(Il TImone) Il KATTOLICO: Elogio della censura

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Una delle tante cose che si rimproverano alla Chiesa è
l’avere avversato la libertà di stampa fin dal suo inizio.
E il suo inizio coincide con Gutenberg.

Ora, va detto che ogni innovazione tecnologica porta, come
tutte le cose, il marchio del Peccato originale.
Per esempio, inventata la fotografia, il secondo soggetto
immortalato fu una donna nuda. Il Vaticano, sempre per esempio, fu il primo al mondo a
dotarsi di telefono, con ben dieci linee a commutazione
automatica.
Dai due esempi traiamo la posizione cattolica sulle novità:
bene l’invenzione, male il cattivo uso.

La stampa a caratteri mobili fu subito usata da Lutero & C.,
indovinate per farci cosa.
La Chiesa reagì con l’Indice dei «libri proibiti», scandalo
inaudito per i libertari e grande fesseria per gli
informati: detto Indice ci mise poco a diventare la guida
per i golosi e il «tre stelle michelin» per chi, pur non
eretico, non sapeva resistere al fascino del proibito.

Efficacia?
La si desuma da questi dati: perchè un libro venisse
inserito nell’Indice occorreva che i prelati della
congregazione apposita venissero a conoscenza
dell’esistenza di un libro probabilmente eretico (che,
dunque, già circolava); poi bisognava procurarsene una
copia (alla velocità delle curie del XVI secolo); indi
esaminarlo accuratamente (col necessario intervento di
teologi o scienziati, a seconda del ramo interessato; anche
traduttori, se opera straniera); infine, decidere se
vietarlo del tutto o censurare solo le parti giudicate
erronee.
Quest’ultima cosa implicava la censura (inchiostro nero
sulle righe imputate) su tutte le copie.
Certi libri si riusciva a inserirli nell’Indice solo dopo
mezzo secolo (garantendo loro, tra l’altro, un ulteriore
lancio pubblicitario).

Insomma, l’Indice ha solo fatto la felicità dei laicisti,
che lo paragonano ai roghi di libri nel Terzo Reich
(mai a quelli nell’Urss) e continuano a stracciarsi le
vesti ancora oggi, meravigliandosi che il papa non
l’abbia infilato nei «mea culpa» di fine secolo.

Ora, la libertà di stampa fu invocata da Lutero pro domo
sua, guardandosi bene dal concederla a chi, dalle sue
parti, osava dissentire da lui.
Idem per Calvino e gli altri.
Divenne uno dei cavalli di battaglia degli Illuministi,
ma ci pensò Robespierre a farla ritornare a senso unico.
Insomma, la libertà di stampa è quella cosa che ognuno
vuole per sé ma non per gli altri.
Comprensibile.

Nelle liberaldemocrazie moderne la stampa e i media in
genere è meglio stiano in mani private se vogliono fare
il Quarto Potere, perché in mani statali diventano
strumento di chi mette le mani sullo Stato.

Prima difficoltà: si è mai visto un giornale pubblicare
qualcosa di sgradito a chi lo finanzia?
Problema non ideologico ma semplicemente pratico, come
si vede, però rilevante e privo di soluzione.

Seconda difficoltà: chi ci mette i denari non vuol
certo perderci e, quando le vendite calano, la (terza)
difficoltà è tutta a carico dell’«indipendenza» degli
operatori del settore.

Morale: si rischia di non venire mai a sapere cose
importanti ed essere subissati di sciocchezze eclatanti.

Si aggiunga un dettaglio all’apparenza insignificante
ma fondamentale: il bene non fa notizia.
Ce lo vedete in prima pagina questo: «Boy-scout aiuta
una vecchietta ad attraversare la strada in un
incrocio pericoloso»?
No, certo.
Invece è sicuro che troverete quest’altro: «Vigile
spara a una vecchietta che cercava di attraversare
col rosso».
Perché quest’ultima è una «notizia» e quella di prima
no?
Non chiedetelo ai sociologi; la risposta giusta l’ha
la Chiesa (ed è nella dottrina del Peccato originale).

Come mai una stellina televisiva provvista di
altissimo I.Q. prima o poi la si vede dodici volte
nuda sul calendario?
Risposta: la Tac del suo Quoziente Intellettivo
non venderebbe una copia.
Nemmeno il volume con i quiz di matematica
quantistica da lei risolti.
Anche per questo mistero chiedete al teologo.

Agatha Christie, che se ne intendeva, era
assolutamente convinta che la televisione,
facendo entrare in tutte le case nelle ore più
indifese immagini di violenza e sesso,
contribuisse a incrementare la violenza e
l’egoismo nella società.
Infatti, finchè fu viva, non volle mai consentire
a riduzioni televisive dei suoi racconti.
Già, perché ciò che fa «notizia» sui quotidiani
(e i media in genere) è appunto quotidiano, e
tutti i giorni, tutto il giorno, viviamo avvolti
in questo genere di informazioni che giungono da
tutto il mondo.

Quante pagine ha un quotidiano?
Ebbene, vanno riempite tutti i giorni che Dio
manda in terra, pena la perdita di «posti di
lavoro».
Così per i palinsesti televisivi.
Ora, essere accompagnati dalla culla alla bara
dalla visione di tutte le disgrazie che in ogni
istante avvengono sul pianeta, come minimo
produce ansia.
Vedere il nostro prossimo sempre intento al vizio,
all’omicidio e ai peccati capitali induce a
pensare di vivere in un mondo ostile e senz’altro
peggiore di quanto realmente sia.
Tutto ciò lavora ai fianchi la nostra psiche e ci
modifica, ci piaccia o no.
Tutti concordano su questo ma, quando si va al
dunque, il massimo che si riesce a escogitare sono
«codici di autoregolamentazione» che lasciano il
tempo che trovano (giacchè il Peccato originale
insiste anche sugli autoregolamentati).

Ci vorrebbe un’authority morale super partes, che
tutti accettino come unica autorizzata alla censura.
Ebbene, questa cosa esisteva, ed era la Chiesa.
Ma, come è noto, nel XVI secolo fu deciso che
ognuno poteva far da sé («libero esame»).
Un secolo dopo qualcuno rincarò la dose scoprendo
che «l’uomo è buono per natura».
Pochi anni e i nodi vennero al pettine.
Solo che non c’era più nulla da pettinare.

Rino Cammilleri

© Il Timone, bimestrale di apologetica cattolica
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