(CorSera) Un vero esempio di inculturazione della fede

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La crociata di Suor Maria in Kenya contro le mutilazioni delle ragazze


Goffredo Buccini

MULOT (Kenya) – Sotto il tetto di lamiera azzurrina della casa pastorale, Elisabeth Kones si fa due conti e sospira: «Quanti anni ho? Vediamo, uhm… sono stata circoncisa nel 1961, quindi dovevo avere circa quattordici anni, allora. Ma non ne sono tanto sicura, i miei non mi hanno mai detto quando sono nata, non ne erano sicuri neanche loro, mi sa». Poi alza la testa con orgoglio, gli incisivi sgarrupati s’atteggiano a un sorriso: «Io però lo so quando sono nate le mie figlie: eccole lì, le vedi? E non sono circoncise, no: sono state le prime a entrare nel gruppo di sister Maria».
«Sister Maria», ovvero suor Maria de Los Angeles Vasquez, se ne sta un po’ sullo sfondo, coccolandosi con lo sguardo le sue «mamas» – Elisabeth e le altre donne del villaggio di Mulot che per prime l’hanno presa sul serio – e le loro ragazze ormai grandi, che per prime hanno evitato il rito di passaggio dei Kipsighis all’età adulta: il «Tumdo», la mutilazione degli organi genitali che qui fa di un’adolescente una donna rispettabile e da marito.


Ci ha pensato un bel po’ di anni, sister Maria, vivendo coi Kipsighis, spaccandosi la testa sulle tradizioni della tribù, e alla fine: «Beh, non è stata un’illuminazione, piuttosto un processo lento: ho capito che avevano bisogno di qualcosa per rimpiazzare il cerimoniale del Tumdo. E mi sono detta: perché non la Cresima?». Lo «scambio», alla fine, ha funzionato: dal 1995 a oggi, sono almeno 300 le ragazze del «gruppo» scampate alla capanna dove le aspettava la «chemosiot», un’anziana del villaggio a metà strada tra mammana e fattucchiera, con una manciata di erbe per stordirle e un coltellaccio, «sempre lo stesso, Aids o non Aids», per tagliarle. «Subito dopo la circoncisione, la famiglia le dava a un marito, spesso uno sconosciuto che portava però in pegno un bel po’ di vacche. Le mie ragazze, invece, hanno continuato a studiare. E il marito se lo scelgono loro, se e quando vogliono», spiega sister Maria.


Viene da una provincia contadina del Messico meridionale, Oaxaca, questa piccola missionaria quarantenne che ha rivoluzionato la vita alle tribù Kalenjin (i Kipsighis sono una di esse) del distretto keniota di Narok, quattro ore di fango e buche da Nairobi, nella Rift Valley. Buona parte della popolazione è convertita al cattolicesimo, ma le tradizioni hanno continuato a sopravvivere, in un groviglio di paganesimo cristianizzato. Sister Maria s’è infilata in queste contraddizioni con il pragmatismo che solo la gente dei campi può avere. Qualche anima bella salterà senz’altro su a disquisire di colonialismo culturale e di evangelizzazione coatta, lei lo sa. E scuote la testa: «Guardi che noi non forziamo proprio nessuno. Alle ragazze abbiamo posto dall’inizio una domanda semplice: diteci cosa volete e come possiamo aiutarvi. Beh, loro non volevano essere circoncise e tuttavia volevano essere rispettate come lo sono qui le donne circoncise: per questo occorreva un rito. Noi le accettiamo solo con l’accordo dei genitori, tutta la cerimonia della Cresima è basata sulle loro tradizioni, abbiamo sostituito con il velo la pelle di mucca con cui le ragazze si coprono prima del Tumdo. E poi, insomma, l’importante è evitare la mutilazione. O no?».
Da lontano i tetti azzurri della chiesa, della casa pastorale, della scuola e del refettorio spiccano contro il verde della collina di Mulot. Ci accompagna alla missione Leo Capobianco, responsabile per il Kenya dell’Avsi, l’associazione di volontari cattolici che – con le adozioni a distanza – sostiene la piccola impresa della suora messicana. Sister Maria porta un grembiule a scacchi sopra la veste delle Sorelle Missionarie del Catechismo.


Sprizza energia, ancora adesso: quando arrivò nell’88 doveva apparire incontenibile perfino ai vecchi della collina, «la parte più conservatrice della tribù». Ricorda: «Era luglio. Vedevo tanti giovani attivi nella parrocchia ed ero felice. Poi, di colpo, a novembre, la chiesa si è svuotata. A sparire erano quasi tutte ragazze. Ho cominciato a chiedere alle anziane, qualcuna rideva, qualcuna scappava. Finché ho fermato una vecchia, sapevo che era una buona cristiana, mi ha detto la verità: le ragazze erano recluse perché stavano preparandosi al Tumdo, la circoncisione. Mi ha detto: sei straniera, capirai col tempo».


«A gennaio la chiesa ha ricominciato a riempirsi, ma molte ragazze di prima non sono tornate. Ho chiesto di nuovo: “Dopo il Tumdo le danno subito a un marito, non importa se è vecchio o giovane, o se ha altre mogli, purché porti le vacche in cambio”, mi hanno detto. Ho chiesto: e sono felici? “No – mi hanno detto – ma chi può farci niente?”. È stato allora che ho capito che non avevo capito».
Cioè? «Cioè, se volevo aiutare questa gente, dovevo essere più vicina a loro. Tutto l’anno successivo l’ho passato a visitare case, capanne, famiglie, a farmi spiegare le cose. Sono riuscita ad andare in una capanna dove fanno la circoncisione, le ragazze erano coperte di fango colorato, ballavano tutta la notte prima del rito. Se non sopportano in silenzio il taglio, se gridano per il dolore, la vergogna ricade sulla famiglia. Da una finestra ho visto Mary, una delle ragazze sparite dalla parrocchia, l’ho chiamata, mi ha detto “non chiamarmi più, sister”. Ho pianto molto. Poi ho cominciato a parlare».


Suor Maria parla e parla, «di valori umani e valori cristiani» con le ragazze. E con i genitori: «Date una scelta alle vostre figlie». «Una  madre mi ha detto: “Fatti dei figli tuoi se vuoi fare quello che ti pare coi ragazzi”. Ma molte altre erano d’accordo con me. Ricordavano il loro Tumdo ed erano felici di evitarlo alle figlie. Però, mi dicevano: “Come faranno a diventare donne mature per il villaggio? A non essere più bambine?”. È stato un lungo processo, siamo cresciute insieme, noi e loro».
Il 16 dicembre 1995, il primo gruppo di venticinque ragazze entra in ritiro per due settimane e si prepara alla Cresima. Scortate dai genitori, poi passano il rito dello «cherset», la sfida, in cui gli anziani incoraggiano i giovani a non tornare indietro: solo che stavolta in fondo al percorso non c’è la «chemosiot» col suo coltello. Alla cerimonia del primo gennaio, anche i non cristiani vengono a vedere «quel primo gruppo di ragazze accettate come donne mature nella Chiesa». La voce si sparge. Da allora ogni anno, a gennaio, il rito si ripete, «quest’anno siamo arrivate al nono gruppo». I vecchi sulla collina dicono che tante novità faranno saltare i matrimoni combinati, dunque niente più vacche per dote: «E sarà un guaio economico per le famiglie». Forse. Però Cristina s’è scelta da sola il fidanzato e gli ha detto: «O mi accetti non circoncisa o ti arrangi». Jane Mary, 24 anni, vuole diventare «una donna d’affari»: «Ma mica scappando chissà dove, no, no, io voglio vivere qui». E la «chemosiot» del villaggio comincia ad avere, vivaddio, anche un po’ di tempo libero.


Corriere della sera 03.03.04