(Espresso) Card. Ruini: La mia battaglia per l’uomo

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“L’Espresso” n. 50-51 del 12-19 dicembre 2002 (titolo originale “Diavolo
edonista”)

Intervista esclusiva col cardinale Camillo Ruini: “La mia battaglia per l’
uomo”
Politica e fede, cattolici e laici, Europa ed islam: il vicario del papa
spazia a tutto campo. Parla anche dei buoni e cattivi maestri di cultura. E
di quello che giudica il pericolo numero uno: la deriva “naturalistica” dell
‘uomo moderno

di Sandro Magister
È vescovo e cardinale ma ha la politica come vocazione seconda. Da vicario
del papa è in simbiosi perfetta con Giovanni Paolo II, più che il cardinale
Richelieu col Re Sole. È il premier di quel governo ombra specialissimo che
in Italia è la Chiesa. Il suo nome è Camillo Ruini.

Visto da vicino, nei maestosi saloni del Palazzo del Laterano, appare
fragile e timido. Anche enigmatico. Ama dettare la sua strategia in
calibrati discorsi tra vescovi, illeggibili per i non iniziati. Ma a tu per
tu è diverso. Ha parole ben scolpite su tutto: politica e fede, cattolici e
laici, Europa ed islam. Anche le recenti polemiche non le schiva: niente
nomi, ma la sostanza c’è tutta. E tutto rinconduce alla sua visione
unitaria, al suo “progetto culturale”. Che è poi una battaglia campale sull’
uomo. Naturalistico oppure cristiano.

E pensare che pochi lo amano, questo cardinale filosofo. È il grande
incompreso. Che però questa volta ha accettato qui di spiegarsi, con
schiettezza per lui inusitata.

Cardinal Ruini, anche in campo cattolico molti brontolano. L’accusano di
prediligere la destra e di tacere su certe leggi giudicate immorali.

«Primo, mi occupo dei contenuti e non degli schieramenti. Secondo, più che
tacere sono semmai fin troppo insistente, nei discorsi alla Cei che sono poi
i miei unici commenti che toccano anche temi politici. L’esperienza di
cinquant’anni mi ha insegnato a stare attento a una tentazione: il moralismo
che usa temi etici come strumenti di lotta politica. Dico cinquant’anni
perché già Alcide De Gasperi veniva osteggiato così. E sommessamente
inviterei a una maggiore prudenza, perché se carichiamo le singole scelte
della dialettica politica di una valenza etica, allora finisce che la lotta
politica stessa peggiora, diventa disprezzo, odio verso le persone».

C’era una volta la Democrazia cristiana. Ne ha nostalgia?

«No. Della Dc conservo un giudizio fortemente positivo. Ma oggi tutto è
cambiato ed è in questa situazione nuova che la Chiesa deve operare.
Positivamente. Non facendo politica, ma insistendo sui contenuti
antropologici ed etici che qualificano l’agire politico. Perché gli stessi
sviluppi scientifici e sociali di oggi hanno prodotto una conseguenza
apparentemente paradossale: hanno fatto capire che la privatizzazione dell’
etica è insostenibile. Tant’è vero che in tutti i paesi avanzati esistono
comitati di etica pubblica. La Chiesa non può disinteressarsene».

Ma i cattolici in Italia sono minoranza. E più diminuiscono più sono
esigenti e battaglieri. Troveremo anche lei sulle barricate?

«Sulle barricate? Non lo penso proprio. Ma anche questo concetto dei
cristiani come minoranza non credo aiuti molto a capire. Dipende da cosa si
intende per cristiani. Quelli che vanno a messa la domenica sono sicuramente
minoranza. Ma se pensiamo che l’83 per cento degli italiani dà l’8 per mille
dell’imposta alla Chiesa cattolica e quasi il 90 per cento dei ragazzi delle
scuole superiori scelgono l’ora di religione, solo questi dati dovrebbero
consigliare prudenza. In ogni caso è indubbio che la scristianizzazione
avanza. È un processo di lunga durata e di grande portata. Che impone alla
Chiesa di cambiare».

Cambiare come? Per riconquistare l’Italia alla fede come fosse un paese di
missione?

«Più che di missione, papa Giovanni Paolo II ha parlato di nuova
evangelizzazione. La missione fa pensare a una tabula rasa, su cui il
Vangelo è tutto da impiantare. La nuova evangelizzazione scende invece su un
terreno già nutrito di cristianesimo, nel quale la grande eredità cristiana
è insidiata e contrastata ma persiste. Il Vangelo che si annuncia è il
medesimo qui e in terra pagana, ma il contesto è diverso. È diverso l’uomo».

Che nuova figura d’uomo vede avanzare?

«Lo chiamerei l’uomo naturalistico».

Amante della natura?

«Non amante, parte. L’uomo che viene avanti si sente egli stesso
semplicemente parte della natura. Si concepisce così. Non è la prima volta
che ciò accade nella storia dell’umanità. E puntualmente a questa visione
naturalistica si accompagna un’etica edonistica ed utilitaristica».

Quindi è un uomo che semplicemente vuole godersi la vita?

«Godere la vita e far calcoli su ciò che giudica più immediatamente
vantaggioso per sé».

Quali segni le fanno vedere che è questa la nuova figura d’uomo?

«Il segno più importante viene dalle scienze antropologiche. Oggi, in larga
misura, non sono più i filosofi ma gli uomini di scienza le guide culturali
della nostra civiltà. E molti di questi sono portatori della visione che ho
detto. È una visione che domina la scena dei media e che immagino sia
ampiamente divulgata anche nelle scuole».

Fin qui la teoria. E la pratica?

«Per cogliere i riverberi di questa visione nella pratica quotidiana e nel
costume basta guardarsi attorno».

Chi è l’Epicuro di questo moderno naturalismo?

«È una specie di profeta collettivo, che vedo all’opera in particolare nel
sistema mediatico. I media influenzano la vita e nello stesso tempo la
fotografano. Spesso in modo molto parziale, tendenzioso».

E a questa sfida volete contrattaccare con la nuova evangelizzazione?

«All’uomo naturalistico dobbiamo essere capaci di proporre una diversa
immagine d’uomo, quella cristiana. Se ci mettessimo sulla difensiva non
andremmo lontano».

Sulla difensiva un papa come Karol Wojtyla non sta di certo. Lui sulle
barricate ci va volentieri.

«Siamo e dobbiamo essere combattivi, ma sempre in modi sereni e pacati, come
in realtà fa il papa. Perché, in fondo, noi vogliamo offrire alla società un
servizio: aiutarla a tenere in piedi quelle che sono le colonne portanti
della nostra civilizzazione».

Intende dire la tutela della vita nascente, la famiglia, la scuola, i vostri
classici temi di battaglia?

«Sicuramente. Ci accusano di fare su questi temi una guerra di retroguardia,
a ritroso della storia, contro il sentire comune. Quando invece sono proprio
le colonne sulle quali ha poggiato fino a poco tempo fa la civiltà alla
quale apparteniamo. Se le togliessimo, non dico che crollerebbe tutto, ma
certo tutto cambierebbe in peggio, le condizioni di vita in cui verremmo a
trovarci sarebbero meno umane».

E perché invece non più libere? Senza i vincoli che la Chiesa vuole imporre
alle scelte di ciascuno.

«La libertà non è un vivere in balia dell’istinto. È capacità di scelta
culturalmente motivata. La vera libertà ha sempre a che fare col principio
di realtà. Un vita migliore per sé e per gli altri si costruisce anche con
un certo superamento di sé».

Il principio di realtà non rimanda a Freud?

«Infatti. Ma anche la grande etica cristiana è realista. Pensiamo a san
Tommaso d’Aquino. La realtà ha un “logos”, una sua razionalità profonda, a
differenza da quello che hanno detto Hume e molti dopo di lui, secondo i
quali la realtà è così casuale e insensata che da essa non si può ricavare
alcun imperativo etico».

Ma la Chiesa come mette d’accordo i suoi imperativi col libero gioco della
democrazia? Il papa nel suo discorso in parlamento ha detto chiaro come la
pensa: “una democrazia senza valori si converte facilmente in un
totalitarismo aperto oppure subdolo”.

«È vero, perdendo i capisaldi etici si tornerebbe a quella che Giovanni
Sartori ha chiamato “la democrazia degli antichi” e che era puro dominio
della maggioranza, ancora lontana dall’acquisire il concetto moderno e di
matrice cristiana dei diritti inviolabili della persona umana. Senza un’
etica realista, fondata sull’essere della persona, l’uomo è davvero in
pericolo».

Cardinal Ruini, pensa che i cattolici italiani la seguano? Quel che si vede
in tante parrocchie è un cattolicesimo smorto, confuso.

«Ma anche non di rado vitale. Confesso che i segnali che mi arrivano sono
contrastanti, anche da parte di osservatori laici. Certo l’impresa è di
quelle che esigono una conversione, una motivazione forte che sorga dal di
dentro».

Vi sono gruppi e movimenti cattolici che di loro motivazioni esclusive ne
sbandierano fin troppe: Opus Dei, Comunione e liberazione, focolarini,
neocatecumenali…

«È una peculiarità di certi movimenti nati nella seconda metà del secolo
passato. Sono ancora giovani e quindi è naturale che marchino i propri
profili, ma penso che anche i più vivaci stiano maturando e col tempo si
integreranno sempre più nel tessuto della Chiesa. Anzi, molti frutti
positivi già li danno, con la loro spinta all’identità cristiana e alla
missionarietà».

Ma non finiscono per contendersi tra loro sempre gli stessi fedeli?

«In parte è così. Però avviene anche che entrino o ritornino nella Chiesa
persone che ne erano lontane. Oggi la religione è vissuta in modo più
personale e questo rende il quadro più mosso. Da una nostra inchiesta
recente tra i giovani di Roma risulta che a volte basta l’incontro con una
persona credente per generare una scelta di fede. La partita è molto
aperta».

Alla sua impresa di riconquista lei ha dato un nome: “progetto culturale
cristianamente orientato”. Che tradotto vuol dire…

«Incarnare il cristianesimo, senza annacquarlo, nella cultura e nella
società italiane di oggi, per orientarle verso il Dio di Gesù Cristo. Un Dio
che, crediamo, è la salvezza anche della nostra civiltà».

Sono trascorsi sette anni da quando lei ha lanciato questo progetto.
Risultati?

«Dentro la Chiesa, almeno a certi livelli, l’idea è passata. L’assemblea
plenaria di metà novembre dei vescovi italiani ne è la prova: col suo
concentrarsi sulla questione antropologica è stata una tipica assemblea da
progetto culturale. Altro però è dire che l’idea sia passata capillarmente
nell’intero tessuto ecclesiale. Qui no, da questo siamo ancora lontani».

E gli effetti nella società italiana?

«Dicono che ci sia una crescente vivacità della presenza cristiana. Io sarei
più cauto. Parlerei soltanto di modesto rinvigorimento. Anche se alcuni già
lo ritengono eccessivo e se ne preoccupano».

Intende i laici che dicono “s’avanza uno strano cristiano”?

«Questa è la polemica più recente. Ma è un lamento che va avanti a
intermittenza da anni, anche per una certa crisi di identità presente in
quel mondo assai composito che viene denominato pensiero laico».

Ma vi sono anche dei laici con cui lei si trova in sintonia. Che cosa li
rende più buoni?

«Molti laici apprezzano l’eredità culturale cristiana. E così a loro modo
contribuiscono al progetto culturale, pur non essendo credenti».

Dei quadri intermedi della Chiesa italiana, i preti, che dice? Sono all’
altezza della sfida?

«Anche sul piano culturale non pochi sono attenti e impegnati. Ma il
cambiamento si gioca su tempi lunghi e il passaggio decisivo è la formazione
nei seminari. Lì è necessario un riorientamento forte della teologia».

In che direzione?

«Quando ero studente di teologia dominava l’apologetica, la difesa polemica
del cristianesimo. Giustamente si è abbandonata questa strettoia. Però non
si può pensare che alla sfida socioculturale di oggi sia adeguato un
pensiero teologico che si dedichi in modo specialistico ai contenuti della
dottrina oppure si concentri sull’esperienza religiosa. È necessario
raccogliere le domande dei saperi umani d’oggi, soprattutto scientifici, e
ad essi rispondere mostrando le ragioni della fede, la plausibilità del
credere e del vivere da cristiani. Questa “teologia fondamentale”, che in
quanto razionale è proponibile pubblicamente a tutti, deve diventare la base
su cui formare culturalmente le nuove generazioni di preti».

È un suo sogno oppure già qualcosa si muove?

«Tra i teologi noto una crescente attenzione a questi temi fondamentali.
Penso ad esempio a Pierangelo Sequeri, della facoltà teologica di Milano, e
al suo saggio intitolato “Il Dio affidabile”».

Ma oltre ai seminari c’è l’Università Cattolica, c’è il quotidiano
“Avvenire”, c’è la tv satellitare “Sat 2000”. Il progetto culturale passa
anche da qui?

«Sicuramente. Sono strumenti importanti, di esplicita ispirazione cristiana.
Ma non sono tutto. È decisiva anche una presenza cristiana testimoniale,
diffusa sul territorio e nel mondo della cultura, dei media, delle
professioni».

Per decenni i maestri del cattolicesimo intellettuale e politico in Italia,
giù giù fino all’Ulivo, sono stati Emmanuel Mounier, Jacques Maritain e
Giuseppe Dossetti. Lei non li cita mai. Perché?

«Maritain è stato punto di riferimento anche mio, dopo san Tommaso d’Aquino
e assieme a teologi come Karl Rahner, Yves Congar, Hans Urs von Balthasar,
Bernard Lonergan. E a scienziati, sociologi e studiosi della politica anche
non credenti, dai quali ho molto imparato. Ma oggi dobbiamo guardare in
avanti. Siamo a un crinale sul quale anche i più grandi teologi e pensatori
del Novecento non bastano più. I tempi attuali mi ricordano il Duecento, il
secolo dell’aristotelismo e di san Tommaso, dei mercanti e delle libertà
comunali, di san Francesco e del nuovo evangelismo. Le vette più alte della
teologia raggiunte nel massimo del cambiamento socioculturale».

Lei invoca un nuovo Tommaso d’Aquino?

«Impossibile. La cultura attuale è troppo differenziata e articolata.
Invocherei piuttosto una grande sinergia di pensiero creativo, nei diversi
ambiti».

Ma tornando ai maestri del pensiero cattolico, chi oggi consiglierebbe di
rileggere?

«Sicuramente Alexis de Tocqueville, sempre attuale. E Maurice Blondel. E
Romano Guardini. Ma anche Lonergan, di cui ricordo, da allievo, le aperture
al ragionare scientifico».

All’ultima plenaria dei vescovi lei ha citato con ammirazione Karl Löwith,
filosofo e storico, ebreo.

«È un altro di cui raccomando la lettura. Mi ha aiutato a capire la vicenda
storica e culturale del cristianesimo nella Germania dell’Ottocento, tra
Hegel e Nietzsche».

Perché la Chiesa insiste tanto nel rivendicare l’identità cristiana non solo
dell’Italia ma dell’intera Europa?

«Non perché veda dei barbari alle porte. Il timore è da dentro: è che la
cultura naturalistica metta a repentaglio le colonne portanti della nostra
civiltà. In Europa il pericolo è ancor più forte che nel nostro paese».

E l’entrata delle nuove nazioni dell’Est?

«È difficile prevederne gli effetti concreti. Questi popoli portano da un
lato i segni di forti devastazioni anticristiane, dall’altro lato una nuova
vitalità religiosa. In genere non hanno alcun timore di affermare
apertamente il carattere cristiano della civiltà europea. L’oriente è più
libero di noi dal condizionamento illuministico».

Con l’islam vede pericoli seri di uno scontro di civiltà?

«È un rischio possibile che dobbiamo fare di tutto per evitare, proprio
riscoprendo e valorizzando l’identità cristiana dell’Europa. Perché da una
parte tale identità è meno estranea all’islam che non un totale naturalismo.
Ma quello che più conta è che l’identità cristiana è intrinsecamente
orientata all’amore verso il diverso, proprio rimanendo se stessa. Il
cristianesimo è capace di fornire gli impulsi culturali per una futura
società mondiale che sia libera, pacifica, pluralistica. Questa è una sfida
enorme e nuova, mai avvenuta in passato, ma ora ineludibile. E il
cristianesimo ha in sé la forza per affrontarla positivamente».

Per il futuro prossimo si parla di un papa latinoamericano e per quello più
remoto di un papa nero. Per un papa italiano è davvero finita?

«Intanto c’è un papa slavo. Io prego perché Dio ce lo conservi ancora molto
a lungo».

Volesse dire il cuore del pontificato di Giovanni Paolo II…

«L’enorme spinta all’evangelizzazione, anzitutto attraverso la sua
testimonianza personale. E poi, sul piano culturale, l’idea che la
centralità dell’uomo e quella di Dio non sono alternative ma stanno insieme.
E infine, sul piano ecclesiale, il Concilio Vaticano II inteso come apertura
verso il futuro, nella continuità col passato».