(Figaro Magazine) Intervista al Card. Ratzinger

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Intervista del  Figaro Magazine  al Cardinal J. Ratzinger  
“Identificare la Turchia con l’Europa sarebbe un errore”
In questa intervista esclusiva, il braccio destro del Papa s’interroga sulla riduzione della fede alla sola sfera privata e invita il Vecchio Continente ad essere fiero della sua eredità cristiana.

Il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede presso il Vaticano, il Cardinal Joseph Ratzinger è da più di vent’anni il custode dell’ortodossia cattolica. In occasione della visita di Giovanni Paolo II a Lourdes, il 14 e il 15 agosto, spiega il significato di questo pellegrinaggio, il gesto di purificazione compiuto da un malato e da un sofferente in mezzo ad altri malati.
Ricorda anche il legame storico del Papa con la Francia e la sua preoccupazione di fronte al crescendo di un laicismo ideologico manifestatosi nel corso del dibattito sulle radici dell’Europa. Il “teologo” di Giovanni Paolo II teme l’odio che il continente europeo ha verso se stesso e sottolinea che l’integrazione della Turchia nell’Unione Europea sarebbe “un errore” a motivo delle sue differenze culturali e del suo antagonismo storico.

Le Figaro – Il papa si reca in un santuario mariano molto visitato dai malati o dai feriti dalla vita… data la sua stanchezza e il suo stato di salute, qual è il significato particolare che lei attribuisce a questo gesto?

Joseph Ratzinger
– Personalmente ho l’impressione che desideri recarsi con i malati dalla Madonna, essendo lui stesso sofferente e malato. Provato dalla malattia e dalla vecchiaia, si reca a pregare in questo santuario mariano compiendo un gesto di solidarietà con il mondo dei sofferenti. Non si tratta tanto di andare a chiedere una guarigione fisica, quanto piuttosto una consolazione materna e una forza interiore. Questa forza aiuta a trasformare la sofferenza, che è una negazione delle forze della vita, in amore e in dono di sé. D’altro canto, penso che occorra valorizzare questo simbolo della fonte, dell’acqua fresca… La Santa Vergine ha dato quest’acqua come un simbolo della purificazione, della guarigione, della purezza della creazione. Lei stessa è sorgente di purezza ed è ricolma di Spirito Santo.

Il papa ricerca la purificazione nella prova spirituale della sua malattia?

Noi tutti abbiamo bisogno di purificazione, di rinnovamento soprattutto. Giovanni Paolo II si rimette alla volontà di Dio. Sappiamo anche che la sofferenza provoca in noi reazioni, quali il rifiuto e la resistenza. Perché Dio agisce così con noi? Dové la sua bontà nella malattia? Non è possibile comprendere immediatamente il senso della sofferenza. Come tale, con il suo carattere distruttore, rappresenta una limitazione alla nostra vita e ci colloca in una situazione in cui ci poniamo interrogativi, una situazione di conflitto. Il gesto del pellegrinaggio ci permette di domandare la forza al Signore, affinché ci doni questa capacità di entrare con la nostra sofferenza nella sua, Lui che l’ha trasformata in amore.

Sarà il settimo viaggio di Giovanni Paolo II in Francia. Come si relaziona il papa con la Francia, che è stata definita la “figlia primogenita della Chiesa”?

Lei sa che il Santo Padre nutre una grande ammirazione per la Chiesa che vive in Francia e per la sua grande teologia. Ha collaborato con alcuni dei suoi rappresentanti, specialmente durante il Concilio Vaticano II, quando venne redatto lo schema della Gaudium et Spes, che è stato frutto, più che di altri, del pensiero francese. Ha nominato cardinali il padre de Lubac e il padre Congar. Ha studiato teologia con il padre Garrigou-Lagrange. La sua formazione spirituale e teologica è legata alla Francia dove ha effettuato numerose visite. Mi ricordo particolarmente di quella compiuta in occasione dell’anniversario del battesimo di Clodoveo, celebrato come un grande rinnovamento del battesimo della Francia. La “figlia primogenita della Chiesa”, occidentale diciamo, ha dato molto alla Chiesa.

Questa missione particolare continua ancora oggi?

Sì, penso di sì. È una realtà essenziale. Naturalmente, il Papa è anche preoccupato per il laicismo ideologico che oggi si manifesta fortemente. Siamo per la laicità, beninteso. Ma siamo contrari a un laicismo ideologico che rischia di rinchiudere la Chiesa in un ghetto di soggettività. Questa corrente di pensiero desidera che la vita pubblica non venga toccata dalla realtà cristiana e religiosa. Una tale separazione, che qualificherei col termine di “profanità” assoluta, sarebbe certamente un pericolo per la fisionomia spirituale, morale e umana dell’Europa. Speriamo quindi che la vitalità della Chiesa in Francia sia sufficiente per aiutare tutta l’Europa a rispondere a questa provocazione, a questa sfida. Ho l’impressione che vi siano grandi iniziative che mirano a rievangelizzare la Francia, a restituire alla fede una presenza forte nella vita pubblica. Bisogna comprendere – nel pieno rispetto del pluralismo culturale, della libertà religiosa e di una sana laicità – che la fede cristiana ha qualche cosa da dire sulla morale comune e sulla edificazione della società. La fede non è una cosa puramente privata e soggettiva. È una grande forza spirituale che deve toccare e illuminare la vita pubblica.


La sua Congregazione ha pubblicato un documento, l’anno scorso, sulla responsabilità degli uomini politici cattolici, e lei ha recentemente indirizzato una nota ai vescovi americani su questo argomento. Là il dibattito verte sulla candidatura di Kerry che si dice cattolico e favorevole all’aborto. Non si tratta di una intrusione della Chiesa e del Vaticano nella vita politica di un paese?


Prima di tutto, tengo a precisare che, nelle nostre intenzioni, il testo pubblicato sull’impegno dei cattolici in politica è esplicitamente a favore del pluralismo. Lo Stato deve essere il garante della libertà di pensiero e di religione. Noi non cerchiamo di imporre la nostra fede agli altri attraverso la politica. Ma, d’altra parte, siamo convinti che la fede costituisce anche una luce per la ragione e che l’uomo politico cattolico deve poter trasmettere questa luce nella sua lotta politica.
Per quanto riguarda il diritto alla vita, esso deve essere difeso da ogni Stato, dal primo all’ultimo istante. È un’evidenza per la ragione, non è una questione di fede. Ma sarebbe contro la fede opporsi a questa evidenza. Un politico che assume una posizione differente, che non rispetta l’immagine di Dio e l’inviolabilità della persona umana si trova anche in opposizione con le componenti razionali della fede. In questo senso, si oppone a un elemento fondamentale della coscienza cristiana. I vescovi americani hanno pubblicato una dichiarazione, in seguito al dibattito riguardante la possibilità per un politico cattolico, favorevole all’aborto, di ricevere o meno l’Eucaristia. I vescovi hanno ricordato che l’esame di coscienza che precede la Comunione, non vale solo per i politici, ma anche per tutti coloro che vi partecipano e che questo esame non riguarda unicamente la loro posizione nei confronti dell’aborto, ma tutta la loro vita di cristiani. All’opinione pubblica si è voluto dare l’impressione che vi fosse una opposizione tra i vescovi americani e la Congregazione per la Dottrina della Fede su questa questione. Questo non è esatto: se le modalità di presentazione sono differenti, i principi, invece, sono gli stessi e chiaramente esposti; vi è dunque concordanza nella sostanza.


Cosa ne è della coscienza personale dell’uomo politico?

La coscienza non è puramente soggettiva, ha dei criteri oggettivi. Un cattolico trova la luce per formare la sua coscienza nelle indicazioni della nostra fede. Mi sembra che la “soggettivizzazione” della coscienza è un grande errore della nostra epoca. Essa rimane senza criterio e alla fine si ha un soggetto non definito, che diventa la misura ultima di tutte le azioni. Con l’assolutizzazione del soggetto sotto il nome di coscienza, perdiamo la possibilità di comunicare la morale e anche la comunione riguardo i fondamenti essenziali della società. Il soggetto non è solo, deve essere aperto alla conoscenza delle esigenze della natura umana, della persona umana come tale.

Nonostante i suoi interventi, la Santa Sede non ha potuto far in modo che il preambolo della Costituzione europea menzionasse le radici cristiane dell’Europa. Che cosa ne pensa?

Sono convinto che si tratti di un errore. L’Europa è un continente culturale e non geografico. È la sua cultura che le dona una identità comune. Le radici che hanno formato e permesso la formazione di questo continente sono quelle del cristianesimo. Si tratta di un fatto storico. Mi è quindi difficile comprendere le resistenze manifestate contro il riconoscimento di un tale fatto indiscutibile. Se lei mi dice che si tratta di un tempo lontano, le rispondo che la rinascita dell’Europa dopo la Seconda Guerra mondiale è stata resa possibile grazie a degli uomini politici che avevano delle forti radici cristiane, sia che si tratti di persone come Schuman, Adenauer, de Gaulle, De Gasperi o di altri. Sono loro che si sono trovati di fronte alle distruzioni provocate dai totalitarismi atei e anticristiani. Tacere su questa realtà è una cosa molto strana e anche pericolosa. Bisognerebbe proseguire il dibattito su questa questione, poiché temo che dietro a questa opposizione si celi un odio che l’Europa ha verso se stessa e la sua grande storia.


Lo studio della candidatura della Turchia diviene più rigoroso. La sua entrata nell’Unione europea rappresenterebbe per lei uno choc o un arricchimento delle culture?


Abbiamo parlato dell’Europa come di un continente culturale e non geografico. In questo senso, la Turchia ha sempre rappresentato nel corso della storia un altro continente, in permanente contrasto con l’Europa. Ci sono state le guerre con l’Impero bizantino, pensi anche alla caduta di Constantinopoli, alle guerre balcaniche e alla minaccia per Vienna e l’Austria… Penso quindi questo: sarebbe un errore identificare i due continenti. Significherebbe una perdita di ricchezza la scomparsa della cultura in favore dei benefici in campo economico. La Turchia, che si considera uno Stato laico, ma fondato sull’Islam, potrebbe tentare di dar vita ad un continente culturale con alcuni paesi arabi vicini e divenire così la protagonista di una cultura che possieda la propria identità, ma che sia in comunione con i grandi valori umanisti che noi tutti dovremmo riconoscere. Questa idea non si oppone a forme di associazione e di collaborazione stretta e amichevole con l’Europa e permetterebbe il sorgere di una forza comune che si opponga a qualsiasi forma di fondamentalismo.


Per quanto riguarda il fondamentalismo religioso, la crescita del laicismo in Francia non è una reazione di difesa di fronte a questo fenomeno?


Secondo la mia opinione, la crescita del fondamentalismo è essa stessa provocata, almeno in parte, da un laicismo accanito. Si tratta di un rifiuto da parte di questo mondo che rigetta Dio e che rifiuta di rispettare ciò che è sacro; che si sente totalmente autonomo, che non conosce le leggi innate alla persona umana e che ricostruisce l’uomo secondo i propri schemi di pensiero. Questa perdita del senso del sacro e del rispetto dell’altro provoca una reazione di autodifesa all’interno del mondo arabo e islamico. Un disprezzo profondo vi si esprime di fronte alla perdita del soprannaturale che è inteso come una decadenza dell’uomo. Il laicismo assolutizzato non è quindi la risposta alla terribile sfida del fondamentalismo. Solo un senso religioso che sia in unione profonda con la ragione, può moderare questi radicalismi e permettere di trovare un equilibrio nel dialogo tra le culture.


Intervista di Sophie de Ravinel
Figaro Magazine (13 agosto 2004)