Chesterton: Ortodossia

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Gilbert Keith Chesterton, Ortodossia, Lindau 2010, pp. 256, ISBN: 978-88-7180-876-5 , euro 18,00

Sconto su: http://www.theseuslibri.it/  

 


Tutto l’ottimismo di quest’epoca è stato falso e deprimente perché ha sempre cercato di dimostrare che noi siamo fatti per il mondo. L’ottimismo cristiano è basato sul fatto che noi non siamo fatti per il mondo. Ho cercato di essere felice dicendo a me stesso che l’uomo è un animale, come tutti gli altri che aspettano il nutrimento da Dio. Ma ora so che sono stato realmente felice, perché ho imparato che l’uomo è una mostruosità. Avevo ragione nel pensare che tutte le cose fossero strane, perché anch’io ero peggiore e al tempo stesso migliore di tutte le cose. Il piacere dell’ottimista era prosaico, perché risiedeva nel fatto che tutto è naturale, il piacere del cristiano era poetico, perché dimorava nel fatto che tutto è innaturale alla luce del soprannaturale. Il filosofo moderno mi aveva ripetuto più volte che io ero al posto giusto, eppure mi ero sentito ancora depresso, pur essendo d’accordo. Ma avevo saputo di essere al posto sbagliato, e la mia anima cantava di gioia, come un uccello in primavera. La consapevolezza ha scoperto e illuminato stanze dimenticate nella buia dimora della mia infanzia. Ora sapevo perché l’erba mi era sempre sembrata strana come la barba verde di un gigante e perché riuscivo a provare nostalgia pur trovandomi a casa. (G.K.Chesterton)


In seguito alla pubblicazione nel 1905 di Eretici – una raccolta di saggi in cui l’autore attacca con stile brillante e corrosivo i dogmi della sua epoca – Chesterton fu sfidato dalla critica a indicare quale fosse la propria visione del mondo. Tre anni più tardi, nel 1908, diede alle stampe Ortodossia, forse il suo saggio più importante, una autobiografia filosofica. In quest’opera, ricchissima di idee e di suggestioni, lo scrittore inglese esprime la sua incrollabile fede cristiana, di cui argomenta con rigore, ma senza rinunciare al gusto per il paradosso, l’assoluta ragionevolezza.

Tutte le obiezioni e le accuse che vengono di norma rivolte al cristianesimo sono affrontate con schiettezza, discusse e infine puntualmente rovesciate. Il risultato, spesso sorprendente, è la dimostrazione che anche i punti più astrusi della dottrina colgono una verità profonda dell’essere umano.
In particolare, nel cristianesimo l’autore individua un insieme di valori spirituali e morali in grado di difendere l’uomo da ciò che, minando la bellezza e la santità della vita, lo rende infelice: le ingiustizie del capitalismo, le teorie materialiste e deterministe (in particolare l’evoluzionismo), le eresie del passato e del presente.
Il cristianesimo, per Chesterton, è la sola risposta possibile a quell’aspirazione al Vero, al Bene, al Bello, al Giusto, che abita nel cuore di ciascuno di noi.


L’AUTORE

Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) fu scrittore e pubblicista dalla penna estremamente feconda. Soprannominato «il principe del paradosso», usava una prosa vivace e ironica per esprimere serissimi commenti sul mondo in cui viveva. Scrisse saggi letterari e polemici, romanzi «seri» (L’uomo che fu Giovedì, L’osteria volante) e gialli (celebre la serie di avventure di Padre Brown). Lindau ha pubblicato i suoi saggi biografici su san Francesco d’Assisi e san Tommaso d’Aquino, le opere La Chiesa cattolica ed Eretici e il romanzo Il Napoleone di Notting Hill.

La «Nota biobibliografica» e l’elenco delle «Opere di Chesterton» sono a cura di Marco Sermarini, Presidente della Società Chestertoniana Italiana.

Questo libro è da considerarsi una guida alla lettura di Eretici, e ha l’intento di aggiungere il punto di vista positivo accanto a quello negativo. Molti critici si sono lamentati del volume intitolato Eretici, perché si limitava a criticare le filosofie correnti senza offrire una qualche filosofia alternativa. Questo lavoro è un tentativo di rispondere alla sfida. È inevitabilmente ottimista, quindi inevitabilmente autobiografico. Lo scrittore, in un certo senso, si è trovato di fronte alla stessa difficoltà che assediò Newman durante la stesura della sua Apologia; è stato costretto a essere egoista solo per poter essere sincero. Mentre tutte le altre circostanze differiscono, il motivo in entrambi i casi è il medesimo. L’intento dello scrittore è quello di cercare di fornire una spiegazione non sulla possibilità o meno di credere alla religione cristiana, ma di come egli personalmente sia giunto a credervi. Il libro poggia dunque sul principio positivo di un enigma e della sua soluzione. All’inizio tratta delle speculazioni solitarie e sincere dell’autore stesso, poi del modo stupefacente con cui queste sono state improvvisamente soddisfatte dalla teologia cristiana. Lo scrittore ritiene che sia una fede convincente. Ma se così non fosse, essa costituisce perlomeno una coincidenza reiterata e sorprendente. (Gilbert K. Chesterton, 1908)


Fra’ Roberto ha curato per un Centro Missionario francescano il libro. Ne ha resi disponibili in rete alcuni brani, per chi avesse il piacere di leggerli.


Dal capitolo VI: I paradossi del cristianesimo
"Il paganesimo era stato come un pilastro di marmo, diritto perchè proporzionato simmetricamente. Il Cristianesimo era come una enorme e frastagliata romantica roccia, che, nonostante oscillasse a ogni tocco sul suo piedestallo, pure, troneggiava da mille anni, perché le sue esagerate escrescenze si equilibrano esattamente a vicenda. In una cattedrale gotica le colonne erano tutte diverse, ma tutte necessarie; ogni supporto sembrava accidentale e fantastico; ogni sperone era un’arcata volante. Così nel Cristianesimo le apparenti accidentalità si equilibravano. Becket portava un cilicio sotto l’oro e il cremisi, e ci sarebbe molto da dire di questa combinazione; perchè Becket aveva il beneficio del cilicio e la gente che passava quello del cremisi e dell’oro. Meglio, almeno, dei moderni milionari, che hanno il nero e il grigio di fuori per gli altri, e l’oro vicino al cuore. Ma l’equilibrio non è sempre nel corpo di un solo uomo come in Becket: spesso è distribuito sull’intero corpo del Cristianesimo. Poiché un uomo pregava e digiunava sulle nevi del settentrione, piogge di fiori potevano cadere per la sua festa nelle città meridionali; e poiché dei fanatici bevevano acqua sulle sabbie della Siria, altri uomini potevano bere sidro nei frutteti d’Inghilterra. Questo è ciò che rende il Cristianesimo tanto più sconcertante e interessante dell’impero pagano, così come la Cattedrale di Amiens non è migliore ma più interessante del Partenone. Se uno vuole una dimostrazione moderna di questa verità, pensi al fatto curioso che, in virtù del Cristianesimo, l’Europa (pur rimanendo unita) si è divisa in singole nazioni. Il patriottismo è un perfetto esempio di questo voluto equilibrio di un’esaltazione controun’altra. L’istinto dell’impero pagano avrebbe detto: «Voi sarete tutti cittadini romani e diverrete uguali; i tedeschi siano meno lenti e meno ossequiosi; i francesi meno rapidi e innovativi». L’istinto dell’Europa cristiana dice: «Che i tedeschi restino pure lenti e riverenti e i francesi possano in piena sicurezza tentare ogni esperimento. Faremo di questi eccessi un equilibrio. L’assurdità che si chiama Germania correggerà la follia che si chiama Francia». Infine (e cosa più importante di tutte) questo fatto spiega quel che della storia del Cristianesimo resta inesplicabile a tutti i critici moderni. Voglio dire le mostruose guerre intorno a minuscole questioni di teologia, i terremoti di emozione per un gesto o per una parola. C’era la differenza di un centimetro, ma un centimetro è tutto quando si tratta di raggiungere un equilibrio. La Chiesa non può sgarrare di un capello se deve continuare il suo grande e audace esperimento di irregolare equilibrio. Una volta lasciato che un’idea perda di potenza, un’altra idea diventerà troppo potente. Non è un gregge di pecore che il pastore cristiano deve guidare, ma una mandria di tori e di tigri, di ideali terribili e di dottrine divoranti, ognuna abbastanza forte per trasformarsi in una falsa religione e devastare il mondo. Ricordiamo che la Chiesa si affermò in particolare per le sue idee pericolose: fu una domatrice di leoni. L’idea della nascita dallo Spirito Santo, della morte di un Essere divino, del perdono dei peccati, dell’adempimento delle profezie, sono tutte idee che, come può vedere chiunque, al minimo tocco potrebbero trasformarsi in qualche cosa di blasfemo e di feroce. Se gli artefici del Mediterraneo avessero lasciato cadere il più piccolo anello, subito il leone del pessimismo ancestrale avrebbe rotto la sua catena nelle dimenticate foreste del Nord. Ma di questi bilanciamenti teologici parlerò più avanti; qui è sufficiente notare che se qualche piccolo errore fosse stato commesso nella dottrina, enormi ne sarebbero state le conseguenze sull’umana felicità. Una frase malamente formulata sulla natura del simbolismo avrebbe infranto tutte le più belle statue d’Europa. Una svista nelle definizioni poteva arrestare tutte le danze, poteva far avvizzire tutti gli alberi di Natale e rompere tutte le uova di Pasqua. Le dottrine devono essere definite entro limiti rigorosi, anche perchè l’uomo possa godere delle generali libertà umane. La Chiesa deve usare tutte le cure, se si vuole che il mondo possa essere noncurante.Questo è l’eccitante romanzo dell’ortodossia. Taluni hanno preso la stupida abitudine di parlare dell’ortodossia come di qualcosa di pesante, di monotono e di sicuro. Non c’è, invece, niente di così pericoloso e di così emozionante come l’ortodossia. L’ortodossia è la saggezza, e l’esser saggi è più drammatico che l’esser pazzi. È l’equilibrio di un uomo che, dietro cavalli in folle corsa, pare si chini da una parte, sbandi da quell’altra, eppure, in ogni atteggiamento, conserva la grazia della statuaria e la precisione dell’aritmetica. La Chiesa, nei primi giorni, fu superba e veloce come un cavallo da guerra; ma è assolutamente antistorico dire che essa si limitò a perseguire furiosamente una sola idea, come un volgare fanatismo. Essa deviò a destra e a sinistra con tanta esattezza da evitare enormi ostacoli. Lasciò da un lato la grande mole dell’arianesimo, sostenuto da tutti i poteri del mondo che volevano rendere il Cristianesimo troppo mondano. Un momento dopo scartò per evitare la tendenza orientale, che l’avrebbe troppo allontanato dal mondo. La Chiesa ortodossa non scelse mai le strade battute, nè accettò le convenzioni; non fu mai rispettabile. Sarebbe stato facile accettare la potenza terrena degli ariani; sarebbe stato facile, nel calvinistico diciassettesimo secolo, cadere nel pozzo senza fondo della predestinazione.È facile esser pazzi; è facile essere eretici; è sempre facile lasciare che i tempi facciano di testa loro, difficile è conservare la propria testa. È sempre facile essere modernisti, come è facile essere uno snob. Cadere in uno dei tanti trabocchetti dell’errore e dell’eccesso, che, da una moda all’altra, da una setta all’altra, sono stati aperti lungo il cammino storico del Cristianesimo sarebbe stato semplice. È sempre semplice cadere; c’è un’infinità di angoli secondo cui si può cadere, ce n’è uno soltanto sul quale restare in piedi. Perdersi in un qualunque capriccio, dallo Gnosticismo alla Christian Science, sarebbe stato ovvio e banale. Ma averli evitati tutti è una vorticosa avventura; e nella mia visione, il carro celeste vola sfolgorante attraverso i secoli, mentre le opache eresie sono disfatte e prostrate, e la fiera verità oscilla ma resta in piedi".


Questo è un brano del Capitolo III (Il suicidio del pensiero)

"Mentre sfoglio tutti questi intelligenti, meravigliosi, noiosi ed inutili libri moderni, gli occhi si fermano sul titolo di uno di essi: «Giovanna d’Arco» di Anatole France. Gli ho dato soltanto un’occhiata, ma un’occhiata mi è bastata per richiamarmi alla mente la «Vita di Gesù» di Renan. Ha la stessa strana impostazione di scetticismo riverente, che scredita delle storie soprannaturali che hanno qualche fondamento per raccontare storie naturali che non ne hanno alcuno. Poichè non possiamo credere a quel che un Santo fece, fingiamo di sapere esattamente che cosa sentì.
Ma io non cito questi libri per criticarli, bensì perchè l’incontro fortuito di questi nomi suscita in me due immagini di salute mentale che mi colpiscono e che spazzano via davanti a me tutta questa letteratura.
Giovanna d’Arco non si lasciò inchiodare al crocevia, rifiutando tutti i sentieri come Tolstoj, o accettandoli tutti come Nietzsche. Ne scelse uno e vi si lanciò come un fulmine. E tuttavia Giovanna, se ci pensiamo bene, aveva in sè tutto quello che c’era di vero in Tolstoj e in Nietzsche, tutto quello che c’era in loro di accettabile. Io pensavo a quanto c’è di nobile in Tolstoj: il gusto delle cose ordinarie, l’affetto vivo per la terra, il rispetto per il povero, la dignità delle reni piegate dal lavoro. Giovanna d’Arco ebbe tutto ciò, con questo di più: che sopportò duramente la povertà nell’atto stesso di ammirarla, mentre Tolstoj è il tipo dell’aristocratico che cerca di scoprirne il segreto. Pensavo poi a quanto c’è di coraggio, di fierezza, di passione nello sventurato Nietzsche e al suo disperato ammutinamento contro la vuotaggine e la pusillanimità del nostro tempo; pensavo alla sua invocazione all’equilibrio estatico del vivere pericolosamente, al desiderio dei galoppi sfrenati sui grandi cavalli, ai suoi appelli alle armi. Bene: Giovanna d’Arco ebbe tutto questo e, anche qui, con la differenza che essa non solo esaltò il combattimento, ma combattè. Noi sappiamo che essa non ebbe paura di un esercito, mentre Nietzsche come tutti sappiamo, ebbe paura di una mucca. Tolstoj si limitò a fare l’elogio del contadino; essa fu contadina. Nietzsche si limitò a fare l’elogio del guerriero; essa fu guerriera.
Essa li vince tutti e due sul terreno dei rispettivi, antagonistici ideali: è stata più dolce dell’uno e più forte dell’altro. Essa fu inoltre una persona perfettamente pratica, che fece qualcosa, mentre essi sono dei folli speculatori che non hanno concluso nulla. Era impossibile che non mi attraversasse la mente il pensiero che essa e la sua fede dovevano avere qualche misterioso senso di unità e di utilità morale che è andato perduto.
E questo pensiero ne provocò un altro più grande: anche la colossale figura del suo Maestro attraversò il teatro dei miei pensieri. Il soggetto trattato da Anatole France, come quello trattato da Ernesto Renan, furono oscurati dalle medesime difficoltà derivanti dal pensiero moderno. Anche Renan tenne divise, nel suo eroe, la bontà e la combattività. Renan rappresentò la giusta rabbia di Gerusalemme come un semplice esaurimento nervoso dopo le idilliche aspettative della Galilea. Come se l’amore per l’umanità fosse incompatibile con l’odio per l’inumanità. Gli altruisti, con sottile, debole voce, denunziano Cristo come un egoista. Gli egoisti (con voce ancor più debole e sottile) lo denunziano come altruista. Nel presente clima si comprendono certi cavilli. L’amore di un eroe è più terribile dell’odio di un tiranno. L’odio di un eroe è più generoso dell’amore di un filantropo. C’è, in questo, una sanità profonda ed eroica, di cui gli uomini moderni possono solo raccogliere i frammenti. C’è un gigante di cui vediamo solo le braccia abbandonate e le gambe che si allontanano. Essi hanno lacerato l’anima di Cristo in due brandelli grotteschi, catalogati come egoismo e altruismo, e sono egualmente sconcertati dalla Sua folle magnificenza e dalla Sua insana dolcezza. Si sono divisi le Sue vesti e se le sono giocate a dadi; benchè la Sua tunica fosse senza cuciture e tessuta tutto d’un pezzo
". 


"Molti uomini moderni, i più sensati, devono aver abbandonato il cristianesimo sotto la spin­ta, press’a poco, di queste tre convinzioni con­vergenti: primo, che gli uomini, per la loro for­ma struttura e sessualità, sono dopo tutto molto simili alle bestie, una semplice varietà del regno animale; secondo, che la religione primitiva è sorta nell’ignoranza e nella paura; terzo, che i preti hanno riempito la società di amarezza e di tenebre. Questi tre argomenti anticristiani sono di diversa natura, ma sono anche indubbiamente logici e legittimi; e tutti convergenti. La sola obiezione che c’è da fare (secondo me) è che sono falsi tutti e tre. Se, lasciando da parte i li­bri sulle bestie e sugli uomini, vi mettete a guar­dare le bestie e gli uomini, allora (se avete del­l’umorismo o dell’immaginazione, il senso del tragico o del comico) osserverete che la cosa che colpisce non è come l’uomo assomigli ai bruti ma come ne differisca. È la scala mostruosa di questa divergenza che richiede una spiegazione. Che l’uomo e il bruto siano simili è in un certo senso una verità lapalissiana; ma che, essendo tanto simili, siano poi tanto insanamente dissimili, questa è la sorpresa e l’enigma. Che una scimmia abbia le mani, è molto meno interessante per il filosofo del fatto che avendo le mani essa non se ne fac­cia quasi niente, non giochi a sassolino, non suo­ni la chitarra, non incida il marmo o non tagli il montone. Parlano di architettura barbara e di degenerazione dell’arte; ma gli elefanti non co­struiscono colossali templi di avorio, nemmeno in stile rococò; i cammelli non dipingono nemmeno dei pessimi quadri, benchè forniti in abbondan­za di pennelli di pelo di cammello. Certi moder­ni sognatori dicono che le formiche e le api sono dal punto di vista sociale superiori a noi. Esse hanno, effettivamente, una civiltà, ma questo non fa che ricordarci che si tratta di una civiltà in­feriore. Chi ha trovato mai un formicaio deco­rato di statue di formiche celebri? Chi ha mai visto un’arnia con scolpite le immagini di fasto­se regine dell’antichità? No, l’abisso fra l’uomo e le altre creature può avere una spiegazione na­turale, ma è un abisso. Si parla di animali sel­vaggi; ma il solo animale selvaggio è l’uomo. È l’uomo che ha rotto i freni. Gli altri sono animali docili e seguono la rustica rispettabilità della tribù o del tipo. Tutti gli altri sono animali do­mestici; l’uomo solo è sempre selvatico, sia come vizioso sia come anacoreta. Così questo primo su­perficiale argomento in favore del materialismo, se qualche cosa è, è un argomento in favore del suo contrario; dove la biologia finisce, ivi, esat­tamente, cominciano le religioni" (Ortodossia, cap. XI).


"Supponiamo che nella strada nasca un gran taffe­ruglio intorno a qualche cosa, per esempio un lampione a gas, che molte persone autorevoli desiderano abbattere. Un monaco, vestito di grigio, che rappresenta lo spirito del Medioevo, è consultato sulla faccenda, e comincia a dire, nell’arido stile degli Scolastici: “Consideriamo anzitutto, fratelli, il valore della luce. Se la luce è buona in sé…” A questo punto – il che è in certo modo scusabile – viene travolto; tutti si lanciano all’assalto del lampione che in dieci minuti è buttato giù, e se ne vanno congratulandosi a vicenda per il loro senso pratico così poco medioevale. Ma, coll’andare del tempo, ci si rende conto che le cose non vanno così bene. Alcuni avevano buttato giù il lampione perché volevano la luce elettrica; alcuni perché volevano del ferro vecchio; al­cuni perché amavano l’oscurità, che proteggeva le loro iniquità. Alcuni pensavano che un lampione non bastasse, altri che era di troppo; alcuni agivano per smontare la combriccola municipale, altri perché volevano spaccare qualcosa.
Così si combatte nella notte, senza sapere che cosa si col­pisce. Così, gradatamente e inevitabilmente, oggi o domani o il giorno dopo, torna la convinzione che il mo­naco dopo tutto aveva ragione, e che tutto dipende da quale è la filosofia della Luce. Solo che ora siamo co­stretti a discutere nel buio quel che avremmo potuto di­scutere sotto il lampione a gas
.”(G.K.Chesterton, da “Eretici” (1905): Osservazioni preliminari sull’importanza dell’Ortodossia).