Il mito delle radici islamiche della società occidentale

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S. GOUGUENHEIM, Aristotele contro Averroè. Il mito delle radici islamiche della società occidentale, Rizzoli 2009, ISBN:9788817028288, pagine 331, Euro 21,00.
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Raramente un libro colto di uno specialista solleva dibattiti internazionali. L'ultimo lavoro del medievista francese Sylvaine Gouguenheim però fa eccezione: nel saggio che ha sollevato più di una polemica nei mesi scorsi uscendo dai ristretti circoli intellettuali, infatti, l'autore dimostra con numerosi dati alla mano l'assoluta infondatezza dell'ultima convinzione postmoderna di stampo multiculturalista che vuole l'Europa, se non figlia dell'Islam, almeno moralmente e culturalmente debitrice. L'Islam illuminato di filosofi come Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198) per intenderci, quello che si avvicinò e riprese parte della cultura greca classica, avrebbe insomma molto da insegnare all'Europa medievale oscurantista dei 'secoli bui' e anche oggi, nonostante qualche esagitato violento qua e là, questa nobile tradizione proseguirebbe in qualche modo. Se a qualcuno viene da sorridere farebbe bene a tornare alla realtà che è più vicina di quanto si possa immaginare se solo si considera che un recente rapporto dell'Unione europea, manifestando preoccupazione per la scarsa attenzione dedicata all'Islam nei nostri libri di testo scolastici, invita gli Stati europei a porre fine a questa discriminazione e riconsiderare “il posto dell'Islam rispetto al patrimonio europeo” (cit. a pag. 15). Il complesso saggio, articolato in cinque capitoli, si propone quindi di fornire una prima argomentata risposta a questo tipo di convinzioni prendendo in esame un periodo che va dal VI al XII secolo. Il trait d'union ideale del discorso è offerto dalla celebre lectio magistralis di Regensburg di papa Benedetto XVI che, pure se non viene citata, rappresenta autorevolmente la prospettiva d'insieme del lavoro nel momento in cui questo sottolinea le radici principalmente greche del Medioevo cristiano e l'influsso della cultura dell'impero bizantino, figlia diretta del 'tesoro classico', sulla storia del continente europeo.

            Infatti, come dimostra lucidamente il primo capitolo (“Sopravvivenze sparse e ricerca del sapere antico: la filiera greca”, pp. 26-80), i “Vangeli furono scritti in greco. Il Cristianesimo degli esordi era una religione di lingua greca [e] il fatto che la lingua del Nuovo Testamento fosse inizialmente il greco, prima che apparissero le prime traduzioni latine nel IV secolo, spiega il prestigio della lingua ellenica presso le èlite intellettuali dell'Occidente medievale” (pag. 26). E' questa la prima ragione che l'Europa latina aveva per volgersi verso la Grecia. Prima di essere affascinati da Aristotele, Archimede o Platone, gli animi colti del Vecchio Continente erano attratti anzitutto, e non in modo marginale, da Marco, Luca, Matteo e Giovanni. Non solo, ma “il Cristianesimo era nutrito e impregnato, fin dalle sue origini, di cultura greca. L'importanza accordata allo Spirito Santo e al Verbo di Dio rinvia a categorie mentali proprie del pensiero classico. Un'idea fondamentale come quella della 'persona umana' era greca, e divenne cristiana” (pag. 27). Più avanti, nel corso dell'alto Medioevo, diverse regioni europee ospitarono cospicui nuclei migranti di popolazione greca: la Sicilia, l'Italia meridionale, Roma e anche la penisola iberica. Va poi considerato che, in seguito all'invasione persiana e araba dell'Impero romano d'oriente, numerosissimi greci fuggirono e trovarono accoglienza proprio a Roma, la Roma cristiana: un fatto straordinario che spiega, fra l'altro, la serie quasi ininterrotta – tra il 685 e il 752 – di papi greci o siriaci, a loro volta discendenti dei rifugiati bizantini che fondarono i monasteri greci di Roma, come ancora oggi attesta l'insospettabile Liber pontificalis. Sarà però soprattutto Carlo Magno, con i suoi successori – siamo quindi ben prima dell'epoca delle crociate – a “salvare” l'immenso patrimonio greco: il mondo carolingio vedrà infatti nella Grecia “la propria madre”. Non disconoscerà la sua importanza civilizzatrice, né le proprie lacune in materia, e cercherà anzi di colmarle assicurando il legame “importante nella storia dell'Occidente, tra filosofia e politica”(pag. 39). Dietro questo immenso sforzo di recupero culturale, traduzione, copia e diffusione dei grandi autori del pensiero greco che altrimenti sarebbero andati perduti (la cd. translatio studii), c'era la convinzione che 'la gloria dei greci fosse la più grande'. Questo tratto filoellenico, di origine religiosa e politica dell'Europa medioevale non illumina soltanto le radici identitarie dell'universo occidentale (allora unico), ma un aspetto ben più profondo: “la ricerca del sapere e della scienza, inseparabile dallo sviluppo dell'Europa” (pag. 41). Che il punto d'incontro di questi due mondi fosse Roma e in particolar modo la biblioteca vaticana potrebbe dare forse fastidio a qualcuno ma non dovrebbe essere negato da nessuno storico di professione.
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            Negli anni della decadenza dell'Oriente cristiano e dell'avanzata aggressiva dell'Islam Roma si dimostrerà il rifugio più sicuro per una schiera infinita di dotti, intellettuali, poeti, artisti e uomini di cultura affermati dell'Impero bizantino. Si pensi solo alla venuta dei fratelli Antemio e Alessandro di Talle, il primo grande matematico e architetto autorevole che costruì la meravigliosa chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli nel 537 (poi caduta nelle mani dell'Islam e 'trasformata' in moschea), il secondo medico affermato e grande studioso di scienze. E ancora a santi come san Gregorio vescovo di Agrigento o san Giovanni di Tafar, vescovo degli omeriti nel VI secolo. La situazione era tale che un chierico tedesco, al momento del concilio del 704, constata che l'alto clero è bilingue: i preti parlano latino nelle assemblee e greco tra di loro…
            Insomma, detto in una parola, “fu l'ambiente ellenofono di Roma (incoraggiato, promosso e protetto in prima persona dai Pontefici) ad assicurare la sopravvivenza di una cultura greco-cristiana” (pag. 45). Siamo di fronte quindi a uno sforzo consapevole in questi secoli che sono solo apparentemente 'bui', di più: a una ricerca volontaria e mirata, non certo accidentale, che porterà infine a una vera e propria rinascita intellettuale di tutto il continente. Alla presenza di personalità e intere comunità greche in Occidente, agli sforzi dei diversi sovrani e prelati, all'accoglienza e all'ospitalità delle èlite colte in esilio, bisogna infatti aggiungere anche un grande movimento 'culturale' di traduzione volto a riscoprire la cultura profana del mondo greco, che prima gli i Pontefici e poi gli Imperatori foraggiarono a piene mani. Si tratta di un altro dato da tener presente nel confronto tra un'eventuale 'grecità cristiana' e una 'grecità islamica'. In Occidente i testi dei greci arrivano in integro e senza censure: certamente non tutto interessa, ma tutto viene comunque letto e valutato. Dall'altra parte accade qualcosa di diverso: c'è una selezione a monte per cui un'opera o un autore (fosse pure Aristotele o Platone) è accettabile ed interessa solo nella misura in cui non contrasti o non fornisca possibili critiche al testo sacro del Corano, che, non lo si dimentichi, possiede una natura increata. Una credenza quest'ultima che, come ha messo in luce il sociologo statunitense Rodney Stark, ha ricadute rilevantissime sulla costituzione di un sapere scientifico autentico, come pure sulla possibilità di una libera espressione del pensiero. 
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            Il secondo capitolo (“Sopravvivenza e diffusione del sapere greco nel Mediterraneo: Bisanzio e i cristiani d'Oriente”, pp. 81- 110) sposta invece la lente d'indagine sui grandi centri culturali, lontani da Roma, che permisero di recuperare la sapienza greca e, anzitutto, Bisanzio. L'Autore mostra qui che quando, solitamente con riferimento ai secoli VII-X, si parla dell'affermazione di una grande 'cultura arabo-musulmana' si commette “un anacronismo o ci si lascia andare a una sorta di gioco di prestigio, poiché quella cultura non fu allora musulmana, né araba, se non di riflesso. Era invece in gran parte cristiana e siriaca” [il siriaco era la lingua utilizzata dall'insieme delle popolazioni cristiane dell'antico Impero persiano e dei confini dell'Impero bizantino, ndr]. Furono infatti soprattutto i cristiani siriaci i depositari e i trasmettitori pratici del sapere antico. D'altra parte è noto che gli studiosi dell'Islam non ebbero mai accesso agli originali greci e che i loro lavori furono effettuati a partire da traduzioni: si trattava di traduzioni per l'appunto siriache. “Di fatto gli arabi non impararono il greco; anche al-Farabi, Avicenna o Averroè lo ignoravano: forse non ritenevano utile imparare questo idioma dal momento che erano i depositari della più bella delle lingue, quella che, in modo inimitabile, aveva trasmesso l'eterna Parola di Dio. Si avvicinarono dunque alle opere greche solo attraverso le traduzioni in arabo realizzate da cristiani siriaci: conoscere il livello e le condizioni della cultura siriaca significa misurare l'eredità di cui i musulmani si sono trovati a beneficiare. I cristiani siriaci, nestoriani o monofisiti furono dunque all'origine della cultura scritta arabo-musulmana” (pag. 93). La conseguenza, paradossale, è che furono i cristiani, tra cui spicca il genio di Hunayn ibn Ishaq (809-873) a coniare, dalla A alla Z, il vocabolario scientifico arabo, come dimostra, fra l'altro, il fatto che i califfi di Baghdad, per oltre tre secoli, si circondarono solo di medici e scienziati cristiani. Situazioni simili si ripeteranno a Damasco e nelle principali roccaforti islamiche. La conclusione, per quanto politicamente scorretta, è evidente: se il sapere e la scienza sono stati conservati nei territori di frontiera dell'Impero bizantino lo si deve allo sforzo secolare di queste comunità cristiane (a cui bisogna aggiungere i copti egiziani). Vinte e dominate esse hanno comunque continuato a mantenere e trasmettere la loro cultura, per cui la cd. scienza arabo-musulmana che si diffuse tra il VII e il X secolo fu in realtà “una scienza greca per contenuto e ispirazione, siriaca e poi araba per lingua” (pag. 101).
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            Il terzo capitolo (“I monaci pionieri di Mont Saint-Michel: l'opera di Giacomo Veneto”, pp. 111-133) si sofferma invece sull'anello mancante nella storia del passaggio della filosofia aristotelica dal mondo greco a quello latino, oggi ancora poco noto: il 'pioniere' Giacomo Veneto, un chierico veneziano, che fu il primo traduttore in assoluto del grande filosofo stagirita e le cui versioni faranno da modello per molto tempo a venire. Il quarto (“Islam e sapere greco”, pp. 138-180) illustra invece, oggettivamente e senza vena polemica, l'approccio dei conquistatori islamici verso la grandiosa biblioteca di Alessandria (andata poi distrutta per un incendio fortuito), espresso dalle parole del generale Amr ibn al-As: “Se questi libri contengono quanto è già nel Corano, sono inutili. Se contengono cose che gli sono contrarie, sono nocivi”. In entrambi i casi potevano essere buttati. Ma il rifiuto o l'indifferenza al sapere greco si manifestò anche attraverso la distruzione di quei centri culturali che erano i monasteri, senza trascurare il celebre incendio-simbolico alla basilica di San Pietro in Roma nel 846. Paradigmatico in questo senso è il destino che subì il grande Averroè, sempre citato come espressione dell'Islam illuminato: da una parte, pur essendo un filosofo razionale di un certo livello, egli non poté sottrarsi alla predicazione del jihad contro i cristiani ricordando ai musulmani il loro obbligo di andare in guerra contro gli 'infedeli'. Dall'altra, questo non impedì che successivamente le sue opere potessero essere bruciate dagli islamici stessi perché giudicate eretiche. Alla luce di tutto ciò, il fatto, fra gli altri, che non esista in arabo una parola in grado di tradurre il termine “persona” – mentre, per converso, il diritto occidentale si è costruito proprio intorno a questo – non dovrebbe sorprendere nessuno. In conclusione, per non fare il gioco dei fondamentalisti e di chi vuole la guerra ad ogni costo, appare fondamentale distinguere attentamente tra civiltà araba e civiltà musulmana, che non sono la stessa cosa e che, pure se in alcuni periodi storici si trovano a convergere, non s'identificano mai. All'interno di ognuna bisogna poi distinguere quanti hanno coltivato e promosso una cultura della ragione di stampo greco e quanti, anche con la violenza, vi si sono di volta in volta opposti. Il cammino però, come dimostrano le reazioni alla stessa lectio magistralis di papa Benedetto XVI, sembra essere ancora lungo.                            
Omar Ebrahime