Eugenio Zolli, Prima dell’alba

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Eugenio Zolli, Prima dell’alba, Edizioni S. Paolo, 2004, pp. 240, € 16
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È un libro che per tanti, troppi anni in Italia non si è potuto leggere, destinato a riaprire vecchie ferite ma soprattutto a gettare nuova luce su quanto accadde a Roma dopo l’8 settembre del ’43 e sulla razzia del ghetto che costò la vita a mille ebrei della capitale.

Pubblicato nel 1954 a New York, esce finalmente nel nostro Paese dopo mezzo secolo «Prima dell’alba» (Edizioni San Paolo, pp. 284, € 16), l’autobiografia del Rabbino Capo di Roma Israel Zolli che dopo la Liberazione chiese il battesimo e si fece cattolico assumendo il nome di Eugenio per simpatia verso Pio XII.
La maggior parte del libro – che riproduce il manoscritto originale in italiano ritrovato tra le carte di Zolli dal nipote Enrico de Bernart – è dedicata al misterioso ed eccezionale percorso di questo grande studioso dell’ebraismo, che attraverso la lettura delle Sacre Scritture si rese lentamente conto che Gesù era il messia atteso dal popolo di Israele.
È certamente questa la parte più dirompente dell’autobiografia, che racconta com’è nato e si è sviluppato il rapporto di questo religiosissimo ebreo con la figura del Nazareno.

Ma «Prima dell’alba» farà riflettere anche gli storici, perché racconta, poggiandosi su documenti e testimonianze, in che modo Zolli supplicò i responsabili della comunità ebraica romana di chiudere la Sinagoga e di invitare tutti a nascondersi o a fuggire da Roma all’indomani dell’8 settembre.
La sera precedente all’entrata dei tedeschi nella capitale, il Rabbino Capo chiese per telefono all’ex prefetto Dante Almansi, presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane di organizzare un incontro urgente con l’avvocato Ugo Foà, presidente della Comunità Ebraica di Roma, per decidere quali misure adottare in vista di possibili deportazioni. «La risata con cui mi rispose l’illustre uomo (ex prefetto ed ex vice-capo della polizia fascista) era così sonora – scrive Zolli – che fu perfino udito dalle orecchie ariane della signora Gemma, la portinaia del Tempio…».
«Ah, ah, ah! – rispose Almansi al Rabbino – Come può una mente chiara come la sua pensare a provvedimenti eccezionali che m’immagino dovrebbero consistere nell’interrompere il regolare funzionamento degli uffici e lo svolgersi regolare della vita ebraica?… Può stare tranquillo e, anzi, deve infondere fiducia assoluta nella popolazione».
Così il presidente dell’Unione delle Comunità.
Non diversa la risposta di Foà, che non si fece nemmeno trovare da Zolli.

«Gli effetti dell’incomprensione che incontrai – annota tristemente il Rabbino Capo della sua autobiografia – furono così terribili, tragici, che mi rifiuto di credere possa essersi trattato di mancanza di volontà».
Finalmente, due giorni dopo, quando le truppe hitleriane hanno già preso possesso della Città Eterna, Zolli riesce a incontrare il presidente della Comunità Ebraica romana: «Mi ascolti – lo supplica – dia ordine che vengano chiusi al culto il Tempio assieme a tutti gli oratori. Mandi a casa tutti gli impiegati e si chiudano tutti gli uffici… ognuno preghi là dove si trova che Iddio è onnipresente…».
Foà reagisce così: «Lei dovrebbe infondere coraggio, anziché scoraggiare. Ho avuto rassicurazioni…».

«A me fu dato di vedere, senza poter agire – scrive Zolli – agli altri il potere senza il dono di vedere, cioè di prevedere».
Il Rabbino Capo lascia il suo appartamento, che la Gestapo metterà a soqquadro, e si rifugia in casa di amici non ebrei.
Ma lascia i recapiti alla comunità per poter essere rintracciato in ogni momento e dichiara che se sarà necessario consegnare degli ostaggi ai tedeschi, lui vuole essere il primo.
Quando i nazisti chiederanno agli ebrei 50 chili d’oro in cambio della salvezza, Zolli andrà in Vaticano dove i collaboratori di Pio XII metteranno a disposizione i quindici chili mancanti.
Quell’oro, però, non servirà.

Da Berlino il 6 ottobre arriva l’ordine di rastrellare il ghetto di Roma e dieci giorni dopo i soldati tedeschi arrestano e deportano più di mille ebrei romani.
I responsabili della comunità non avevano ascoltato il consiglio del Rabbino di distruggere gli elenchi degli appartenenti, ma per tutta risposta avevano deciso di far decadere Zolli dal suo incarico.

Dopo la liberazione della capitale, Ugo Foà sosterrà che il Rabbino non lo aveva avvertito di nulla.
Nell’autobiografia sono però trascritte diverse lettere e dichiarazioni giurate di membri della comunità che attestano il contrario confermando la versione di Zolli. Tra queste, colpisce la lettera della professoressa Elena Sonnino Finzi, figlia del Rabbino Capo di Genova, al quale l’11 luglio 1944 scrive: «Dopo la consegna dell’oro all’ambasciata tedesca ebbi l’occasione di avvicinare il presidente della Comunità, avv. Ugo Foà.
Mi presentai e gli domandai se riteneva opportuno che ci allontanassimo da casa.
Mi rispose che non ne vedeva la necessità e ironicamente aggiunse che non capiva proprio da quali pericoli potessi essere minacciata». La conferma che i fatti si svolsero secondo il racconto di Zolli arriva anche dagli Alleati. Il colonnello americano Charles Poletti, commissario di Roma, dopo aver svolto un’inchiesta, decide di sciogliere il Consiglio della comunità ebraica di Roma congedando i suoi vertici e nominando un amministratore temporaneo.
Allo stesso tempo, Poletti reintegra Israel Zolli nell’incarico di Rabbino Capo e gli dice: «Sento il dovere di ringraziarla di tutto quanto ha fatto. Lei ha raggiunto i limiti massimi delle possibilità, dando prova di onestà. Di sensibilità e di coraggio associato a profonda saggezza».
Uno spicchio di storia che dimostra ancora una volta quanto diffuse siano state le negligenze, le sottovalutazioni, l’attendismo di fronte alla minacciosa realizzazione dell’Olocausto.
E che dimostra come esponenti della stessa comunità ebraica non ne furono immuni, anche se oggi troppi preferiscono scaricare, sempre e comunque, la responsabilità sulla Chiesa e sui suoi «silenzi».

Pochi mesi dopo il suo rientro come guida religiosa della comunità, nell’autunno 1944, Zolli presiede in Sinagoga le liturgie del «Giorno dell’Espiazione».
In quell’occasione – racconta – gli pare di vedere Gesù e avverte questo richiamo: «Tu se qui per l’ultima volta».
Qualche giorno dopo si congeda dall’incarico e chiede a un sacerdote sconosciuto di ricevere l’insegnamento cristiano.
Scriverà nell’autobiografia:« Il cristianesimo cominciava a essere per me, quasi inconsciamente, anzi vorrei dire del tutto inconsciamente, la primavera, l’attesa del rinnovarsi e dell’eternarsi del mio spirito. L’aspirazione al calore, in luogo del gelo, alla bellezza mai vista.

Il 13 febbraio 1945 si fa battezzare assumendo il nome di Eugenio, lo stesso di papa Pacelli.

ANDREA TORNIELLI
Tratto da “Il Giornale”, p. 28. Con il permesso dell’autore.