Embargo contro i prodotti cinesi dei campi di concentramento

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L’America condanna i Laogai, i lager cinesi


Stop ai prodotti made in China

Venerdì il Parlamento americano ha approvato una risoluzione di condanna del sistema di campi di lavoro forzato cinese, il Laogai. Con una maggioranza schiacciante: 411 voti contro uno. “È la mia prima vittoria”, commenta Harry Wu, il Solgenitzyn cinese, che da anni rivela al mondo le atrocità del Laogai, in cui lui stesso è stato internato per 17 anni. Diventato cittadino… …americano, Harry Wu (recentemente è stato in Italia su invito della Lega), stava battendosi da tempo per far passare la risoluzione ufficiale di condanna al Gulag di Pechino.
Non è stato facile: anche in America è potente la lobby che, in nome dei “buoni affari con la Cina” come grande mercato e (soprattutto) fonte di manodopera a prezzi stracciati, è disposta a chiudere tutt’e due gli occhi sulle atrocità del capital-comunismo cinese. E anche in Usa i parlamentari, di solito, ascoltano le lobby. Stavolta è andata diversamente: Harry Wu ha trovato nel rappresentante Frank Wolf un alleato tenace, che ha saputo convincere i colleghi ad uno ad uno.
Ma la vera battaglia comincia ora. Perché se è vero che la risoluzione anti-Laogai è oggi diventata legge in Usa, restano i forti interessi del business, deciso a ridurla a lettera morta, un soprammobile ornamentale della coscienza civile. Harry Wu invece vuole che la condanna porti a sanzioni economiche concrete: non solo dazi doganali, ma il blocco delle importazioni di merci cinesi fabbricate nei Lager. Solo così, dice, il regime può essere indotto a smantellare il suo arcipelago concentrazionario. E infatti la risoluzione“fa appello al governo degli Stati Uniti perché applichi pienamente le leggi che vietano l’importazione dei prodotti del lavoro forzato”; ma solo nella relazione introduttiva, non nel corpo della legge. Tuttavia, la condanna è esplicita, nero su bianco: “I beni prodotti col lavoro forzato continuano ad essere esportati in Usa e nel mondo”, vi si legge, e “il governo cinese incoraggia positivamente l’export di merci prodotte nel Laogai, che è parte integrale della sua economia”.
È la prima volta che una denuncia così chiara risuona in una sede così alta; nel parlamento della prima democrazia del mondo. Nella migliore tradizione americana, i suoi legislatori hanno avuto il coraggio, nel momento decisivo, di non ascoltare gli interessi del profitto e degli affari, per riconfermare i principii dei diritti umani universali. Pechino non se ne dà per inteso, confidando che la nostra avida meschinità sarà più forte dei principi. Su Internet è apparso persino un sito, “Transplantsinternational.com”, che offre reni da trapianto, reclamizzandoli con queste testuali parole: “Come per lo più in Cina, gli organi vengono da prigionieri, il che ci consente di prevedere con due settimane di anticipo quando i reni saranno disponibili”. L’esecuzione infatti è a data certa. E “i donatori sono selezionati e garantiti esenti da ogni malattia”, perché uccisi in piena salute. L’orribile pubblicità assicura che “i donatori sono consenzienti” perché “le loro famiglie ricevono denaro per gli organi”.
Ora, dopo la risoluzione americana, la nomenklatura rischia, se continua su questa strada. Ma quanto? Il Parlamento Usa vuole intraprendere un’azione congiunta col Parlamento Europeo per strappare all’Onu una “condanna del Laogai e della situazione dei diritti umani in Cina”. Ecco il punto: i legislatori americani hanno fatto la loro nobile parte. Ora tocca all’Europa, ai nostri governi. Basta un atto di volontà per imporre alla Cina, per le sue atrocità, vere sanzioni, fino al suo isolamento economico. L’Europa sarà capace, una volta tanto, di rendersi sorda alle lobbies della delocalizzazione e delle importazioni “competitive”?
di Maurizio Blondet
La Padania [Data pubblicazione: 18/12/2005]

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«Embargo» contro i laogai


Potrebbe essere una rivoluzione oppure potrebbe non succedere granché: ma la risoluzione anti-cinese approvata l’altro ieri dal Congresso statunitense sembra aver espresso tutto quello che George Bush non è riuscito a dire nella sua recente visita a Pechino. Il documento, questa la vera novità, introduce un elemento sostanziale che riguarda l’unica arma che pare poter scalfire la glaciale indifferenza cinese: la ritorsione economica.
Con la strabiliante maggioranza di 411 voti a 1, infatti, è passato un documento elaborato da Frank Wolf e da altri membri del Congresso il quale non solo condanna la Repubblica Popolare Cinese per il sistema di lavoro forzato conosciuto come laogai, ma prospetta che la produzione industriale e manifatturiera operata in questi autentici lager, voce non secondaria dell’economia cinese, sia respinta dagli Usa e da tutto l’Occidente. Assai copiosa, vediamo la risoluzione riassunta per punti:
1) Il Congresso invita la Comunità internazionale a condannare l’intero sistema oppressivo dei laogai; 
2) invita il governo degli Stati Uniti ad applicare interamente la legge che proibisce l’importazione di tutti i prodotti provenienti da lavori forzati riconducibili ai citati campi di concentramento;
3) invita lo stesso governo a rivedere l’esecuzione degli ormai datati memorandum d’intesa con la Cina circa il lavoro nelle prigioni (1992, 1994);
4) s’impegna, in auspicabile accordo col Parlamento europeo, affinché si intraprenda ogni sforzo per giungere a un’analoga risoluzione della Commissione dei diritti umani dell’Onu che possa condannare i laogai e la situazione di diritti umani in Cina;
5) invita il governo cinese a rendere pubbliche le informazioni sui laogai, ora coperte da segreto di Stato, compreso il numero autentico degli insediamenti, dei detenuti e delle produzioni industriali che vi si realizzano in condizioni di schiavitù;
6) lo invita a rendere pubblico il numero di esecuzioni effettuate nei laogai e i dati sugli organi espiantati dai condannati a morte;
7) lo invita a permettere senza restrizioni le visite degli ispettori internazionali dei diritti umani, compresi dunque gli ispettori delle Nazioni Unite che vogliano recarsi in tutti i laogai del Paese;
8) sollecita l’istituzione di una Commissione che possa studiare il sistema di laogai cinese e racconti tutta la verità su di essi. Questo il già emblematico sunto della risoluzione, ma anche la parte introduttiva non è che faccia sconti.
«Il laogai – si legge – è un vasto sistema di lavoro che consiste di una rete di più di mille prigioni e accampamenti e istituzioni psichiatriche a mezzo delle quali i detenuti sono costretti a lavorare in fabbriche, fattorie e miniere e altro ancora; i due   obiettivi principali del laogai sono generare risorse economiche con lavoro gratuito e rieducare dissidenti e criminali con lavoro duro e indottrinamento politico, oltre a sopprimere politicamente gli attivisti pro-democrazia e i dissidenti che operano su internet e i credenti religiosi e spirituali». Da una parte non esistono più i gulag sovietici, spiega il documento, ma ecco che invece i laogai cinesi sono ancora completamente operativi: «Milioni di prigionieri sono minacciati con la tortura quotidiana, cinquanta milioni di persone hanno sofferto nei laogai dalla loro istituzione, più di centomila credenti religiosi sono stati imprigionati in modo illegale, sono stati picchiati, torturati, spesso uccisi, altri sono costretti a lavorare in condizioni terribili».
Non meno gravi, spiega infine la risoluzione, l’espianto di organi effettuato senza autorizzazione della famiglia, ma soprattutto (dato che i più seguitano a ignorare) il fatto che i detenuti in questione non sono mai stati neppure processati o fatti oggetto di un’accusa precisa:  i laogai non sono prigioni comuni, bensì appunto «campi di rieducazione», uno strumento che a totale discrezione del Partito, dunque della Polizia, trasforma la dissidenza in quella che il Congresso statunitense definisce «una parte integrante dell’economia cinese». «Ci sono molti trattati che la Cina ha firmato – spiega Toni Brandi, coordinatore italiano della Laogai Research Foundation – ma che in Cina registrano violazioni di diritto internazionale: tra queste la Carta Costituzionale delle Nazioni Unite,  la Dichiarazione universale dei diritti umani e la Convenzione contro la tortura. Per non parlare delle condizioni di lavoro degli operai». Ogni pezzo di carta firmato dal governo cinese è rimasto lettera morta. Ora, con la minaccia delle prime timide sanzioni economiche, si comprenderà se qualcosa potrà cambiare.


di Filippo Facci
Il Giornale n. 300 del 18-12-2005