Dietro le critiche al «motu proprio» del Papa

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Ecco che cosa si nasconde dietro le critiche al «motu proprio» del Papa

di Gianteo Bordero
Ragionpolitica 2 agosto 2007

C’è chi tenta di interpretare ideologicamente e ideologicamente combattere il motu proprio del Papa sull’uso del messale pre-conciliare per scardinare la linea che Benedetto XVI sta imprimendo al suo pontificato. E’ in atto, da parte degli ideologi della lettura del Vaticano II come rottura col passato e come nuovo inizio della fede cattolica, un’aspra battaglia – velata soltanto dal tono delle argomentazioni e dal rispetto verso la figura del Papa – contro il tentativo ratzingeriano di riportare l’interpretazione del Concilio sui giusti binari, nell’alveo della tradizione bimillenaria della Chiesa. Basta leggere, tra gli altri, i recenti interventi del priore di Bose Enzo Bianchi e di alcuni vescovi italiani per rendersene conto.
Enzo Bianchi, su La Repubblica, si chiede: «Il messale di San Pio V non rischia di essere il portavoce di rivendicazioni di una situazione ecclesiale e sociale che oggi non esiste più? La messa di San Pio V non è per molti una messa identitaria, preferenziale e dunque preferita rispetto a quella celebrata dagli altri fratelli, come se la liturgia di Paolo VI fosse mancante di elementi essenziali alla fede?».

Potremmo rovesciare la domanda: non pensa, il priore di Bose, che anche il messale di Paolo VI sia diventato per molti, in questi decenni, il «portavoce di rivendicazioni di una situazione ecclesiale e sociale che oggi non esiste più», quella degli anni ruggenti del progressismo post-conciliare? Non pensa che anche dietro la messa di Paolo VI si nasconda per tanti una sorta di marchio «identitario», come se la liturgia di San Pio V «fosse mancante di elementi essenziali alla fede»?

La verità è che questa lettura non porta lontano, perché è proprio per arginare questa dicotomia ideologica latente tra due messe e due liturgie che Benedetto XVI ha emanato il motu proprio, precisando che «queste due espressioni della "lex orandi" della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella "lex credendi" della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano».

Analoghe obiezioni si potrebbero sollevare agli interventi di alcuni vescovi italiani, come quello di Alba, monsignor Dho, pubblicato sull’ultimo numero del mensile dei Paolini, Vita Pastorale. Il presule, a conclusione di una analisi «restrittiva» del motu proprio papale, contraria allo spirito di liberalità che Benedetto XVI ha stabilito debba essere adottato nei confronti dei fedeli che chiedono la celebrazione col messale antico, scrive a chiare lettere che «è difficile non temere, a ragione, che una prassi del genere (la facoltà data direttamente ai parroci di concedere la licenza di usare il rituale più antico nell’amministrazione dei sacramenti, ndr) rischi di provocare di fatto una specie di Chiesa parallela, difficilmente componibile con la comunità parrocchiale intera».

Come dire: il motu proprio «legalizzerebbe» di fatto la presenza, all’interno della stessa Chiesa, di due Chiese, una pre-conciliare e l’altra post-conciliare, ognuna con le sue regole e i suoi riti; due Chiese contrapposte e non comunicanti fra loro. Dove – va da sé – la vera Chiesa sarebbe quella post-conciliare e la vera messa sarebbe quella nata a seguito della riforma di Paolo VI.

Anche questo modo di ragionare, sotteso alle parole di monsignor Dho, lascia il tempo che trova. Perché, in realtà, Benedetto XVI, emandando il documento sulla liturgia, lungi dal voler alimentare divisioni, ha cercato di porre fine proprio alla retorica delle «due Chiese». Così facendo, tra l’altro, ha dato seguito alle sue affermazioni degli scorsi anni, espresse in numerosi libri, conferenze e articoli. «Bisogna decisamente opporsi – affermava ad esempio l’allora cardinale Ratzinger nel libro-intervista con Vittorio Messori, Rapporto sulla fede – a questo schematismo di un prima e di un dopo nella storia della Chiesa, del tutto ingiustificato dagli stessi documenti del Vaticano II che non fanno che riaffermare la continuità del cattolicesimo. Non c’è una Chiesa "pre" o "post" conciliare». E aggiungeva: «C’è una sola e unica Chiesa che cammina verso il Signore, approfondendo sempre di più e capendo sempre meglio il bagaglio di fede che Cristo stesso le ha affidato. In questa storia non ci sono salti, non ci sono fratture, non c’è soluzione di continuità».

Se, dunque, in questo superamento della retorica delle «due Chiese» sta emergendo l’impronta più profonda con cui Benedetto XVI sta caratterizzando il suo pontificato, appare chiaro che i rappresentanti del progressismo cattolico (nelle sue varie sfumature), attaccando il motu proprio, attaccano in realtà l’essenza stessa del papato ratzingeriano. Da qui al 14 settembre – giorno in cui entrerà in vigore l’atto pontificio – è probabile che assisteremo al moltiplicarsi delle critiche e delle voci contrarie. Sarà, questa, una implicita conferma della portata epocale del motu proprio «Summorum pontificum».

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