(CorSera) Il corpo di Bernadette in attesa della resurrezione

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L’enigma di Bernadette dimenticata dai pellegrini


“Corriere della Sera”, 14/3/2003

Vittorio Messori

Con un congresso a Rimini, sono iniziate la settimana scorsa le celebrazioni
per i cento anni dell’Unitalsi. Sigla dal suono un po’ burocratico che
nasconde, in realtà, l’impegno generoso di trecentomila persone, presenti in
ogni diocesi, per portare malati e sani soprattutto a Lourdes, ma pure negli
altri luoghi sacri del cattolicesimo. Gli inizi, nel 1903, si devono a un
anticlericale romano, Giambattista Tommasi, che voleva suicidarsi nella
grotta stessa di Massabielle, anche per protestare contro «l’oscurantista
superstizione cattolica». In realtà, non soltanto la pistola gli cadde dalle
mani ma, convertito di colpo, dedicò il resto della sua vita ad aiutare
infermi poveri a raggiungere le sponde del fiume Gave. Anche a questa Unione
Nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e Santuari Internazionali
(oltre che alla consorella più giovane ma altrettanto attiva, l’Oftal, Opera
Federativa Trasporto Ammalati a Lourdes) si devono le statistiche che
inquietano un poco l’orgoglio transalpino.

I pellegrini italiani, cioè, sono spesso, nella cittadina pirenaica, più
numerosi di quelli francesi. Chi conosce Lourdes sa che tutti, lì, s’
ingegnano a parlare un po’ d’italiano, i quotidiani della Penisola sono in
edicola sin dal primo mattino, nei bar si serve solo caffè espresso, negli
alberghi la pasta è impeccabilmente al dente. E proprio alla generosità
degli aderenti all’Unitalsi, all’Oftal e, in genere, degli italiani, si
devono grandi strutture di accoglienza che uniscono l’efficienza al calore
affettuoso dell’assistenza. Tra le poche parole della bianca Signora ci sono
quelle del 2 marzo 1858: «Desidero che si venga qui in processione ». A
parte la Francia, in nessun altro Paese come l’Italia quell’esortazione è
stata presa tanto sul serio: e l’afflusso non accenna a diminuire; anzi,
cresce di anno in anno.

Qualcuno, però, alla recente assemblea di Rimini faceva notare che, se i
pellegrini a Lourdes hanno superato i cinque milioni all’anno, sono soltanto
mezzo milione – uno su dieci – quelli che visitano anche Nevers. Molti, da
tempo, chiedono maggior impegno alle Associazioni perché vengano
incrementati gli arrivi in questa città sulla Loira, quasi a metà strada tra
Lione e Parigi. Legata anch’essa all’Italia (ne furono duchi i Gonzaga di
Mantova), Nevers ha in serbo per i devoti della Immacolata una sorpresa
emozionante. Noi stessi abbiamo visto pellegrini scoppiare di colpo in
singhiozzi a una vista imprevista e sconvolgente.

Entrati nel cortile del convento di Saint Gildard, Casa madre delle «Suore
della Carità», si accede alla chiesa attraverso una porticina laterale. La
semioscurità, perenne in questa architettura neogotica dell’Ottocento, è
rotta dalle luci che illuminano una artistica cassa funeraria in vetro. Il
piccolo corpo (un metro e quarantadue centimetri) di una religiosa sembra
dormire con le mani giunte attorno a un rosario e il capo reclinato sulla
sinistra. Sono le spoglie, intatte a 124 anni dalla morte, di santa
Bernadette Soubirous, colei sulle cui misere spalle di malata cronica poggia
il peso del più frequentato santuario del mondo. Lei sola, infatti, vide,
ascoltò, riferì il poco che le disse: Aquerò («Quella là», in dialetto della
Bigorre), testimoniando con la sua sofferenza ininterrotta la verità di
quanto le era stato annunciato: «Non vi prometto di essere felice in questa
vita ma nell’altra». Al noviziato di Nevers, Bernadette giunse nel 1866.
Senza mai muoversi, («Sono venuta qui per nascondermi», disse arrivando) vi
trascorse 13 anni, fino alla morte, il 16 aprile 1879. Non aveva che 35
anni, ma il suo organismo era consumato da una serie impressionante di
patologie, alle quali si erano aggiunte le sofferenze morali. Quando la sua
bara fu calata nel caveau, scavato nella terra, di una cappella nel giardino
del convento, tutto lasciava supporre che quel minuscolo corpo mangiato
anche da cancrene si sarebbe presto dissolto. In realtà, proprio quel corpo
è giunto intatto sino a noi, anche negli organi interni, sfidando ogni legge
fisica.

Uno storico e scienziato gesuita, il padre André Ravier, ha pubblicato di
recente i resoconti completi delle tre riesumazioni, basandosi su una
documentazione inattaccabile. In effetti, nella Francia anticlericale tra
Otto e Novecento, a ogni apertura del sepolcro assistettero, sospettosi,
medici, magistrati, funzionari della polizia e del Comune. I loro rapporti
ufficiali sono stati tutti conservati dalla pignola amministrazione
francese.

La prima riesumazione, per l’inizio del processo di beatificazione, avvenne
nel 1909, trent’anni dopo la morte. All’apertura della cassa, alcune anziane
suore, che avevano visto Bernadette sul letto di morte, svennero e dovettero
essere soccorse: ai loro occhi la consorella apparve non soltanto intatta,
ma come trasfigurata dalla morte, senza più i segni della sofferenza sul
volto. Il rapporto dei due medici è categorico: l’umidità era tale da avere
distrutto gli abiti e persino il rosario, ma il corpo della religiosa non
era stato intaccato, tanto che anche denti, unghie, capelli erano tutti al
loro posto e pelle e muscoli si rivelavano elastici al tatto. «La cosa –
scrissero i sanitari, confermati dai rapporti dei magistrati e dei gendarmi
presenti – non appare naturale, visto anche che altri cadaveri, sepolti
nello stesso luogo, si sono dissolti e che l’organismo di Bernadette,
flessibile ed elastico, non ha subito nemmeno una mummificazione che ne
spieghi la conservazione».

La seconda riesumazione avvenne dieci anni dopo, nel 1919. I due medici,
stavolta, erano famosi primari e ciascuno, dopo la ricognizione, fu isolato
in una stanza perché scrivesse il suo rapporto senza consultarsi con il
collega. La situazione, scrissero entrambi, era rimasta la stessa della
volta precedente: nessun segno di dissoluzione, nessun odore sgradevole. La
sola differenza era un certo scurimento della pelle, dovuto probabilmente al
lavaggio del cadavere, dieci anni prima.

La terza e ultima ricognizione fu nel 1925, alla vigilia della
beatificazione. A quarantasei anni dalla morte – e alla consueta presenza
delle autorità non solo religiose, ma anche sanitarie e civili – sul
cadavere, ancora intatto, si poté procedere senza difficoltà all’autopsia. I
due luminari che la praticarono pubblicarono poi una relazione su una
rivista scientifica, dove segnalarono all’attenzione dei colleghi il fatto
(che giudicavano «più che mai inspiegabile») della conservazione perfetta
anche degli organi interni, compreso il fegato, destinato più di ogni altra
parte corporea a una rapida decomposizione. Vista la situazione, si decise
di mantenere accessibile alla vista quel corpo che appariva non di una
morta, ma di una dormiente in attesa del risveglio. Sul viso e sulle mani fu
applicata una leggera maschera, ma solo perché si temeva che i visitatori
fossero colpiti dalla pelle scurita e dagli occhi, intatti sotto le
palpebre, però un po’ infossati. E’ certo, comunque, che sotto quella sorta
di maquillage e sotto quell’abito antico delle «Suore della carità», c’è
davvero la Bernadette morta nel 1879, fissata misteriosamente, e per sempre,
in una bellezza che il tempo non le ha tolto ma restituito.

Qualche anno fa, per un documentario per Rai Tre, mi fu concesso di far
girare di notte, per non disturbare i pellegrini, delle immagini ravvicinate
mai permesse prima. Una suora aperse il vetro della cassa, capolavoro di
oreficeria. Esitante, toccai con un dito una delle piccole braccia della
minuscola Santa. La sensazione immediata di elasticità e di freschezza di
quella carne, morta per il «mondo» da più di 120 anni, resta per me tra le
emozioni incancellabili. Davvero, non sembrano avere torto, tra Unitalsi e
Oftal, a voler richiamare l’attenzione sull’enigma di Nevers, spesso
ignorato dalle folle che convergono sui Pirenei.