(Civiltà Cattolica) Esposizione della Summorum Pontificum

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LA LITURGIA NEL SOLCO DELLA TRADIZIONE

© La Civiltà Cattolica 2007 III 455-460 quaderno 3774 Il 7 luglio 2007 è già passato alla storia quale data da cui non potrà prescindere né lo studioso dei riti che si occupa del cammino della riforma liturgica, né il pastore o il semplice fedele che si preoccupano della verità della celebrazione. Con un nuovo documento «sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma effettuata nel 1970», reso pubblico in quella data, Benedetto XVI ha posto fine alle notizie che, seppure incerte, circolavano da tempo e che disponevano gli uni a «un’accettazione gioiosa», gli altri a «un’opposizione dura». È lo stesso Pontefice a non far mistero di questi contrapposti sentimenti nei confronti di «un progetto il cui contenuto in realtà non era conosciuto». Adesso che lo conosciamo, lo vogliamo accogliere «con animo grato e fiducioso», certi che lo spirito della liturgia da tutti ricercato riuscirà a comporre in unità di vedute posizioni per il momento ancora distanti.

Prima di esaminare il contenuto del documento che Papa Benedetto presenta quale «frutto di lunghe riflessioni, di molteplici consultazioni e di preghiera», al fine di inquadrarlo nella sua giusta luce, sarà bene dare uno sguardo alla lettera accompagnatoria, dalla quale già abbiamo stralciato le espressioni citate. In essa il Vescovo di Roma, parlando — per così dire — col cuore in mano ai «fratelli nell’episcopato», esamina i due timori che si opponevano più direttamente alla pubblicazione del documento e ad ognuno di questi dà una circostanziata risposta. Il primo timore è «che qui venga intaccata l’autorità del Concilio Vaticano II e che una delle sue decisioni essenziali — la riforma liturgica — venga messa in dubbio». A conferma dell’infondatezza di tale timore il Pontefice opera una distinzione importante, affermando che il Messale di Paolo VI «è e rimane la forma normale — la forma ordinaria — della liturgia eucaristica», mentre invece «l’ultima stesura del Missale Romanum, anteriore al Concilio, che è stata pubblicata con l’autorità di Papa Giovanni XXIII nel 1962 e utilizzata durante il Concilio, potrà, invece, essere usata come forma straordinaria della celebrazione liturgica». Quindi il Pontefice si sofferma sui meriti del Messale del 1962. Precisa che «questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso». Ricorda che non pochi sono rimasti «fortemente legati a questo uso del rito romano che, fin dall’infanzia, era per loro diventato familiare», soprattutto «nei Paesi in cui il movimento liturgico aveva donato a molte persone una cospicua formazione liturgica». Tra costoro menziona in particolare coloro che, pur accettando il Vaticano II, «desideravano tuttavia anche ritrovare la forma, a loro cara, della sacra liturgia». Riconosce che in costoro «la fedeltà al Messale antico» si è configurata spesso come una comprensibile reazione «a deformazioni della liturgia al limite del sopportabile». Dopo aver evocato le «deformazioni arbitrarie della liturgia» che purtroppo ci sono state, Benedetto XVI illustra l’opera del suo predecessore Giovanni Paolo II, che intervenne in due riprese. Anzitutto, già nel 1984 egli offrì ai vescovi diocesani, tramite la lettera Quattuor abhinc annos della Congregazione per il Culto Divino (cfr AAS 76 [1984] 1.088 s), la possibilità di concedere a quei sacerdoti che ne avessero fatto richiesta un indulto in favore del Messale del 1962. Quindi (cfr ivi, 80 [1988] 1.495-1.498) istituì con il motuproprio Ecclesia Dei adflicta del 2 luglio 1988 un’apposita Commissione, composta da un cardinale presidente e da altri membri della Curia romana, con lo scopo di facilitare la piena comunione di tutti coloro che si sentivano legati al Messale del 1962. Il motu proprio Summorum Pontificum si propone dunque di aggiornare e regolamentare quanto era stato avviato dai due provvedimenti anteriori, fra l’altro anche per «liberare i vescovi dal dover sempre di nuovo valutare come sia da rispondere alle diverse situazioni». Il secondo timore era «che una più ampia possibilità dell’uso del Messale del 1962 avrebbe portato a disordini o addirittura a spaccature nelle comunità parrocchiali». Ma si tratta di un timore non realmente fondato. Infatti le condizioni presupposte per il suo utilizzo, vale a dire «una certa misura di formazione liturgica e un accesso alla lingua latina», fanno sì che il numero dei fedeli che faranno ricorso al Messale antico resti pur sempre esiguo rispetto a quanti continueranno a utilizzare il nuovo Messale. Dopo aver rassicurato i destinatari della lettera, cioè i vescovi, circa l’infondatezza dei due timori, Benedetto XVI accenna a un possibile e vicendevole arricchimento tra «le due forme dell’uso del rito romano», in quanto l’una non potrà prescindere dall’altra. Se il Messale antico potrà e dovrà recepire dal nuovo, oltre all’inserimento dei nuovi santi e di alcuni nuovi prefazi, opportuni stimoli per una necessaria messa a punto delle «possibilità pratiche», cioè dell’assetto rubricale, d’altra parte nell’utilizzo del nuovo Messale «potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso». Nel concludere la lettera accompagnatoria, il Pontefice precisa che la ragione positiva che lo «ha motivato ad aggiornare mediante questo motuproprio quello del 1988» è il desiderio di «giungere a una riconciliazione interna nel seno della Chiesa». Citando un testo paolino e facendo sua la franchezza con cui l’Apostolo contrappone al suo «cuore aperto» i «cuori stretti» dei corinzi (cfr 2 Cor 6,11-13), il Papa invita tutti ad aprire generosamente il cuore, per lasciar entrare, insieme alla convinzione che anche la liturgia cresce e progredisce, quella percezione del sacro dalla quale la liturgia stessa non può prescindere. Il messaggio è chiaro: se gli uni «non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi», gli altri devono preoccuparsi di «conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto». Consapevole delle conseguenze liturgico-pastorali che potrà avere questo suo personale intervento, il Pontefice così si rivolge ai vescovi: «In conclusione, cari confratelli, mi sta a cuore sottolineare che queste nuove norme non diminuiscono in nessun modo la vostra autorità e responsabilità, né sulla liturgia né sulla pastorale dei vostri fedeli […]. Inoltre, vi invito […] a scrivere alla Santa Sede un resoconto sulle vostre esperienze, tre anni dopo l’entrata in vigore di questo motuproprio. Se veramente fossero venute alla luce serie difficoltà, potranno essere cercate vie per trovare rimedio».

Mentre la lettera accompagnatoria, grazie allo stile piano e trasparente con cui il Pontefice comunica le sue preoccupazioni di pastore supremo, favorisce una comprensione immediata, la parte giuridica del documento vero e proprio invece richiede un’analisi attenta del testo che dovrà essere letto «prouti iacet», e possibilmente nell’originale latino. La prima parte del documento prende le mosse dal noto assioma patristico che regola il rapporto tra lex orandi e lex credendi. Letto nel contesto originario e nella formulazione peraltro sospesa dell’argomentazione di Prospero di Aquitania († 455) in favore della necessità della grazia, così suona l’assioma: «[…] affinché la normativa della preghiera determini la normativa della fede ([…] ut legem credendi lex statuat supplicandi)» (Denz.-Schönm. 246). Si può tuttavia notare che nel motuproprio, sulla base di una citazione tratta dalla Institutio generalis Missalis Romani e proveniente a sua volta dall’istruzione Varietates legitimæ (cfr AAS 87 [1995] 298 s) l’assioma è invertito. Vi leggiamo: «Da tempo immemorabile, come pure per l’avvenire, si deve osservare il principio “per cui ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa universale non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni sacramentali, ma anche quanto agli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica, che devono essere osservati non solo per evitare errori, ma anche per trasmettere l’integrità della fede, perché la lex orandi della Chiesa corrisponde (respondet) alla sua lex credendi”» (Missale Romanum 20023, Institutio generalis, n. 397). Il rovesciamento qui operato è senz’altro legittimo, sia perché già lo si incontra nell’enciclica Mediator Dei di Pio XII (cfr AAS 39 [1947] 541), sia perché tra le due leges che presiedono al depositum fidei c’è sincronia e sintonia perfetta, né potrebbe l’una contrapporsi all’altra. Nel documento, il Pontefice prosegue menzionando alcuni suoi Predecessori, particolarmente legati alla storia e agli sviluppi del Messale romano: san Gregorio Magno († 604), che si prodigò per arricchire la liturgia; san Pio V († 1572), che promosse l’edizione dei libri liturgici e principalmente del Messale emendato ad normam Patrum; Clemente VIII († 1605) e Urbano VIII († 1644), che ne curarono importanti revisioni; san Pio X († 1914), che tanto si impegnò per ripulire l’edificio liturgico «dallo squallore dell’invecchiamento» (AAS 5 [1913] 449 s); Benedetto XV († 1922), che pubblicò l’edizione rivista dal suo Predecessore; Pio XII († 1958), che volle il rinnovamento della veglia pasquale e della Settimana santa; il beato Giovanni XXIII († 1963), che ebbe il privilegio di aggiornare l’ultima edizione del Messale tridentino; Paolo VI († 1978), che seguì personalmente la riforma del Messale, nonché degli altri libri liturgici voluta dal Concilio; e infine Giovanni Paolo II († 2005), che ha legato il suo nome alla terza edizione tipica del Messale conciliare.

Dopo questa carrellata di Pontefici benemeriti e dopo un breve cenno ai problemi sollevati da parte di «non pochi fedeli» rimasti affezionati all’antico Messale e il ricordo degli interventi del suo immediato Predecessore in loro favore, Benedetto XVI affida la nuova normativa a una sequenza di dodici articoli. Li possiamo riassumere in maniera discorsiva nel modo seguente. Esistono due soli usi del rito romano: la «forma ordinaria (ordinaria expressio)» con il Messale del 19701-20023 e la «forma straordinaria (extraordinaria expressio)» con il Messale del 1962 (art. 1). Nelle Messe senza concorso di popolo, ogni sacerdote di rito latino può usare liberamente il Messale del 1962 (art. 2). La precisazione «il sacerdote non ha bisogno di nessun permesso, né della Sede Apostolica né del suo ordinario» esprime un reale mutamento rispetto alla normativa in vigore dal 1984. Allora si trattava di un «indulto», cioè di una concessione fatta — a titolo di deroga «indulgente» alla norma — dal vescovo diocesano a singoli sacerdoti e ai rispettivi fedeli, previa ammissione della legittimità ed esattezza dottrinale del Messale di Paolo VI. Ciò che prima era concessione, adesso è norma. L’uso del Messale del 1962 non è però consentito «nel Triduo sacro», perché in quei giorni la liturgia, da celebrarsi «*** fidelium frequentia» (Missale Romanum 20023, p. 298, sub 3), deve restare unica in una medesima chiesa. A queste celebrazioni possono essere ammessi anche quei fedeli che spontaneamente lo chiedono (art. 4). Con lo stesso Messale possono celebrare la Messa conventuale o «di comunità» tutte le comunità degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica (art. 3). Nelle parrocchie in cui esiste «stabilmente (continenter)» un gruppo di fedeli affezionati alla precedente tradizione liturgica, il parroco è pregato di concedere volentieri ai sacerdoti «idonei» l’uso del Messale del 1962, però limitatamente a una sola celebrazione nelle domeniche e nelle feste; nessuna limitazione è invece espressa per le celebrazioni nei giorni feriali, come pure nel caso di matrimoni, esequie o pellegrinaggi (art. 5). La precisazione espressa dall’avverbio «continenter» esclude che la richiesta del «ritus antiquior» possa essere determinata da curiosità per il diverso, da ricerca di folklore religioso e — come si legge nella lettera accompagnatoria — da «aspetti sociali indebitamente vincolati all’attitudine dei fedeli». Invece la clausola «idonei esse debent» implica che i sacerdoti, oltre a conoscere bene il latino, dovranno avere un’adeguata familiarità con il «Ritus servandus in celebratione Missae» e analogamente con i rituali degli altri sacramenti. Allorché si usa il Messale del 1962 nelle Messe con concorso di popolo, le letture possono essere fatte nella lingua vernacola, utilizzando i lezionari approvati (art. 6). I fedeli che, pur avendo chiesto al parroco l’uso del Messale del 1962, non lo avranno ottenuto, possono ricorrere al vescovo diocesano, che è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio; qualora poi non fosse in grado di esaudirlo, dovrà informarne la Commissione Pontificia Ecclesia Dei e attendere da questa consiglio e aiuto (art. 7-8). In vista del bene delle anime, è lasciata: a) alla discrezione del parroco la possibilità di utilizzare il rituale più antico per il Battesimo, la Penitenza, il Matrimonio e l’Unzione degli infermi; b) alla discrezione del vescovo la scelta dell’antico Pontificale romano per la Confermazione; c) alla discrezione dei chierici ordinati la possibilità di usare il Breviario romano del 1962 (art. 9). Dal fatto che nulla viene detto per il sacramento dell’Ordine si deve dedurre che l’unico rituale per le ordinazioni resta quello della riforma liturgica. In vista del bene dei fedeli affezionati al Messale del 1962, l’ordinario diocesano potrà erigere una parrocchia personale (art. 10). Infine, la Pontificia Commissione Ecclesia Dei, riconfermata nelle sue funzioni, dovrà vigilare sull’osservanza e l’applicazione di quanto è stato disposto (art. 11 e 12). Il motu proprio conclude fissando al 14 settembre 2007 l’entrata in vigore dei nuovi provvedimenti, e abrogando di conseguenza, tramite la consueta clausola «contrariis quibuslibet rebus non obstantibus», tutte le precedenti determinazioni in materia.