(FIDES) Il mondo ha bisogno del silenzio della preghiera

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Le Quarantore nei Documenti pontifici e nella pietà del Popolo di Dio


Egidio Picucci


Da “L’Osservatore Romano” edizione quotidiana del 2-3 maggio 2005

Tra le manifestazioni del culto eucaristico, restano ancora attuali le Quarantore, una volta così diffuse e così solenni da costituire un tempo di rinnovamento spirituale e sociale, di preghiera e di penitenza, di comunione tra il clero e il popolo, tra ricchi e poveri, tra superiori e sudditi. La storia dice che, durante i giorni della solenne esposizione, le città cambiavano fisionomia: i negozi chiudevano; i lavori dei campi erano sospesi; le barriere sociali cadevano e la fede rifioriva nel cuore della gente che imparava a pregare e a meditare.
L’adorazione coinvolgeva tutte le categorie di persone che, giorno e notte, si avvicendavano in preghiera, spesso in modo inventivo e spontaneo, per quaranta ore davanti a Gesù Eucaristia. Per tre giorni si stabiliva quasi una tregua Dei perché «i violenti diventavano mansueti; i ladri restituivano il maltolto; i falsari diventavano onesti; i nemici si riconciliavano; la gioventù si innamorava di Dio e i sacerdoti non si allontanavano dall’altare e dai confessionali».
E questo perché le Quarantore pian piano acquistarono lo stile, l’importanza e l’efficacia di una vera missione popolare, affidata a predicatori che le ritenevano un ottimo mezzo per preparare la predicazione più impegnativa, quella quaresimale, immancabile in tutte le chiese. Un tempo di grazia, quindi, che rinnovò la vita cristiana.
Poi vennero le rivoluzioni politiche e sociali, con gli inevitabili cambiamenti: le città divennero più grandi e meno accoglienti; più industriali e meno religiose; più ricche materialmente e più povere di rapporti umani e di amicizia cristiana; più intellettuali, ma religiosamente meno preparate. La ragione, sublimata oltre misura, cominciò a dubitare della fede e a criticarla, tanto che si affievolì, facendo calare molte pratiche religiose, comprese le Quarantore, che incisero sempre meno nella vita individuale e sociale.
Resta comunque il fatto che, per oltre due secoli, questa devozione è stata al centro del culto eucaristico e un argine potente ed eccezionale per fronteggiare tempi di calamità, di divisioni e di lotte.
A chi si deve questo movimento così benefico? Gli storici dicono che le radici dell’adorazione affondano nella consuetudine cristiana del digiuno e dell’astinenza praticati negli ultimi giorni della Settimana Santa, con l’adorazione della Croce e poi del Crocifisso da parte del Vescovo, del clero e dei fedeli: pratiche a cui si aggiunsero pian piano veglie di preghiera che iniziavano la sera del Giovedì Santo e si concludevano a mezzogiorno del sabato, nel triste pensiero del Sepolcro in cui Gesù, secondo il computo fatto da s. Agostino, rimase Quarantore.
Il passaggio da questa forma liturgico-devozionale locale e particolare alla nota e classica forma dell’adorazione che lentamente assunse un carattere più popolare e universale con l’ininterrotta esposizione per Quarantore del Sacramento, avvenne a Milano nel decennio 1527-1537. Il cambiamento fu possibile innanzitutto per la religiosa disponibilità dei milanesi e poi per lo zelo di uomini che portarono contributi che si fusero e si arricchirono a vicenda, fino ad assumere la fisionomia che, salvo alcune particolarità, dura fino ad oggi.
Il protagonista delle Quarantore fu il sacerdote ravennate Antonio Bellotti che, nel 1527 (l’anno del disastroso Sacco di Roma), obbligò i devoti della scuola da lui fondata nella chiesa del Santo Sepolcro, a celebrare ogni anno le Quarantore non solo durante il triduo della Settimana Santa, ma anche a Pentecoste, all’Assunta e a Natale. Iniziativa che si estese anche ad altre chiese milanesi dopo la sua morte (1528) e che il domenicano spagnolo Tommaso Nieto associò alle processioni che egli indisse nel 1529 per scongiurare la guerra e la peste che minacciavano la città.
A questo punto entra in scena Fra Buono da Cremona, un eremita amico dei barnabiti e soprattutto di s. Antonio Maria Zaccaria, loro fondatore. Nel 1534 egli chiese al duca di Milano Francesco II Sforza e al Vicario Generale Ghillino Ghillini, Vescovo di Comacchio, l’autorizzazione a poter esporre il Santissimo sopra l’altare per un’adorazione di quaranta ore ininterrotte. Pare, comunque, che la sua attività si confonda e confluisca nelle iniziative dell’amico s. Antonio Maria Zaccaria, dei suoi barnabiti e del cappuccino p. Giuseppe Piantanida da Ferno.
Una cronaca del tempo racconta che nel 1537 alcuni homeni — i primi barnabiti e il loro fondatore — proposero di allestire un altare nell’abside del Duomo per esporvi «el Corpus Domini de continuo», idea caldeggiata dal predicatore quaresimalista e vivamente raccomandata al popolo. La proposta fu accolta, e le Quarantore si fecero a turno in tutte le chiese della città, cominciando da quella di Porta Orientale e terminando con quella di Porta Vercellina.
È certo che gli homeni di cui parla il cronista sono i barnabiti; certo anche, grazie a un’accurata indagine del gesuita Angelo De Santi, che il predicatore fosse davvero p. Giuseppe, per cui sembra giusto affermare con p. De Santi che «le circostanze storiche sembrano affratellare il santo fondatore dei barnabiti, i suoi religiosi compagni, l’eremita fra Buono e p. Giuseppe da Ferno… Tutti ebbero una parte veramente precipua nell’introduzione del turno incessante delle Quarantore a Milano nel 1537: lo Zaccaria come primo ispiratore; i suoi religiosi e fra Buono come esecutori attivi della rotazione delle chiese per il pio esercizio; p. Giuseppe come instancabile propagatore».
Accertato questo, c’è da ammettere che le Quarantore sarebbero rimaste nei piccoli orizzonti cittadini se zelanti confratelli di p. Giuseppe non ne avessero fatto un evento prima italiano e poi europeo, divulgandole nelle loro predicazioni quaresimali, come riconosce lo stesso p. De Santi. «A p. Giuseppe da Ferno — egli scrisse — va data la gloria incontrastata di essere stato il primo a spargere per le città d’Italia la pia devozione, cominciando quell’anno stesso a Pavia; ed ai suoi compagni e discepoli e a tutto l’ordine dei Cappuccini deve riconoscersi il vanto d’esser stati, dopo di lui, i più ferventi, i più efficaci e i più fortunati promotori delle Quarantore».
A loro, nella seconda metà del sec. XVI, si unirono i Gesuiti, cioè un altro istituto che si dedicava alla predicazione: i Barnabiti, votati all’educazione della gioventù, non potevano impegnarsi come un Ordine che faceva della predicazione itinerante un aspetto qualificante dei suo stile di vita.
L’espansione cominciò non appena Paolo III approvò la «pia pratica» con un Breve del 28 agosto 1537 in cui, sorvolando sulla genesi della pratica, evidenzia l’elemento popolare e gli impellenti motivi di attualità.
Le prime regioni in cui si organizzarono le Quarantore furono l’Emilia (1546 a Bologna); le Marche (1542 a Recanati) e il Lazio (1548 a Roma). Tra i diffusori si distinsero p. Francesco da Soriano nel Cimino (VT), che migliorò l’organizzazione e il cerimoniale e le diffuse in mezza Italia, rappacificando la gente, divisa da lotte fratricide; P Fulvio Androsio; p. Giovanni Battista d’Este († 1644) e p. Mattia Bellintani da Salò († 1611), che le introdusse in Francia e in Boemia, mentre p. Giuseppe de Rocabertí da Barcellona († 1584) le introdusse in Spagna.
Altri religiosi le diffusero in Germania e nei Paesi Bassi, dove la gente le chiamava le «perdonanze dei Cappuccini»; poi in Svizzera, in modo che in poco più di un secolo si coprì tutta l’Europa, per passare l’oceano nella metà del sec. XIX, allorché il Vescovo Neuman le introdusse nella diocesi di Philadelphia. Il secondo Concilio di Baltimora le introdusse poi ufficialmente in tutti gli Stati Uniti, dove divennero «una preghiera universale notissima tra i cattolici».
Alla metà del 500 si inserirono nella predicazione delle Quarantore i Gesuiti con una novità che fece epoca. Nel 1556 a Macerata essi contrapposero al carnevale profano un «carnevale santificato» con le Quarantore che si svolsero in modo fastoso, attirando molta gente. Fu l’inizio di una nuova impostazione che a Roma affascinò anche il Papa, immancabile nell’oratorio del Caravita l’ultimo giorno del triduo. Si trattava di Paolo III, colui che rilasciò il primo documento pontificio di cui si è parlato. Successive approvazioni vennero da Giulio III; Pio IV; San Pio V e Clemente VIII il quale, angustiato per le guerre di religione in Francia, con una sofferta Enciclica Graves et diuturnae del 25 dicembre 1592, esortò il popolo romano e il clero alla preghiera e volle che si celebrasse pubblicamente in tutte le chiese della città «l’orazione perpetua sine intermissione» delle Quarantore.
Altre approvazioni e direttive vennero da Paolo V, da Urbano VIII, da Benedetto XIII, da Innocenzo XI e da altri Pontefici: si tratta di un coro di approvazioni, di incoraggiamenti e di concessioni di indulgenze per una pratica in cui la meditazione si alternava con la preghiera vocale, alimentando una religiosità che rivitalizzò le confraternite, ne fece sorgere di nuove, impegnate nell’insegnamento del catechismo, nella diffusione del culto eucaristico, nel promuovere rappacificazioni generali che in genere avvenivano in chiesa, «tra il pianto e la commozione di tutti».
Si deve alle Quarantore la nascita di alcune manifestazioni di fede e di arte che segnarono un’epoca. Da loro nacquero, infatti, processioni significative; forme di penitenza praticate per secoli; un’arte religiosa — il barocco — che iniziò a Roma con Sisto V verso la fine del 500 e che divenne subito popolare perché interpretò ed espresse una nuova sensibilità: esaltare il Cristo Eucaristico presente come Re nella Chiesa. Esse favorirono anche una produzione letteraria religiosa che ebbe nei Gesuiti la massima espressione, perché essi volevano che i testi esprimessero una drammaticità e un movimento simili a quello che utilizzarono nell’architettura delle loro chiese.
Oggi le Quarantore vengono collegate alla Parola di Dio e alla Santa Messa, cioè stanno tornando a quell’esigenza di interiorità, di spiritualità, di adorazione e di semplicità che sta all’origine della stessa devozione. Il Vaticano II nell’Eucharisticum mysterium dettò alcune norme per questa devozione, soprattutto nel senso che l’esposizione deve apparire in rapporto con la Celebrazione Eucaristica che «racchiude in modo più perfetto quella comunione intera alla quale l’esposizione vuole condurre i fedeli».
Il compianto Giovanni Paolo II nella Lettera Dominicae Cenae del Giovedì Santo 1980, affermò: «L’animazione e l’approfondimento del culto eucaristico sono prova di quell’autentico rinnovamento che il Concilio si è posto come fine, e ne sono il punto centrale… La Chiesa e il mondo hanno grande bisogno del culto eucaristico. Gesù ci aspetta in questo Sacramento d’amore. Non risparmiamo il nostro tempo per andarlo a incontrare nell’adorazione, nella contemplazione piena di fede e pronta a riparare le grandi colpe e i delitti del mondo. Non cessi mai la nostra adorazione!». (Egidio Picucci)