imprimere loro un ‘taglio’; e la comunicazione sociale diventa una sorta di partita a tennis, in cui mi è permesso di importi la mia palla ‘tagliata’ a condizione che tu possa imprimere il tuo ‘taglio’ nel rimandarmela. […] Ma può capitare che venga sparata dalla canna di un fucile una palla in nessun senso rimandabile. Vale a dire: una comunicazione a cui […] mi è, di fatto, proibito rispondere, dato che mi viene proibito di fare qualsiasi comunicazione negli stessi termini”.

Va detto con franchezza: i cattolici italiani che fanno strenua opposizione etico-politica al governo in carica partecipano intensamente di questo “populismo selettivo”. La loro deprecazione mobilitante, il loro “attivismo antipolitico semplificatore” (per usare una formula di Marco Tarchi nel suo recente saggio su “L’Italia populista”) si esercitano elettivamente contro il premier e il suo governo. Un cattolico d’opposizione più avvertito, Arturo Parisi, parlando a Camaldoli nel luglio 2001 ammoniva: “Lo stesso cattolicesimo popolare è prossimo a scivolare verso il cattolicesimo populista, se noi non ne riprendiamo la guida fuori da ogni atteggiamento moralistico. Quello stesso moralismo condannerebbe il cattolicesimo democratico a una sconfitta non solo da parte della cultura agnostica e clericale del centrodestra, ma anche da parte della cultura sperimentale e pragmatica della sinistra”. L’invito di Parisi sembra rimasto inascoltato. Basta pensare alla routine di aggressività del quotidiano “Europa”.

Per le culture cattoliche di opposizione, la costruzione attuale del nemico ha avuto il suo fulcro, tra il 1994 e il 1995, in parallelo con l’ascesa al governo di Silvio Berlusconi, nel ritorno alla politica attiva del monaco Giuseppe Dossetti, protagonista, da laico, della politica cattolica italiana del dopoguerra. E poco importa se questa o quell’area dell’opposizione cattolica non ami essere classificata come dossettiana. Tutte hanno assunto da Dossetti lo schema di un presente italiano in “conflitto tra realtà e mito: […] tra una sana democrazia e miti antidemocratici, alla fine idolatrici, come quelli della babilonese Regina del Cielo, cioè miti della prepotenza, della arrogante occupazione del potere, della conservazione di esso ad ogni costo e contro ogni ragione ed interesse di patria, della palese prevalenza degli interessi privati di un’azienda sull’interesse pubblico della nazione” (discorso al convegno dei costituzionalisti, Milano, 21 gennaio 1995; ma tutto quel testo è fondante, per la guerra verbale e retorica in atto). Poche settimane più tardi Dossetti tornava sulle “inclinazioni bonapartiste e cesariste” del “grande monopolista che aspira alla suprema funzione di governo”. E contemporaneamente negava ogni legittimità alle riforme costituzionali che la coalizione di centrodestra aveva nel suo programma (26 aprile 1995, relazione all’università di Parma).

L’irrigidimento autoconservativo, dopo il terremoto di Tangentopoli, delle subculture politiche cattoliche – già prima ciecamente inconsapevoli persino della crisi costituzionale tematizzata da Francesco Cossiga quand’era capo dello stato – trovò in Berlusconi un bersaglio mobilitante, quasi un capro espiatorio. E parte del mondo cattolico ne ricavò un vero e proprio supplemento di vita: sempre meno politica razionale e sempre più emozione antagonistica, surrogato di un progetto autonomo.

La diagnosi di Parisi a Camaldoli era su questo punto diversa: non dava importanza alla metamorfosi antagonistica in corso. Per lui, era anzitutto la “fedeltà all’ispirazione conciliare” ciò che consentiva al cattolicesimo di “resistere al destino” che lo vorrebbe concentrato nel polo moderato e conservatore. Ma Parisi lanciava anche un avvertimento: a suo avviso, un’adesione di cattolici al centrosinistra che non fosse critica e portatrice d’una sua originalità, finirebbe per marginalizzarli. È questo un punto che è importante esaminare.


* * *

Viene da lontano, nella cultura cattolica progressista, il rischio, e quasi la volontà, di perdere distanza critica nei confronti dell’intelligencija laica, comunista e post-comunista. Su questa rinuncia il filosofo Augusto Del Noce, e più recentemente Gianni Baget Bozzo, hanno scritto cose rigorose. Ne è stata un sintomo l’evoluzione di un saggista famoso come padre Ernesto Balducci. Partito da posizioni apologetiche antimoderne o, meglio, antiborghesi, di ascendenza francese, Balducci approdò negli anni Ottanta e primi Novanta all’antioccidentalismo pacifista, per collocarsi entro la cultura più populistica della sinistra. La sua evoluzione aveva avuto una sua svolta decisiva nel Sessantotto.

Era stata la cultura cattolica francese ad anticipare questa stessa metamorfosi. Essa aveva esteso il modello universalistico dell’intellettuale antifascista, elaborato in Europa negli anni Trenta, a una concezione di Chiesa militante ma antitemporalistica, che diventerà cara ai teologi “engagés”. In padre Marie-Dominique Chenu e seguaci (come fu subito avvertito da Gaston Fessard) l’idea della “consecratio mundi” trovò la sua applicazione pratica nella trasformazione militante del mondo, che poi divenne per molti una “consecratio” esclusivamente umana a contenuto rivoluzionario. Le successive correzioni di questa deriva non hanno impedito l’attuale disastro della Chiesa e della cattolicità francesi, risultato di un dopoconcilio lasciato guidare dagli intellettuali teologi.

Invece, in Italia, il partito della Democrazia Cristiana e le conseguenti responsabilità di governo, con l’effettiva influenza quotidiana sulla vita pubblica, avevano fatto da freno; a parte il dissenso “di base”, la maggior parte del mondo cattolico aveva salvato la propria autonomia entro una cultura politica di tipo razionale-moderato, fino a tutti gli anni Ottanta. Successivamente, lo sgretolamento della convinzione di un mandato etico-politico a governare, poi la perdita effettiva della posizione dominante di governo, hanno favorito la deriva delle culture cattoliche dette “democratiche” verso appartenenze sentite come emancipatorie dalle antiche obbedienze. Da ciò l’approdo fiducioso agli schieramenti maggioritari dell’intelligencija di sinistra: alle “sociétés de pensée” di cui la cultura cattolica progressista è ormai divenuta parte qualificata.

Nelle “sociétés de pensée” è confluito un mix cattolico fatto di riformismo ecclesiale deluso, di collateralismo ideale alle sinistre e di inclusione nella loro egemonia mutante, di utopismo emozionale antagonistico. L’esito estremo è un populismo ecclesiale e civile che allinea l’opposizione cattolica alle sinistre movimentiste, potenzialmente contro qualsiasi governo di oggi o di domani, e in più contro il governo della Chiesa italiana in quanto non antagonistico nei confronti dell’attuale coalizione al potere.

“Sociétés de pensée”, dunque. Sergio Romano dedicò attenzione, anni fa, a queste formazioni che moltiplicano e alleano tra loro gli intellettuali “critici” nella ruminazione e nella formulazione dell’opposizione al sovrano. Le “sociétés de pensée” furono così denominate, e studiate, all’inizio del Novecento da Augustin Cochin, lo storico ed erudito cattolico antirepubblicano, paradossale allievo di Durkheim, che col suo lavoro rese possibile come pochi altri la nostra attuale libertà nei confronti del mito rivoluzionario francese.

Affinché tali “sociétés” invisibili, a genesi intellettualistica, possano venire alla luce è necessario un catalizzatore; senza catalizzatore queste potenti figure generative dell’opinione pubblica – che tendono a parlare a nome della società civile ed anzi a porsi come l’autentica società civile stessa – tornano a essere ciò che ordinariamente sono, cerchie tra loro disomogene e in concorrenza, o scompaiono.

Le “sociétés de pensée” hanno una grande risorsa endogena: la lunga pratica dell’opinione “illuminata” nel drammatizzare la congiuntura storica e demonizzare l’avversario. E in effetti un inconsulto demonizzare-drammatizzare misura il grado di coinvolgimento delle migliori intelligenze, una volta arruolate in una “société”.

Tutto questo ha dei costi. Scriveva Cochin: “Le ‘sociétés [de pensée]’ creano una repubblica ideale ai margini della vera, un piccolo stato a immagine del grande, con l’unica differenza che non è reale. Le decisioni prese sono solo auspici e – dato fondamentale – i suoi membri non hanno personale interesse né responsabilità riguardo alle questioni di cui parlano”. Il suo amico De Meaux glossava, in uno scritto del 1928: “Realizzazione di una società irreale, costruita sulla carta da irresponsabili, questo è lo stile di lavoro nelle ‘sociétés de pensée’”.


* * *

Un’efficace stagione di costruzione reticolare del nemico ordinata alla sua distruzione politica e materiale è quella presente. Per dirla con Pocock non vi è parola di opposizione – salvo poche e di poche persone – che non sia assemblata e rinforzata come per essere “sparata dalla canna di un fucile”. Spontaneità e calcolo strategico qui si sommano. Certo, una regìa prende per mano le emozioni, ma è una regìa “sui generis”. Sa ben poco di complotto, rimanda piuttosto a un “méchanisme” diffuso.

Ne è una prova la conformità del mondo cattolico “democratico” a questa pratica. La denuncia della “barbarie, regressione, involuzione” italiane sotto l’attuale governo – quale si coglie con sfumature diverse nella “Lettera agli amici” del priore di Bose Enzo Bianchi, nella “Lettera al mio vescovo” del deputato Franco Monaco su “Jesus” e nell’editoriale del gesuita Bartolomeo Sorge su “Aggiornamenti Sociali” – riproduce nella sostanza i capi d’accusa coniati e sempre ripetuti dalla macchina mobilitante. Le parole sono tutte “sparate” per inibire nel bersaglio la risposta. E il nemico da abbattere, per accelerare la rigenerazione della storia, del paese, della sinistra, della Chiesa, è infine (anche se può mancarne consapevolezza) il potere legittimo.

Si oppone a questa deriva dell’intelligencija cattolica l’esemplare razionalità e l’equilibrio d’analisi e giudizio praticati sulla vicenda italiana e internazionale dal quotidiano della conferenza episcopale “Avvenire”, in consonanza con la presidenza della CEI. Lo stile di “Avvenire” e del cardinale Camillo Ruini costituiscono oggi, per la società civile italiana, uno dei contravveleni più necessari. Esso modera il contesto esagitato della lotta politica in corso. Al confronto, “L’Osservatore Romano” e “La Civiltà Cattolica” appaiono talora meno avvertiti.

Sarebbe drammatico per la cultura dei cattolici, già di suo predisposta a subalternità verso tutti i moralismi, che la CEI perdesse una capacità diagnostica autonoma per dipendere anch’essa dalle parole d’ordine mobilitanti delle “sociétés de pensée” e degli opinionisti di grido, come avviene da tempo nell’intelligencija cattolica “aperta”. Chi chiede ai vescovi di sentenziare sul governo nei modi delle “sociétés de pensée” chiede a loro di accodarsi al flusso della declamazione populista antigovernativa: azione pigra e irresponsabile, che l’episcopato nel suo complesso, con sfumature diverse, rifiuta.

Coerente con questo rifiuto è stata la scelta della CEI di sostenere l’unità civile ed emozionale della nazione prodottasi di fronte alla morte dei soldati italiani in Iraq. In effetti, la religione civile italiana è dicotomica: da un lato laico-repubblicana a bassa intensità, dall’altro francamente cattolica nei suoi fondamenti. Questa seconda dimensione, alleata alla prima impersonata dal presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi, indica il possibile percorso della ricomposizione di un nuovo “ethos” politico pubblico capace di riconoscersi inseparabile dalla storia cattolica d’Italia.

È evidente che tutto questo assomigli ben poco alla “comunità dei discepoli di Gesù” astrattamente evocata dal monaco Enzo Bianchi: comunità alla quale egli chiede di “essere profezia” e di non identificarsi con “l’occidente ricco e potente”. Ma la Chiesa nella sua figura pubblica non può assumere queste forme della retorica dopoconciliare: che è retorica non nei contenuti (discepolato e profezia sono cardini cristiani) ma nel loro uso mobilitante e antipolitico. Esperta nel “contradicere” secoli di ideologia, la Chiesa lascia queste armi verbali alle “sociétés de pensée”, al loro complesso di superiorità rispetto all’autorità legittima e ai loro rituali di critica e denuncia.

La sapienza storica della Chiesa non dimentica, inoltre, che le “societés” sono agenzie di mobilitazione intrinsecamente nemiche della presenza cattolica nella storia nazionale, come hanno mostrato, per decenni, l’implacabile, anche se velata ostilità nei confronti del romano pontefice, e oggi le reazioni di fronte all’alleanza dei parlamentari cattolici a favore della legge sulla fecondazione artificiale, così come le grida d’allarme sul “nuovo cristiano” che s’avanza.