Il contributo essenziale della Chiesa all’umanità

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Intervento del card. Angelo Bagnasco al Meeting di Rimini

24 agosto 2008

1.     «Nella Chiesa mi trovo a casa»
 
Così diceva Georges Bernanos [1888-1948]! È difficile vivere senza una casa intesa come spazio dove le dimensioni sono a misura d’uomo, sono riconosciute perché familiari, dove si coltivano gli affetti, dove esistono luoghi per raccogliersi, per sentirsi al riparo dalla«strada»pur necessaria e desiderata. Come scriveva Josef Pieper [1904-1997], l’uomo non può vivere sempre «sotto le stelle» ([1]): ha bisogno della casa, del finito e del piccolo per ritrovarsi, riposare, ricuperare energie e riprendere il cammino sotto il cielo. Allo stesso modo, l’uomo ha bisogno della volta stellata, degli orizzonti sconfinati, della strada dove tutto si può incontrare e può accadere. Possiamo dire che l’uomo, come ha bisogno del suo«ambiente», così ha bisogno del«mondo»: il primo per superare la dispersione e fare sintesi, il secondo per superare il ripiegamento e pensare in grande. In entrambi i casi l’uomo costruisce se stesso: egli infatti è un paradosso, creato finito ma programmato per l’infinito. È una linea di confine tra il tempo e l’eternità, è un desiderio incompiuto, un intrigo di ombre dove la luce è la stoffa di fondo.
La Chiesa è la nostra«casa», l’ambiente familiare dove rigeneriamo le forze e la speranza si alimenta. Ma – possiamo dire – che è anche il nostro«mondo»dove il cuore impara a pulsare oltre se stesso, e l’intelligenza è chiamata ad aprire gli orizzonti superando meandri e ottusità, particolarismi e divisioni. Nella Chiesa, infatti, incontriamo Cristo, il Verbo eterno fatto carne, l’unico Salvatore. Egli ci dona la paternità di Dio, svela il segreto della gioia, il senso del vivere e del morire. Nella Chiesa incontriamo un popolo, corpo di Gesù: facciamo l’esperienza della universalità che ci porta fino ai confini della terra: «Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo» (At 2,5). La duplice dimensione – piccolo e grande, finito e sconfinato, terra e cielo, tempo ed eternità – fa parte dell’essere della Chiesa che, come ricorda il Concilio Vaticano II [1962-1965], è«mistero»: mistero non perché realtà oscura e incomprensibile, ma perché è «sacramento», realtà umana e divina insieme, lo spazio nel quale ogni uomo incontra veramente l’amore di Dio che si è offerto in Cristo: «La Chiesa è in Cristo come un sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano» ([2]).
La Chiesa, dunque, offre ad ogni credente l’esperienza della casa – la parrocchia, il gruppo, la comunità – dove, a partire da Gesù, i volti noti, la conoscenza personale, l’amicizia concreta, l’appartenenza cordiale, il confronto, la bellezza e la fatica delle relazioni umane, l’esercizio della pazienza e del perdono, la virtù della fiducia… sono pane quotidiano. Ma offre anche – dicevamo – il respiro dell’universalità perché diffusa sino ai confini della terra secondo il mandato del Signore.
Il respiro dell’umanità palpita con un duplice movimento, di ampiezza e di profondità. Il mondo intero – nei diversi popoli, nazioni, culture – approda nel sentire della Chiesa e diventa eco e ricchezza della sua voce. Di questa voce ricca e sinfonica – che il vangelo illumina, purifica e valorizza attraverso il Magistero autentico – i credenti beneficiano, ne sono protagonisti e portatori.
Ma il mondo è presente nel cuore della Chiesa anche oltre la sua dilatazione geografica e temporale: se – per ipotesi – la presenza della Chiesa dovesse contrarsi e ridursi ad un punto ristretto della terra, ugualmente il suo respiro porterebbe l’eco dell’umanità intera, l’universalità del mondo. Infatti, il mandato di Gesù – «andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» – non tocca solamente la geografia della terra, ma tocca innanzitutto la geografia dell’anima: i problemi spirituali e materiali, le questioni dell’agire morale, le idee, i grandi interrogativi, le incertezze, i mutamenti culturali, le svolte epocali non sono solamente fuori dell’uomo, nell’ambiente della cultura e della società, ma sono dentro l’uomo, nel suo mondo interiore. Gli estremi confini della terra sono innanzitutto qui, negli orizzonti sconfinati dello spirito umano. Per questo il Concilio Vaticano II afferma con passione che «la gioia e la speranza, la tristezza e l’angoscia degli uomini d’oggi, soprattutto dei poveri e dei sofferenti, sono anche la gioia e la speranza, la tristezza e l’angoscia dei discepoli di Cristo, e non c’è nulla di veramente umano che non trovi eco nel loro cuore» ([3]). Questo orizzonte, che si dilata fino ai confini dell’uomo e dell’umanità, trova la sua radice nel mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, che con l’incarnazione ha assunto l’umanità dell’uomo: «Si tratta dell’uomo in tutta la sua verità, nella sua piena dimensione – scrive Giovanni Paolo II [1978-2005] –. Non si tratta dell’uomo “astratto”, ma reale, dell’uomo “concreto” […]. Tale sollecitudine riguarda l’uomo intero […]. […] l’uomo nella sua unica e irripetibile realtà umana» ([4]). Nulla dunque è estraneo a Dio, al suo interesse d’amore per ciò che è umano, sia nella sua dimensione individuale che pubblica. La Chiesa, che è il prolungamento di Cristo nel tempo, continua l’amore di Dio per il mondo sapendo che «l’uomo è la via della Chiesa» ([5]); consapevole che «in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, [ma] è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana» ([6]).
 
2.     Fare storia
 
Che cos’è la storia? Certamente non è la semplice cronaca quotidiana; questo è un aspetto soltanto, di superficie. Neppure, mi sembra, si può ridurre ai grandi eventi del mondo della politica, degli Stati: i trattati, gli incontri ad alto livello, le alleanze di tipo politico o economico, le solenni dichiarazioni, i conflitti e le guerre, gli accordi di pace. La storia è questo certamente, ma non«solo»questo, e neppure«soprattutto»questo. Mi sembra che gli accadimenti fanno storia in quanto sono espressione di ciò che potremmo chiamare un’altra storia, invisibile come sono le idee, ma concreta come i fatti che la cultura ispira. Possiamo dire che la storia è traduzione nei fatti di una visione spirituale e morale della realtà.
La storia è compito di ogni uomo. Tenendo conto di una dimensione che mi sembra costitutiva della storia, quella ideale e quella comunitaria, potremmo parlare di differenti livelli: delle singole persone, dei popoli, degli Stati.
 
— Innanzitutto delle persone; è questo il primo affluente della storia universale. La loro vita quotidiana fatta di gioie, speranze e dolori; di lavoro e famiglia; di affetti e rapporti: non è mai storia solamente individuale. È sempre anche storia di tutti perché nessuno vive solo. Anche il più desolante isolamento esiste comunque dentro ad un contesto di relazioni dalle quali uno si esclude o è escluso, ma dove resta. La vita quotidiana fa storia proprio perché la persona in sé è«relazione»: negare questo è chiudere gli occhi all’evidenza in nome di una esasperazione tale dell’individuo e della sua autodeterminazione, da portare all’individualismo che azzera la persona stessa. Tornando al punto, l’esistenza di ciascuno tocca gli altri in qualche misura, crea legami e situazioni che coinvolgono poco o tanto; alimenta o contrasta la mentalità dominante, il sentire comune; interroga chi ne è testimone diretto o indiretto; testimonia valori, ispira comportamenti generali, crea istituzioni e opere, genera uno stile di vita frutto di un ethos di fondo. In sintesi, rende trasparente una certa visione dell’uomo e del mondo, della vita, della sofferenza e della morte: una visione universale, una Weltanschauung. Senza sintesi non c’è storia, ma solo episodi. Nessuno dunque è invisibile: ciascuno partecipa al fluire del grande fiume umano, è protagonista: ed essere protagonista non è voglia di protagonismo, ma amore di identità.
 
— I popoli. I popoli, nella loro unità profonda, fanno storia avendo un raggio di azione e di efficacia più evidente dei singoli. Ma, ci chiediamo, che tipo di efficacia ha un popolo nel contesto del mondo? Che cosa porta alla costruzione della storia umana? Aiuta a rispondere a queste domande l’esempio di grandi popolazioni come i greci e i romani. Guardando a questi popoli, ai quali siamo profondamente legati, viene da pensare alla loro cultura prima che alle loro imprese politiche, economiche e militari. È su questo piano, fatto di valori e di idee, che queste«genti»hanno inciso sulla storia. Basta pensare ai rapporti fra Roma, la Grecia e i popoli nordici e slavi. Prima che al genio dei capi, la storia è determinata dalle idee e dai valori, come accade per le singole persone. I valori sono l’anima della cultura, la carta d’identità di un popolo. Non sono una sua componente, ma il suo fattore principale. Il senso di appartenenza ad un popolo, ad una Nazione, dipende dal riconoscersi in un quadro di valori che riguardano la vita e la morte, il loro significato, non tanto i fini ma il fine. Se questo non esiste o è giudicato inconoscibile, quindi consegnato all’individualismo di ciascuno, che cosa potrà attrarre gli uomini perché si sentano appartenenti ad una realtà di popolo? Che cosa li potrà sollecitare a sacrificarsi fino al dono della vita per la comunità?
 
— Gli Stati. L’apparato politico e legislativo, le diverse espressioni dell’autorità statale, fanno storia e – a prima vista – appaiono come i primi e più importanti protagonisti della storia umana. Se questo è vero per un certo aspetto, non dobbiamo dimenticare quanto abbiamo ricordato sopra, gli altri livelli o protagonisti. I livelli sono differenti, ma reale è la loro incisività nel corso delle cose. Fra l’altro, non sempre nella storia i popoli hanno mostrato accondiscendenza verso le decisioni degli Stati, indirizzando gli eventi in modo diverso. Ciò sta a testimoniare quanto ogni Stato debba sapersi e volersi come espressione del popolo, sapendo che questo è specificato da un insieme di idee e valori di tipo spirituale ed etico che costituiscono«l’anima della nazione», la sua identità profonda. Qualora uno Stato dovesse tradire quest’anima, tradirebbe la gente in ciò che ha di più intimo e più suo. Colpirebbe ciò che consente ad una moltitudine di sentirsi«popolo»e ad un territorio di essere sentito come«casa», «patria». Tradire l’anima di un popolo – magari con processi corrosivi e subdoli – vuol dire sgretolare, in nome di qualche ideologia o disegno politico- economico, ciò che consente ad ognuno di sentirsi parte di un tutto; significa derubarlo di ciò in cui crede, che gli appartiene, che gli è stato tramandato come patrimonio, che è la sua forza unificante. Un patrimonio ideale che, nella pluralità delle forme ma nell’unità fondamentale del pensare e del sentire, permette di percepirsi«famiglia». Per questo motivo, intaccare direttamente i valori spirituali e morali di una comunità e di un Paese, è attaccare la sua integrità e fare cattiva storia. Ma anche la diffusione di falsi miti, l’esaltazione dell’avere, la propaganda dell’apparenza e del facile successo – in una parola, della menzogna – aggredisce la base valoriale di un popolo, lo svilisce nel suo sentire, e lo indebolisce nella sua capacità di futuro. Tutto viene confinato nell’angusto perimetro del presente: l’antico motto – «panem et circenses»– è noto come strategia per svuotare la mente e l’anima. Oggi, nello scenario occidentale, al posto di questo criterio – che ha un evidente costo economico – si potrebbe sostituire un altro motto,«fa tutto quello che vuoi». Inteso in senso assoluto e individualistico, esso disgrega l’anima popolare e il senso di appartenenza ad una identità che crea comunione fra gli uomini e permette la comunità di vita. La storia che manifesta l’eclisse dello spirito va contro l’uomo, diventa«anti-storia». Le luci e le ombre sono sempre intrecciate nel fluire del tempo, ma è necessario giudicare la storia. È necessario un criterio di giudizio per poter discernere i filoni luminosi da quelli oscuri, le linee evolutive e quelle che, invece, segnano retrocessioni anche gravi in ambiti vitali.
La convinzione che la direttrice di fondo della storia sia il progresso, e che perciò il bene venga sempre e solo dal futuro, è un pregiudizio diffuso e coltivato. Ma per smascherare il pregiudizio è necessario il giudizio con la sua libertà e il suo coraggio; soprattutto con la sua verità. Il criterio di giudizio non può essere che la verità dell’uomo, il bene autentico suo e della società: questo – il bene – è alla sua radice di natura spirituale ed etica, cioè«culturale».
 
3.     Una Chiesa di popolo
 
Il Signore Gesù ha istituito la Chiesa sui Dodici: la nostra fede si fonda, in ultimo, sulla loro esperienza di Cristo. Con Lui hanno condiviso fatica e riposo, fame e sete, successi e rifiuti; hanno ascoltato la sua parola all’aperto delle strade e dei monti, come nell’intimità del cenacolo; sul suo volto hanno fissato gli sguardi a volte fieri e a volte spauriti, alla ricerca dei suoi sentimenti, nel desiderio di scoprire il suo mistero interiore. A loro Egli ha lasciato il suo testamento e dall’alto della croce ha svelato il vero volto di Dio – amore misericordioso – e il vero volto dell’uomo creato per amore e per amare. Al Padre ha elevato la sua accorata preghiera nella sera infinita e dolente del Cenacolo: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). È questa la natura della Chiesa e la prima, necessaria strada dell’evangelizzazione: l’unità dei fratelli che nasce dalla comunione con Cristo. Con il mistero dell’Incarnazione, il Figlio di Dio compie la redenzione e immette nella vita umana la vita divina, svelando che Dio – l’unico che veramente rispetta la libertà dell’uomo – copre l’intero orizzonte dell’esistenza con la verità esigente dell’amore e con l’amore caldo della verità. Ricorda che tutta la creazione porta l’impronta del Logos: «E Dio vide che era cosa buona» (Gn 1,10). La realtà lascia trasparire la luce del bene come il suo ordito più vero, il suo destino e – quando la realtà è tenebrosa – come nostalgia o angosciata invocazione. Il Signore Gesù è la pienezza di questa luce divina che illumina il mondo, lo riscatta dalle ombre, lo apre alla speranza: grazie a Cristo crocifisso, anche il dolore innocente trova un senso.
Alla Chiesa – Corpo mistico – Gesù affida il suo vangelo, parola di vita eterna, e le vie della grazia, i sacramenti. Al magistero dei Successori dei Dodici, stretti attorno al Successore di Pietro, affida l’autenticità della fede che sale dalle origini, gli apostoli. Chi incontra Cristo, il Crocifisso glorioso, scopre il cuore di Dio: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). In questa sovrabbondanza d’amore, si racchiude il senso della redenzione e il significato della storia umana. È una «aletheia», una verità che si disvela nel vangelo, ma non è una sorta di gnosi, di conoscenza misterica per pochi iniziati. È bensì la conseguenza di un incontro decisivo che cambia la vita del credente. È il frutto di un’amicizia personale con Cristo, un’amicizia che si rinnova ogni giorno; credere non significa aderire ad una dottrina, ma vivere riferiti a Lui che ci dona il suo amore e il suo pensiero: «Ora noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1 Cor 2,16). Quando l’apostolo Pietro – a Gesù che chiede «Volete andarvene anche voi?» – risponde a nome di tutti «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,67-68) non indica solo una nuova dottrina insegnata con autorità (cfr. Mc 1,27), ma dice che quella verità che illumina e salva è Lui stesso, il Signore, è la sua persona concreta. Con Lui essi vivono, di Lui sperimentano la compagnia, per Lui lasciano padre, madre, figli e campi (cfr. Mt 19,29). Dentro questa esperienza essi trovano se stessi, il loro presente e il futuro, il tempo e l’eternità. Con Lui, nella luce della sua parola e della sua presenza, scoprono il senso vero dello stare insieme come Chiesa e come società. Scoprono un modo nuovo di vedere le cose, la vita, gli altri, il mondo, i valori. Per questo fanno storia sia come singoli che come gruppo, come popolo di credenti.
Gli Atti degli Apostoli testimoniano questo modo diverso di essere nel mondo, di fare storia, una storia più umana perché fatta con Cristo. Un modo che, ad esempio, è rispettoso dell’autorità dell’imperatore, ma nella verità: solo a Dio va il culto e l’adorazione. Un modo che ha al centro la persona nella sua corporeità e nella sua trascendenza spirituale, che mai può essere ridotta a strumento poiché immagine e somiglianza di Dio, redenta dal sangue di Cristo. Il vangelo non è per pochi iniziati, ma per tutti; così la Chiesa non è per delle élite ma Chiesa di popolo: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). La sua cattolicità è la sua universalità.
 
4.     Sale e luce della storia
 
«Voi siete il sale della terra […] voi siete la luce del mondo» (Mt 5, 13-14). Le parole di Gesù sono chiare e non ammettono sofismi: per annunciare il Vangelo, è necessario che i cristiani siano dentro al mondo pur senza assimilarsi al mondo (cfr. Gv 17-14).
Il vero, unico sale della storia è Cristo: egli solo preserva dalla corruzione della morte e restituisce all’universo il sapore delle origini, il gusto del pane appena uscito dalle mani del Creatore. Gesù non esorta i discepoli perché«siano»sale e luce, ma dichiara che essi«sono»sale e luce. È dunque un dato di fatto che egli indica: dice non ciò che ha fatto per loro, ma ciò che ha fatto di loro.
 
4.1    L’immagine del sale indica la via della«discesa», del nascondimento, della condivisione quotidiana, paziente e fiduciosa, della vita della gente. In una parola suggerisce l’incarnazione nel mondo. Le innumerevoli parrocchie in Italia, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i diaconi permanenti, i gruppi, le associazioni e i movimenti, i moltissimi laici che – singolarmente o organizzati – sono presenti con la testimonianza e la fantasia della carità, dell’evangelizzazione e della catechesi, le scuole cattoliche, gli ospedali, le molteplici iniziative di incontro, di annuncio, di preghiera, di educazione e di assistenza ai bisognosi non esprimono forse la realtà del sale di cui parla Gesù? Non sono forse segni permanenti di una prossimità capillare e quotidiana al popolo, che quindi si sente un popolo che è Chiesa? Non sono forse espressione di una storia che nasce e si alimenta del pensiero di Cristo?
Non è la voglia di mondano protagonismo che muove la Chiesa fin dalle sue origini, ma il bisogno del cuore: l’amore a Cristo, all’uomo, al mondo nel quale la Chiesa è fatta carne. Cercare di vivere secondo il Vangelo, secondo la visione della vita e del mondo che ha ricevuto, crea una storia che – come il sale – vive nella storia umana, s’intreccia con essa e la contagia elevandola ad una pienezza altrimenti irraggiungibile: «Se Dio non esiste, tutto è permesso», scrive Fëodor Dostoevskij [1821-1881] nei Fratelli Karamazov ([7]).
 
4.2    Ma l’immagine del sale deve essere completata da quella della luce: la luce dona alle cose il loro volto. Nel buio tutto è indistinto, regna la confusione, si perde la strada. La luce suggerisce dunque la visibilità della presenza cristiana: se non c’è visibilità senza conoscere e condividere la vita concreta degli uomini, non c’è neppure condivisione senza una qualche visibilità personale e comunitaria che sia risposta e profezia. Le opere della Chiesa, che ho sopra ricordato, sono il segno dell’essere sale per un verso e luce per un altro.
Oggi, come in altri periodi della storia, si vuole che la Chiesa rimanga in chiesa. Il culto e la carità sono apprezzati anche dalla mentalità laicista: in fondo – si pensa – la preghiera non fa male a nessuno e la carità fa bene a tutti. In altri termini, si vorrebbe negare la dimensione pubblica della fede concedendone la possibilità nel privato. A tutti si riconosce come sacra la libertà di coscienza, ma dai cattolici a volte si pretende che essi prescindano dalla fede che forma la loro coscienza.
I credenti sono luce tenendo alta la verità del vangelo, l’annuncio di Gesù, la grande speranza come ricorda il Santo Padre Benedetto XVI ([8]). Se i mali di oggi derivano dal rifiuto di Cristo, la missione della Chiesa è quella di essere ancor più missionaria ricordando da un lato l’apostolo Paolo – «Guai a me se non predicassi il Vangelo» (1 Cor 9,16) – e dall’altro l’assicurazione di Gesù: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Il Santo Padre, in una intervista alla televisione tedesca, diceva che è necessario «[…] rendere visibile il Dio col volto umano di Gesù Cristo – poiché quando vediamo Gesù vediamo Dio – offrendo così agli uomini l’accesso a quelle fonti senza le quali la morale si isterilisce e perde i suoi riferimenti» ([9]). È urgente che attraverso la testimonianza e l’annuncio emerga «quel grande che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia al mondo. Il cristianesimo è infatti aperto a tutto ciò che di giusto, vero e puro vi è nelle culture e nelle civiltà, a ciò che allieta, consola e fortifica la nostra esistenza» ([10]).
 
4.3    Oggi, però, il popolo di Dio è chiamato a partecipare alla storia umana anche con la difesa della ragione. Può sembrare singolare che la fede difenda la ragione, ma – come già ho detto – Cristo salva l’uomo nella sua interezza. Il relativismo, che il Papa richiama come un tarlo della società e della storia occidentale, richiede la luce della ragione intesa come la facoltà del vero. Affermare l’efficacia della ragione non è«totalmente altro»dall’annuncio evangelico; non significa diminuire il vangelo per impicciarsi di argomenti di competenza altrui. È intrinsecamente connesso: fede e ragione si richiamano a vicenda, sono implicati reciprocamente nell’unità della persona, «ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione» ([11]).
Si potrebbe pensare che nell’epoca del pluralismo culturale sia arrogante giudicare gli eventi della storia con la verità del vangelo, che sia un atteggiamento di intellettuale fondamentalismo. Ci si chiede se la verità morale, legata ad una scelta religiosa, possa ispirare l’ordinamento civile valido per tutti. È una questione giusta e delicata. Se è gravemente ingiusto tradurre in termini di ordinamento pubblico certe scelte etico-religiose, è scorretto ridurre ogni posizione assunta dai credenti a scelta«confessionale», e quindi totalmente individuale e privata. Certi valori – come nel campo della vita umana e della famiglia, della concezione della persona, della libertà e dello Stato – anche se sono illuminati dalla fede, sono anzitutto bagaglio della buona ragione. Cicerone scrive: «Certamente esiste una vera legge: è la retta ragione. Essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano ai doveri; i suoi divieti trattengono dall’errore» ([12]).
Nel Messaggio per la 40° Giornata Mondiale della Pace (1 gennaio 2008), il Santo Padre ha ricordato anche i sessant’anni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’ONU, e ha scritto: «I diritti enunciati nella Carta sono espressione ed esplicitazione della legge naturale, iscritta nel cuore dell’essere umano e a lui manifestata dalla ragione ([13]) […]. La norma giuridica […] ha come criterio la norma morale basata sulla natura delle cose. La ragione umana, peraltro, è capace di discernerla, almeno nelle sue esigenze fondamentali, risalendo così alla Ragione creatrice di Dio ([14]) […]. Pur con perplessità e incertezze, [l’uomo] può giungere a scoprire, almeno nelle sue linee essenziali, questa legge morale comune che, al di là delle differenze culturali, permette agli essere umani di capirsi tra loro circa gli aspetti più importanti del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto» ([15]) 1-1-2008). Anche l’enciclica Veritatis splendor afferma che «l’uomo può riconoscere il bene e il male grazie a quel discernimento del bene e del male che egli stesso opera mediante la sua ragione» ([16]).
 
5.     Custodia e memoria
 
La Chiesa fa storia e, come sale e lievito, partecipa alla costruzione della storia universale. La Chiesa custodisce, infatti, la memoria della storia dell’uomo fin dalle origini: la memoria della sua creazione, della sua dignità e della sua caduta. La memoria della sua redenzione in Cristo. È da questa memoria che essa guarda la storia vedendola sempre come storia di salvezza. Per questo la visione che ne ha il cristianesimo non è solo«orizzontale», ma anche«verticale»: a scrivere la storia non sono solo gli uomini. Con loro scrive anche Dio: con l’incarnazione, Dio è entrato nel tempo e da nessun luogo è ormai«assente». Anche là dove vince il male, Cristo è presente e porta la croce con gli uomini; la porta e le dona un senso di eternità e di vita. La storia da allora è attraversata da una promessa che è anche una presenza: Dio salva gli uomini rispettandone la libertà ma non cessando di amarli. Il tempo non è un eterno ritorno del medesimo, ma una linea aperta che, pur tra errori e incertezze, cammina verso il suo compimento di felicità e di vita. Questa visione di speranza e di fiducia è propria della Chiesa, ma è a disposizione non solo dei credenti, lo è anche del mondo.
Sull’esempio di Maria, la Chiesa come madre custodisce nel cuore la storia dei suoi figli e dell’umanità. È una memoria viva che cresce con la testimonianza degli apostoli consacrata dai martiri: la Tradizione non è altro, infatti, che l’impegno della Chiesa di tramandare intatto il mistero di Cristo e del suo pensiero: «E lui (lo Spirito Santo) vi insegnerà ogni cosa, e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26).
Nella luce di questa memoria – dove fede e ragione si incontrano in modo virtuoso – il popolo di Dio affronta la vita e il mondo; crea opere, pone giudizi, plasma rapporti e gruppi; ispira mentalità e motiva valori, guarda al futuro con fiducia, convinto che tutto si compirà nell’evidenza della luce. Appunto, crea storia. Nessuno è escluso, né persone, né cose, né culture: lo dice il cammino dell’Europa se guardato con occhi sereni. A partire da questa memoria custodita e amata, lo storia ruota attorno alla concezione dell’uomo, che nel cristianesimo giunge alla sua pienezza e che sta alla base dell’umanesimo europeo. Si può giustamente rilevare che ciò non ha impedito errori e orrori in Europa; ma, a ben pensare, se ciò è accaduto non è stato perché sia stata troppo cristiana, ma perché lo è stata troppo poco.
La Chiesa dice al mondo – in particolare oggi all’Europa – che il passato non può essere impunemente negato in nome dell’economia, della tecnologia o dello scientismo. Ricorda che il ruolo del passato ha rilievo ed ha un valore imprescindibile per l’oggi, pena lo sfaldamento dell’identità di una nazione o di un continente. Pena lo smarrimento personale e collettivo di un popolo che non sa più chi sia e dove vada. Invita tutti a riprendere il bandolo del proprio passato con i suoi grandi tratti distintivi per potersi pensare di nuovo come un intero, e così progettare il futuro affrontando senza paure o complessi, a viso alto, le sfide della modernità; senza rincorrere i«vicini di casa»considerati sempre e comunque migliori, più avanzati, più moderni di noi. La Chiesa ricorda al secolarismo e al laicismo che pretendere di costruire la storia senza Dio è costruirla contro l’uomo. Ricorda al nostro vecchio e amato continente che il resto del mondo guarda con sospetto questa pretesa, la sente come una presunzione innaturale e pericolosa, intuisce che racchiude in sé il germe del disfacimento spirituale e morale, dell’oscuramento dell’anima, che non riguarda solo gli individui, ma i popoli, la loro stessa possibilità di esistere.
Porto, a conclusione di queste considerazioni, due testimonianze: di un convertito al cattoli­ce­si­mo, Thomas Eliot [1888-1965], e di un ebreo neo-hegeliano, Karl Löwith [1897-1973].
«La forza dominante nella creazione di una cultura comune tra i popoli, ciascuno dei quali abbia una cultura distinta, è la religione. Vi prego, a questo punto, di non compiere un errore anticipando quel che intendo dire. Questa non è una conversazione religiosa, né mi dispongo a convertire alcuno. Mi limito a constatare un fatto. Non mi interesso molto della comunione dei cristiani credenti ai giorni nostri; parlo della comune tradizione cristiana che ha fatto l’Europa quella che è, e dei comuni elementi culturali che questa cristianità ha portato con sé […]. Un singolo europeo può non credere che la fede cristiana sia vera, e tuttavia tutto ciò che egli dice e fa, scaturirà dalla parte della cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato. Solamente una cultura cristiana avrebbe potuto produrre un Voltaire e un Nietzsche. Non credo che la cultura dell’Europa potrebbe sopravvivere alla sparizione completa della fede cristiana […]. Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura» ([17]).
«Il mondo storico – scrive Karl Löwith – in cui si è potuto formare il pregiudizio che chiunque abbia un volto umano possieda come tale la dignità e il destino di essere uomo, non è originariamente il mondo […] del Rinascimento, ma il mondo del Cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sé e al prossimo. L’immagine che sola fa dell’homo del mondo europeo un uomo, è sostanzialmente determinata dall’idea che il cristiano ha di sé, quale immagine di Dio […]. Questo riferimento storico […] risulta indirettamente chiaro, per il fatto che soltanto con l’affievolirsi del cristianesimo è divenuta problematica anche l’umanità» ([18]).
Tornando all’Europa, sta qui la radice dell’umanesimo del quale è in debito con tutti. Un umanesimo non nominalistico ma integrale, concreto e fondato in modo trascendente. «Non tutti gli umanesimi, infatti, sono equivalenti sotto il profilo morale – diceva Benedetto XVI ai vescovi sloveni in visita ad limina. Non mi riferisco qui agli aspetti religiosi, mi limito a quelli etico-sociali. A seconda della visione di uomo che si adotta, infatti, si hanno conseguenze diverse per la convivenza civile. Se, per esempio, si concepisce l’uomo, secondo una tendenza oggi diffusa, in modo individualistico, come giustificare lo sforzo per la costruzione di una comunità giusta e solidale?» ([19]).
Concludiamo con le parole di Gesù: non «[…] si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa, e gli otri van perduti. Ma si mette vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano» (Mt 9,17). Il vangelo è entrato nella storia come carne e sangue, come vita; e la carica rivoluzionaria del vangelo non è un messianismo ideologico e utopico, né una riforma stanca e impossibile, potremmo dire un semplice e tiepido aggiustamento. La vera rivoluzione del vangelo è Cristo in noi: da qui nasce e continuamente si purifica e si alimenta l’autentica riforma. Qui sta la«riforma»prima ed essenziale, il«rinnovamento»dell’uomo, cioè la conversione del cuore. La fede immette nel credente l’amore di Cristo e questo amore ne fa una creatura nuova, capace di pensiero e di vita nuova. Capace di partecipare alla storia umana con qualcosa di proprio e di importante da dire per il bene di tutti nel segno della gratuità, e quindi dell’amore. Capace di partecipare alla vita politica nel segno della democrazia e della verità.
 
Angelo card. Bagnasco
+ Arcivescovo di Genova
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
Rimini, domenica 24 agosto 2008


([1]) Cfr. Josef Pieper, Che cosa significa filosofare, trad. it., a cura di Franco Bosio,Patron, Bologna 1971; cfr. anche «Siccome non è “puro” spirito, l’uomo non riesce a vivere esclusivamente al cospetto della realtà universale, vis-à-vis de l’univers; non può dimorare solo “sotto le stelle”, ha bisogno di un tetto sopra la testa» (Idem, Verità delle cose. Un’indagine sull’antropologia del Medioevo, 1966, trad. it., Massimo, Milano 1981, pp. 117-123).
([2]) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n. 1.
([3]) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 2.
([4]) Giovanni Paolo II, Enciclica Redemptor hominis, del 4 marzo 1978, n. 13.
([5]) Ibid., n. 14.
([6]) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 76.
([7]) Non è in virtù di una legge di natura che l’amore è stato coltivato dagli uomini, ma solo perché essi hanno creduto nella loro immortalità: se, quindi, nell’uomo cade la fede nella propria immortalità, «[…] subito si inaridirà in lui non solo l’amore, ma anche qualsiasi forza vitale capace di perpetuare la vita nel mondo [e] allora non ci sarà più niente di immorale, tutto sarà permesso, perfino l’antropofagia» (Fëodor Michajlovič Dostoevskij, I fratelli Karamazov, trad. it., 3a ed., Rizzoli, Milano 2005, p. 95): è il celebre paradosso passato alla storia nella semplificazione dell’enun­cia­to «Se Dio è morto, tutto è permesso» (ndr).
([8]) Cfr. Benedetto XVI, Enciclica Spe salvi, del 30 novembre 2007, n. 27.
([9]) Idem, Intervista alle televisioni tedesche Bayerischer Rundfunk, Zweites Deutsches Fernsehen, Deutsche Welle e alla Radio Vaticana in preparazione del viaggio apostolico in Baviera del settembre 2006, del 5-8-2006.
([10]) Id., Discorso al Convegno Ecclesiale di Verona, del 19 ottobre 2006.
([11]) Id., Enciclica Spe salvi, n. 23.
([12]) Platone, La Repubblica, II, 22, 33.
([13]) Benedetto XVI, Messaggio per la 40° Giornata Mondiale della Pace (1 gennaio 2008), n. 4.
([14]) Ibid., n. 12.
([15]) Ibid., n. 13.
([16]) Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor, del 6 agosto 1993, n. 44.
([17]) Thomas Stearns Eliot, Appunti per una definizione della cultura, in Opere, trad. it., Bompiani, Milano 2003, pp. 638-639.
([18]) Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche, trad. it., Einaudi, Torino 1994, p. 482.
([19]) Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della Slovenia in visita ad limina, del 24 gennaio 2008.