(CorSera) Torna la speranza in Libano

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Il generale Aoun: «Non ci fidiamo, è solo l’inizio»


Parla l’ex premier maronita costretto a fuggire in Francia, che ora si prepara a tornare in patria



DAL NOSTRO INVIATO
 
PARIGI – Forte di pochi uomini e di un fazzoletto di terra a Beirut Est, il 14 marzo 1989 il legittimo premier libanese Michel Aoun dichiarò guerra alla Siria. «Se perdiamo, almeno avremo dato ai nostri figli il diritto di reclamare indietro il loro Paese». Aoun perse, fu salvato dall’ambasciata di Francia e dall’amico Mitterrand. Da allora vive in esilio a Parigi. Oggi, quasi settantenne, nel soggiorno dell’appartamento sul parco Monceau, davanti alle immagini dei figli del Libano in piazza a «reclamare indietro il loro Paese», il generale cristiano-maronita Aoun pronuncia le parole sognate per 15 anni: «Siamo finalmente riusciti a fare cadere il governo fantoccio siriano. Questo è solo l’inizio: dopo Bagdad e Beirut toccherà a Damasco, il processo democratico che si è messo in moto non si arresterà. Il Libano sta tornando a essere un modello, e adesso potrebbe succedere in Medio Oriente quello che l’Europa ha vissuto nel 1989. Allora, quando io cercai di fare prevalere laicità e democrazia su terrorismo e tirannia, la regione non era ancora pronta. Abbiamo perso quindici anni, ma stavolta ce la possiamo fare».
Il presidente Bashar Assad, in un’intervista a Time , dice che la Siria si ritirerà entro qualche mese.
«Le autorità siriane hanno perso ogni credibilità, continuano a promettere un ritiro mai avvenuto. La nostra lotta continua esattamente come se questa dichiarazione non fosse stata pronunciata».
Per lei, generale Aoun, è il momento di tornare in Libano alla guida del suo «Courant national libre»?
«Finora non pensavo di candidarmi personalmente alle elezioni di maggio. Potrei farlo in caso eccezionale, se mi venisse chiesto. Ho l’appoggio popolare più vasto».
A Beirut i manifestanti esibivano il suo ritratto.
«Solo il primo giorno, dopo l’assassinio dell’ex premier Hariri. Poi ho chiesto che tutte le insegne di partito scomparissero per fare posto alla bandiera libanese. Io lavoro per l’unità di tutto il movimento, non dobbiamo ripetere l’eterno errore di dividerci in fazioni».
Potrebbe formare lei stesso un nuovo governo?
«Per ora è impossibile, la nostra politica è diametralmente opposta a quella del presidente Emile Lahoud. Noi lavoriamo per la partenza, totale e immediata, dei soldati siriani».
Qual è stato il suo ruolo in questi anni?
«Convincere la comunità internazionale a cambiare atteggiamento verso la Siria, il vero Stato terrorista. Assieme alla comunità libanese in America ho fatto lavoro di lobby finché nel dicembre 2003 il Congresso ha approvato il “Syrian accountability act”: una legge che ha costretto l’amministrazione Bush a pretendere finalmente il ritiro dal Libano, e che è alla base della risoluzione 1559 dell’Onu».
Accusa sempre gli Usa di avere ceduto il Libano alla Siria in cambio dell’appoggio contro l’Iraq, nella prima guerra del Golfo?
«E’ stata una macchia nella storia dell’umanità. Nella stessa congiuntura regionale e internazionale un Paese – il Libano – è stato occupato mentre un altro – l’Iraq – veniva sconfitto dalle stesse potenze. Gli Stati Uniti ora ci appoggiano, grazie a Dio».
Nella guerra contro la Siria lei era sostenuto da Saddam.
«L’Iraq mi fornì munizioni ma non influì in alcun modo sulla mia politica. Era una guerra di liberazione, avevamo bisogno di armi».
Israele è un suo alleato?
«Non abbiamo alcun rapporto con Israele, il clima politico in Libano non ce lo permette. Tutto dipende dalla Siria. Il presidente Bashar Assad proclama di cercare un accordo con Israele? Si accomodi, cominci lui, così nessuno dirà che vogliamo minacciare Damasco. Il Libano vuole solo pace».
L’altro leader del movimento popolare, il druso Walid Jumblatt, ha detto al Corriere di sentirsi il prossimo nella lista degli attentati.
«La lotta indipendentista di Jumblatt è molto recente, non so quanto rischi davvero e quanto reggerà nelle sue nuove convinzioni. Comunque, per adesso, abbiamo buoni rapporti».
Lei ha paura?
«Vivo da anni sotto scorta, protetto dalla polizia e dalle guardie del corpo. I siriani hanno cercato di uccidermi tre volte. Porto il rischio con me come porto questo maglione, ormai ci sono abituato. Ma da Beirut dimostrerò che tirannia e integralismo appartengono al passato».


Stefano Montefiori


CorSera 2-3-2005