Fondamento e storia. Introduzione alla filosofia della religione,

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Roberto ROSSI, Fondamento e storia. Introduzione alla filosofia della religione, Leonardo da Vinci, Roma 2004³, pp. 184, Euro 20,00.
http://www.editriceleonardo.net/index.htm

L’opera curata da Rossi è propedeutica allo studio della filosofia della religione e offre un’ampia esposizione dei temi principali di tale materia. Con semplicità di linguaggio l’Autore affronta il tema metafisico per eccellenza – quello del fondamento, inteso come causa prima dell’atto d’essere degli enti e conseguentemente loro fine ultimo – in rapporto all’esperienza storica.
La ricerca dell’identità o essenza del fondamento – ricorda Rossi – è una necessità per l’uomo, in quanto questi conosce originariamente l’esistenza di un principio che dà ragione di tutta la realtà: «L’uomo è colui che scorge che la natura è una natura manchevole, una realtà che invece di appagare nel suo esserci, richiama al possibile, a ciò che c’è e che potrebbe e/o dovrebbe esserci. Egli sa scorgere l’assenza, la presenza mancante, il possibile che l’esperienza non ci rende possibile. In altre parole riconosce […] la realtà come problema» (p. 20).
Lo studio del fondamento viene sviluppato dall’autore a partire da un’analisi antropologica che riconosce la storia quale espressione per l’uomo del cammino di ricerca del “senso” dell’essere. La storia è una peculiarità umana, e non (come una visione storicistica insiste a proporre) un principio che determina se stesso nel suo svilupparsi nell’uomo. È movimento che genera la civiltà e la cultura, grazie alle quali la persona è agevolata nella propria ricerca del vero e nella capacità di perseguire il bene. La storia è attività per chi ne percorre il presente e progetta il futuro, ed è patrimonio di identità per chi ne eredita il passato, perché nel vivere il tempo l’uomo cerca le possibili soluzioni a quel naturale squilibrio che trova in sé e che gli proviene da quella mancata conoscenza dell’essenza del fondamento (fondamento di sé e del mondo). Se non è possibile ridurre qualitativamente la causa all’effetto – ossia, se non è possibile identificare il fondamento con la realtà stessa o anche con un solo suo componente, come ad esempio l’uomo –, allora la causa (Dio) trascende il mondo (effetto), pur lasciando in questo tracce di sé, a cominciare dalla stessa partecipazione all’essere. La causa è quindi sovra-storica perché sovra-naturale, e le numerose risposte storiche elaborate non fanno altro che tradurre nel molteplice quantitativo l’infinità qualitativa della domanda sul fondamento.
È bene ricordare che il concetto di “storia”, quale ricerca di senso degli eventi e non semplicemente narrazione di avvenimenti, è squisitamente biblico e cristiano. Nell’antichità tale termine è assunto con il connotato di razionalità solo dalla cultura ebraica (e poi da quella cristiana) a motivo della rivelazione di Dio. Mediante la rivelazione il popolo d’Israele è venuto a conoscenza dell’origine nel tempo (“in principio”) del mondo e dell’uomo, ha riconosciuto che il male proviene dall’uomo stesso e non da Dio, e si è reso consapevole della necessità della salvezza. La conoscenza del proprio passato e l’annuncio profetico della salvezza hanno reso il popolo d’Israele in grado di poter interpretare i significati dei “segni” del tempo per riconoscere ed accogliere il Messia. Con l’incarnazione, morte e resurrezione di Gesù si compie per l’uomo la salvezza che lo ricongiunge a Dio nella vita beata dopo la morte, offrendogli una conoscenza di Dio tale da renderlo meritevole di tale vita. La rivelazione biblica ha dato alla nozione di “storia” un contenuto di insieme significativo di tutti gli avvenimenti del tempo, e questo perché è il frutto della ricongiunzione di Dio con l’uomo. La necessità di ricerca di senso nello studio della storia si comprende proprio in rapporto a questa relazione tra la trascendenza e il mondo, poiché l’interpretazione del tempo – passato, presente e futuro – avviene in vista dell’eternità, nel senso che gli avvenimenti della vita terrena vengono giudicati seguendo le categorie della vita eterna. La rivelazione ha determinato la differenza tra una concezione della storia ferma alla ciclicità di tutto (della natura -e degli eventi) e un’altra concezione che conferisce alla storia uno sviluppo lineare nel tempo, uno sviluppo nel quale non è solo l’uomo protagonista ma lo è anche Dio. Questo coinvolgimento storico da parte di Dio ha permesso all’uomo di ricercare nella storia la propria redenzione, scrutando sia dal passato dei popoli che da quello privato individuale le relazioni con Dio. Gesù ha diviso la storia dell’umanità in due parti: quella prima della sua venuta e quella dopo la sua resurrezione; così, anche nella vita di un singolo uomo si ha la differenza tra prima della sua conversione e dopo di questa, ma tali momenti hanno significato solo se messi in rapporto all’eternità dalla quale provengono e alla quale fanno ritorno.
A fondamento dell’homo historicus vi è dunque l’homo religiosus il quale, come sostiene Agostino, non cercherebbe Dio se non l’avesse già trovato in sé, in quella presenza che giustifica l’essere, e non trova quiete se non riposa in questa presenza che è la sola che gli può rivelare l’essenza stessa dell’uomo. L’homo religiosus non identifica Dio con se stesso, e nemmeno lo ritiene troppo lontano e diverso da lui al punto da considerarlo estraneo, ma lo riconosce a lui analogo. Questo significa che l’uomo avverte la presenza di Dio come di una persona che è infinitamente superiore a lui e alla realtà naturale. A motivo della conoscenza originaria dell’esistenza di Dio e il riconoscimento di un’analogia entis fra Dio e la Sua creazione, l’uomo può considerare razionalmente possibile una rivelazione divina, in quanto solo il Mistero può parlare di sé stesso usufruendo, per tale scopo, del tempo che, arricchito così di senso, si trasforma in storia.
Nella storia delle religioni si parla di “ierofanie” e di “teofanie”, cioè di manifestazioni indirette del sacro o di Dio nella realtà, nel profano. Possono essere fenomeni eccezionali dotati di particolari qualità, momenti della vita espressi da persone delegate dal gruppo ad entrare in contatto con il mondo delle divinità come il sacerdote, l’uomo del sacro. Per il cristianesimo si tratta di “epifania”, ovvero di manifestazione diretta di Dio all’uomo (Eb 3,1). Tale concetto, unico e fondamentale, è in grado di rivelare l’essenza stessa del cristianesimo, confermandolo quale vera religione soprannaturale, perché attraverso l’Incarnazione Dio stesso si è rivelato all’uomo e gli ha parlato al fine di salvarlo: «Gesù è una persona, storica, reale […] Gesù è mistero e scandalo, ma è. È storicamente. Lo hanno incontrato, lo hanno ascoltato […] e lo hanno inchiodato proprio perché annunciava Se stesso, l’Alterità che con Lui è diventata presenza storica» (p. 86). Poiché Dio ci ha parlato possiamo ora parlare di Lui, perché sappiamo chi è. Il voler render ragione dei contenuti della fede è per il cristiano uno sforzo che deve compiere, sia come forma di rispetto per la propria natura razionale, che per la propria salvezza.
Ogni espressione umana di religione naturale e ogni forma di pensiero che si sviluppa fuori dall’ambito cristiano – che ritrova nella figura del Dio Creatore la sua chiarezza riguardo le origini della vita del mondo – è incapace di fornire all’uomo una vera risposta che giustifichi l’esistenza. Il mondo greco e latino della classicità, nella sua spiegazione dell’àpeiron, presupponeva il caos, una materia altrettanto eterna come il suo plasmatore, e il vero problema che si poneva era come spiegare il passaggio dall’informe alla forma determinata, dall’uno confuso all’insieme degli enti. L’uomo non era chiamato a nessuna risposta di fede, ma a prendere atto e a spiegare la presenza della realtà come kosmos, cioè come universo ordinato e bello. In Oriente la ruota ciclica del karma, ossia il giusto divenire delle cose, lo rta, il ciclo eterno delle rinascite, ritrovano nel nulla del Buddismo il concetto salvifico per uscire dalla catena meccanica interminabile della vita e delle rinascite. Per il Buddismo la salvezza e la liberazione sono indicate nel “non esser più”, perché l’identificazione induista con la totalità dell’essere è concepita come una condanna. Non vi è quindi spazio per un intervento di Dio, e l’uomo è condannato al non-senso, tanto che lo stesso non-senso viene ricercato e perseguito come scopo. Nell’Ottocento la spiritualità orientale è stata recuperata da Nietzsche per tematizzare il proprio nichilismo attivo, dalla cui formulazione emerge la figura dell’“oltre-uomo”, che altro non è che l’uomo capace di sorridere al suo non-senso. L’annuncio di Nietzsche della “morte di Dio” proclama l’avvento dello Übermensch, dove “l’oltre”o il “super” che vengono auspicati per l’uomo coincidono con la coscienza del proprio non-senso: «Fu Nietzsche che, in Occidente, per la radicalità delle sue critiche e delle sue posizioni, esasperando i termini del problema, ha reso chiaro ed essenziale il grande bivio che abbiamo ogni volta di fronte: o crediamo al Creatore dal nulla e, dunque, ad una vita che è progetto d’amore, non abbandonata alla morte, ma guidata ed orientata al compimento; oppure, rifiutato il Creatore, resta il nulla che siamo e a cui siamo destinati» (p. 64).
Se ne deduce che il dato rivelativo della creazione di Dio dal nulla si propone nella vita come scelta di fondamento: o Dio o il nulla. Non si attacca un Assoluto (Dio) se non in nome di un altro Assoluto (l’uomo), poiché nel momento in cui si nega l’assolutezza di Dio, immediatamente si assolutizza la propria posizione. Ma l’uomo quando vuole autofondarsi e autogiustificarsi si accorge che la morte, inesorabilmente, tutto cancella ed annulla, privando di significato qualunque idea e azione: «Il fine va a coincidere con la fine» (p. 66). Per questo motivo non illudono più gli entusiasmi: dell’Illuminismo, del positivismo e dello scientismo, dello storicismo e del marxismo. Questi sono stati smascherati dallo stesso Nietzsche, il quale, riconoscendoli quali copie sbiadite del valore assoluto che la metafisica occidentale ha assegnato a Dio, si incammina nel baratro del nulla che esse hanno aperto.
Ma il nichilismo – esistenziale, gnoseologico, artistico, morale, politico e spirituale – che deriva dallo “smascheramento” del nulla dietro la pretesa di assolutizzazione del pensiero dell’uomo, ritrova il proprio fondamento nel dubbio di Cartesio e ancor prima, nella negazione oggettiva della verità in nome di una verità religiosa soggettiva e privatizzata come quella di Lutero. Questo prova che tutte le attività dell’uomo, sia pratiche che intellettuali, sono in relazione a Dio che ne è il loro vero fine: ma, se si sceglie di fare a meno di Lui, la perdita di senso è totale, al punto che alcune pretese del pensiero moderno, come quella di Nietzsche (collocarsi «al di là del bene e del male»), non sono più percepite nella loro assurdità, e così facilmente possono narcotizzare la coscienza.

Valentina Pelliccia