(CC) AIDS: una malattia anche culturale

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AIDS: LA MAGGIORE MINACCIA PER L’AFRICA DAI TEMPI DEL TRAFFICO DEGLI SCHIAVI


MICHAEL F. CZERNY S.I.(*) 

La salute intesa nel suo senso più pieno, secondo Giovanni Paolo II, «allude anche a una situazione di armonia dell’essere umano con se stesso e con il mondo che lo circonda. Ora è proprio questa visione che l’Africa esprime in modo assai ricco nella sua tradizione culturale, come testimoniano le tante manifestazioni artistiche, sia civili sia religiose, piene di senso gioioso, di ritmo e di musicalità. Purtroppo, però, quest’armonia è oggi fortemente turbata. Tante malattie devastano il continente, e fra tutte in particolare il flagello dell’Aids, “che semina dolore e morte in numerose zone dell’Africa”»(1).


Il compianto Santo Padre mette in evidenza nello stesso tempo, in modo sorprendentemente chiaro, la dura realtà di una crisi di natura medica e un profondo rispetto per la cultura africana. In realtà, il suo concetto di «salute» esprime evidentemente un’aspirazione ben più alta della nostra solita idea occidentale di benessere fisico individuale, inteso come assenza delle malattie. La salute è, piuttosto, un bene sociale condiviso, e un altro termine per indicarla potrebbe essere «giustizia». In questo articolo cercheremo di mostrare come alla lotta della Chiesa contro l’Aids e a favore della salute siano necessarie, insieme, tre dimensioni della cultura(2)


In primo luogo, ecco alcune statistiche, drammatiche ma realistiche, che danno un quadro della situazione. La popolazione dell’Africa subsahariana è di 862 milioni di persone. Nel 2003, 1.900.000 bambini da 0 a 14 anni erano sieropositivi o avevano contratto l’Aids, e c’erano 12.100.000 orfani dell’Aids (da 0 a 17 anni). Tra adulti e bambini, 24.900.000 erano sieropositivi o malati di Aids, e due anni dopo erano circa 25.800.000. Nel 2003, le donne tra i 15 e i 49 anni sieropositive o malate di Aids erano 13.100.000, e nel 2005 erano 13.500.000. Nel 2003 sono morti di Aids 2.100.000 tra adulti e bambini; 2.400.000 nel 2005.


Una percentuale di infezione superiore all’1% costituisce, per definizione, un’epidemia: ora quasi tutti i Paesi della regione subsahariana raggiungono una percentuale ben al di sopra di tale cifra. La percentuale globale dell’infezione per quanto riguarda gli adulti da 15 a 49 anni era del 7,3% nel 2003 e del 7,2% nel 2005(3). Malgrado i molti programmi di prevenzione e di cura, le statistiche mostrano che purtroppo l’epidemia continua a diffondersi. Tra il 2000 e il 2020, circa 55 milioni di africani moriranno a causa dell’Aids. In sintesi, la pandemia costituisce la maggiore minaccia per l’Africa dai tempi del traffico degli schiavi.


Dietro le statistiche ci sono storie sia di sofferenze indicibili sia di innumerevoli vittorie dello spirito umano: sollecitudine, coraggio, fedeltà, sacrificio. L’Aids è una malattia non solo dei singoli ma di un intero popolo. Giovanni Paolo II spesso sottolineava che essa è anche sintomatica di una «patologia dello spirito»(4). In altre parole, la pandemia, nella sua estensione e profondità, non solo è una malattia della persona, ma in modo indistinto esprime il profondo malessere dell’Africa. Considerare l’Aids nella sua complessità culturale aiuta ad apprezzare il modo in cui la Chiesa affronta le cause responsabili della pandemia.


Il marchio d’infamia e la discriminazione


Malattia e vergogna spesso vanno a braccetto. In molte società africane alcune malattie — un esempio su tutti è la lebbra — sono per tradizione considerate ignominiose e impure. I parenti tendono a nascondere il fatto che qualche loro caro ha contratto una tale malattia, spesso fino a quando è troppo tardi(5).


Il virus Hiv, essendo incurabile e trasmesso sessualmente, assume una particolare forza quando diffonde anche la vergogna e il marchio d’infamia. «Nonostante il numero degli infetti dal virus Hiv sia sconvolgente, la vergogna e il marchio d’infamia che vengono associati all’Aids li spingono sempre più a negare il suo impatto sulle loro vite e ad ignorare l’imperativo di modificare il loro comportamento. Si è sentito parlare di persone che hanno tentato il suicidio, prima che il male li portasse via. Essi hanno sofferto più la vergogna che la malattia; hanno avuto più paura della vergogna che della morte; sono morti tutti semplicemente a causa della vergogna piuttosto che dell’Aids vero e proprio»(6). Alcuni esempi illustrano la sofferenza, l’isolamento e il rifiuto che tale malattia comporta(7).


Ad Abidjan, Jacques, che vive con le sue quattro mogli, si ammala con una sintomatologia di febbre, tosse e perdita di peso. Si reca all’ospedale con la moglie più giovane. Dal test risulta che ha la tbc e che è anche sieropositivo. Gli vengono fatte raccomandazioni sul suo stato di sieropositivo e viene incoraggiato a dirlo alle altre mogli. Lui non solo non lo fa, ma continua ad avere con loro rapporti sessuali.


Un sieropositivo racconta al suo gruppo di supporto ad Accra: «Le infermiere adoperano due pesi e due misure, e non c’è alcun rispetto per i pazienti sieropositivi. Per loro, se qualcuno lo è, si tratta di una persona che non è più un essere umano». Egli continua a spiegare perché non vuole rendere manifesto il suo stato, affermando che verrebbe sfrattato dal suo appartamento in affitto e gli verrebbe impedito di viaggiare sui trasporti pubblici.


A Nairobi, a una religiosa che rivela alla sua comunità di essere sieropositiva vengono dati tazza, piatti, bicchiere e posate personali. Nello Swaziland, il principe Tfohlongwane parla in favore della segregazione dei sieropositivi e dei malati di Aids: «Non si devono tenere le mele marce nello stesso cesto di quelle buone, altrimenti anche esse alla fine si guasteranno». In Nigeria, si dice che un amministratore militare abbia ordinato l’arresto e l’imprigionamento di tutti i malati di Aids nel suo Stato, affermando che tale decisione avrebbe aiutato a impedire il diffondersi del virus Hiv. In Sudafrica la comunità di Gugu Dhlamini ha ucciso una donna soltanto perché aveva reso pubblica la propria sieropositività. Le persone temevano che il fatto che vivesse tra loro avrebbe gettato un marchio d’infamia sull’intera comunità.


Il risultato del marchio d’infamia e della discriminazione è una dannosa e distruttiva separazione: i puri dagli impuri, i normali dagli anormali e, sempre, «noi» da «loro». Una volta che le persone sono state separate da ciò che si considera familiare e accettabile, allora le si tratta secondo regole diverse, che invariabilmente significa trattarle male, in modo crudele e disumano. Poi si dice che «se la sono cercata», mentre in realtà esse costituiscono lo schermo sul quale si proiettano le paure e i problemi irrisolti. Noi puniamo «loro» per quello che non possiamo sopportare in «noi».


Gesù rivela la sua sensibilità nei confronti di questo potente sotterfugio culturale nel suo incontro con l’adultera. Oltre ad essere portatore per eccellenza del marchio d’infamia, questo personaggio incarna inoltre l’intera nazione che reca i segni dell’infedeltà religiosa al Patto. «Chi è senza peccato scagli la prima pietra» (Gv 8,7). Che cos’è la «prima pietra»? È il giudizio dal quale deriva il marchio d’infamia, la discriminazione, l’esclusione o la persecuzione di un altro o di gruppi di altri. È un marchio, un segno, un’etichetta. Esso fa anche riferimento a caratteristiche percepite in modo negativo, che pongono individui o gruppi al di fuori del normale contesto civile. Alcuni attribuiscono il marchio d’infamia ad altri e li discriminano; questi ultimi, dal canto loro, lo accettano e si comportano di conseguenza… un circolo vizioso!(8). Se qualcuno che ci è vicino o che conosciamo dovesse diventare sieropositivo, anche noi saremmo spinti «per buone ragioni» a discriminare, escludere e segnare a dito? Il marchio d’infamia fa parte di quella generale struttura di classificazioni e regole che noi chiamiamo cultura, e, poiché è interpersonale e «non detta», possiede un enorme potere.


I vescovi dell’Africa si sono impegnati a «lavorare instancabilmente per cancellare il marchio d’infamia e la discriminazione e ad opporsi a qualsiasi norma e pratica sociale, religiosa, culturale e politica che perpetui tale marchio e tale discriminazione»(9). Non è facile identificare le norme e le pratiche distruttive, né distinguere tra ciò che appartiene alla tradizione autentica e ciò che offende la dignità umana, né tanto meno cambiare gli elementi responsabili del marchio senza distruggere inutilmente la cultura tradizionale. Due esempi sono rappresentati dai riti di iniziazione e dall’eredità delle vedove (levirato). I vescovi dell’Africa Orientale «fanno appello a tutti i cristiani e alle persone di buona volontà affinché rispettino la piena dignità e gli eguali diritti di tutti coloro che sono affetti dal virus Hiv e dall’Aids. Ci rivolgiamo ai fedeli cattolici perché siano un luminoso esempio nel rispettare la dignità umana e nel prendersi speciale cura delle persone che sono affette dal virus Hiv e dall’Aids»(10).


Chiunque discrimini e faccia ricorso al marchio d’infamia ha bisogno di essere salvato, e i falsi valori culturali che supportano il marchio e la discriminazione hanno bisogno di essere trasformati. Personalmente, quindi, mettersi di fronte alle proprie paure e ai propri sentimenti più nascosti, alla propria complicità che spinge a usare il marchio contro gli altri, richiede una notevole onestà, e anche la grazia di Dio. Socialmente, combattere i marchi d’infamia comporta una fede profonda, coraggio e sostegno della comunità. E la battaglia, come si vedrà, si combatte meglio indirettamente piuttosto che in modo frontale.


Domare il fuoco


Un aspetto che non può essere ignorato nella battaglia condotta dalla Chiesa contro l’Hiv e l’Aids è lo scontro di culture, che appare evidente nel modo in cui gli africani e gli occidentali considerano alcune questioni chiave. Ad esempio, in Europa e in America la ragione principale del marchio è la paura della sofferenza e il rifiuto della morte. Al contrario, la cultura africana — e in questo essa è vicina alla fede cristiana — accetta la sofferenza come parte della vita, non è tanto preoccupata della malattia, della sventura, dell’agonia e della morte ed è di grande sostegno nei confronti di coloro che soffrono. Quindi il marchio deriva dalla confusione, dall’ignoranza e dalla vergogna nei confronti della sessualità.


Per gli occidentali, è la rivoluzione sessuale degli Anni Sessanta a cui si deve in buona parte l’atteggiamento prevalente nei confronti della sessualità e la definizione di comportamenti e valori che ora sono esportati in tutto il mondo, sotto l’impulso della globalizzazione. È un paradigma incentrato sull’individuo e sulla sua autonomia. In senso positivo, ha permesso alle donne di giocare un ruolo più importante al di fuori delle mura domestiche e nella società, liberandole da alcune strutture patriarcali, che disconoscono le loro peculiarità e impediscono loro di far sentire la propria voce. Ha anche aiutato molti uomini (ma non tutti) ad apprezzare la complementarità della sessualità e a superare l’ideale del macho. Una maggiore apertura nei confronti della sessualità rende anche più agevole discutere delle pratiche sessuali, anche se questo argomento rimane in buona parte tabù nelle società sia moderne sia tradizionali. Non c’è dubbio che buona parte dello sforzo dispiegato dalla Chiesa per combattere l’Aids sia diretto ad aiutare le donne a opporsi agli abusi a cui sono spesso soggette: essere costrette a prostituirsi, venire violentate, dover soggiacere alle richieste sessuali di un coniuge infedele e quindi con la possibilità di essere infette.


Ma non si può negare che l’atteggiamento occidentale nei confronti della sessualità abbia un lato oscuro, e la Chiesa è impegnata senza sosta nel porvi rimedio. Secondo la cultura dominante e globalizzata, le persone trovano il loro valore non in ciò che sono, ma in ciò che hanno e che consumano: beni, potere, piacere e prestigio. La felicità e il successo si identificano con un grande consumo. Il mito dominante della cultura della globalizzazione è che il sesso è soltanto un’altra cosa «da avere». Il sesso riguarda soltanto il singolo, è una questione di preferenze individuali e di comportamento privato. «La rivoluzione sessuale dell’Occidente [insegna] che le persone […] hanno il diritto di esprimere la propria sessualità come desiderano, basta che le persone coinvolte siano adulti consenzienti e nessuno venga offeso»(11). Da un punto di vista morale è equiparato a bere e mangiare, in quanto si verifica come risposta a un appetito e unicamente per il piacere.


Tipico di questa mentalità consumista è il fenomeno della pornografia, la sfacciata mercificazione dell’atto sessuale, che squalifica tutti quelli che vi sono coinvolti. «Noi siamo molto allarmati dalla promozione della pornografia in tutte le sue forme attraverso tutti i tipi di media, che corrompe i bambini e i giovani e contribuisce all’ulteriore diffondersi del virus Hiv e dell’Aids. Noi inoltre deploriamo la liberalizzazione e commercializzazione del sesso per tutti, che è contraria ai valori umani e religiosi del sesso e della sessualità e contribuisce alla promozione di comportamenti sessuali non cristiani e alla distruzione dell’istituzione familiare come essa è esistita da tempo immemorabile»(12).


Questo è il comportamento occidentale. L’esperienza africana è stata molto diversa. «Ci sono tabù che incoraggiano il controllo di sé in materia di sessualità. Alcune tradizioni sono contrarie alle relazioni sessuali durante la gravidanza e l’allattamento e in caso di adulterio. In molti gruppi etnici, la verginità prima del matrimonio è obbligatoria. Invece di considerare tali comportamenti fuori moda, come accade in Occidente, bisognerebbe impegnarsi per studiare il modo di incoraggiare tali pratiche attribuendo valore a questi elementi positivi della cultura africana»(13). Nelle società tradizionali, un certo numero di pratiche aiutava a promuovere un buon comportamento e a mantenere la fedeltà e l’integrità nel matrimonio: ragazze e giovani donne per proteggere la loro verginità, giovani uomini per controllare il loro desiderio sessuale(14).


In Africa la fecondità è un valore primario, perché genera la vita, e la castità è un valore in quanto protegge la vita e la qualità della vita, la quale è concepita come un legame diretto tra i vivi e i morti. La sessualità è considerata moralmente neutra e, di per sé, né buona né cattiva. Spesso viene paragonata al fuoco in una casa. Il fuoco può essere domato e usato per cucinare; in caso contrario, può bruciare il tetto e l’intera casa(15). L’immagine del fuoco è molto calzante e aiuta a capire perché le culture tradizionali, radicate nell’habitat locale, mantengano norme per il comportamento sessuale. «L’Aids ci ha mostrato che in realtà sappiamo ben poco del comportamento sessuale delle persone, e del perché corrano i rischi che corrono malgrado siano a conoscenza e informate dei potenziali pericoli. Inoltre, assistiamo nel nostro Paese a un’altissima percentuale di stupri e abusi sessuali, di bambini come di adulti. Sappiamo che molte persone vengono contagiate a loro insaputa perché costrette a subire rapporti sessuali, ma non tutti sono ignoranti»(16).


L’ideale cristiano di sessualità è un insieme dinamico di libertà e di responsabilità integrata nella personalità ad ogni stadio della vita. Essa si basa su fede in Dio, rispetto per se stessi, rispetto per l’altro e speranza per il futuro. La morale cattolica, lottando per l’ideale della totale donazione di sé, fungerà da guida per ricevere come dono la sessualità con la quale ognuno è stato creato, per comprenderla nel modo giusto, sia personalmente sia socialmente, riconoscendo la responsabilità che accompagna il proprio potenziale sessuale e per integrare olisticamente questa sessualità ad ogni stadio della vita.


Tale accettazione e integrazione vissuta può essere chiamata sessualità autentica, integrale o responsabile, ma il suo nome tradizionale è castità: l’unità interiore vissuta di un essere corporeo e spirituale. Castità significa modulare e ordinare la propria sessualità al servizio dei rapporti e della comunione con gli altri, dell’amore e dell’amicizia. Lo scopo della castità è di rendere ognuno capace di amare nel modo personale specifico di ogni sesso, per essere pronto ad affrontare correttamente il matrimonio, il celibato religioso o lo stato di single. La castità è un compito molto personale che richiede tutta la vita, ma il significato della sessualità va talmente al di là del singolo individuo che la castità comprende anche uno sforzo culturale: «Esiste una interdipendenza tra il miglioramento personale e il progresso della società»(17). Secondo un teologo africano, «la soluzione autentica, l’unica che può essere duratura e soddisfacente, sta nel cambiamento del comportamento interiore nei confronti della sessualità, senza doverci affidare, in maniera ingenua e magica, a soluzioni tecniche. Questo cambiamento non riguarda soltanto i singoli individui come soggetti morali, ma è importante che l’intera comunità si impegni al suo conseguimento»(18).


I Paesi ricchi hanno criticato duramente la Chiesa africana per non aver distribuito profilattici al fine di risolvere la crisi. Una breve risposta a tali critiche è che la morale cattolica è in realtà più fedele ai valori della cultura africana, la quale non giustifica il «sesso libero» né tratta la sessualità come una merce di consumo. La campagna a favore dei profilattici sa di imperialismo culturale e, in tale frangente, la posizione della Chiesa sarà sempre dalla parte dei poveri. Ma, naturalmente, il problema è molto più complesso, e bisogna ammettere che la Chiesa si trova costretta, ai limiti della sua capacità, a parlare coerentemente e al tempo stesso in modo opportuno alla gente nelle situazioni più diverse. I nostri colleghi laicisti optano per un approccio pragmatico, il più in uso al giorno d’oggi, fondato sul problema della salute pubblica. Dal canto suo, invece, la Chiesa è tenuta a offrire a chi la ascolta un ideale morale e spirituale piuttosto che un approccio puramente pragmatico, e ci sono molte persone che hanno deciso pregiudizialmente, quale che sia la ragione, di ignorare tale messaggio. Se qualcuno ha voltato le spalle all’ideale di responsabilità personale aperto a generare la vita, è credibile che abbia bisogno o che apprezzi il consiglio della Chiesa su come ridurre al minimo le conseguenze portatrici di morte delle sue azioni? Un tale appello alla comune decenza sarà difficilmente ascoltato, e il rischio di apparire di supporto a comportamenti promiscui, oltraggiosi e distruttivi è troppo alto perché la Chiesa possa tollerarlo.


Chiamati alla giustizia e alla pienezza della vita


La Chiesa non affronta la pandemia del Hiv e dell’Aids come «un problema da risolvere». Essa piuttosto ascolta la voce del Signore che dice: «Io sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Sull’esempio di Gesù, la Chiesa chiama i suoi fedeli all’amore disinteressato e al servizio, e quindi alla vita piena per tutti. In che modo quindi la cultura — il marchio d’infamia e la discriminazione in superficie, la sessualità nel profondo e la giustizia nella società — si pone come sfida ai cattolici africani nell’era dell’Aids? E quale sfida riserva la cultura ai cattolici di altri Paesi perché mostrino una solidarietà ben informata e ben diretta con loro?


Toccare i soggetti «marchiati» e gli esclusi. Quando i genitori, i parenti, gli amici e i conoscenti scoprono che un bambino è nato con una grave disabilità fisica e mentale, non sono fortemente tentati di rifiutare, emarginare ed escludere il bambino? E, sin dal primo momento, non esiste il pericolo che al bambino venga fatto sentire il peso della delusione e della vergogna di tutti, a cominciare dai suoi genitori? E non abbiamo sentito storie strazianti di discriminazione contro bambini, adolescenti o adulti disabili, messi al bando e trattati come se non fossero esseri umani autentici? Nella misura in cui questo è vero, può darsi che ci aiuti a capire in parte come l’Hiv/Aids agisca a livello culturale. E, se siamo in grado di opporci a questa «inevitabile maledizione», in larga misura lo dobbiamo a Jean Vanier, che, per 40 anni, ha aiutato la Chiesa a scoprire che i disabili non solo sono il cuore della comunità, ma hanno un’autentica missione ecclesiale e sociale(19).


Vanier non ha operato questa trasformazione denunciando il marchio dei disabili, ma accettandoli, amandoli e ponendoli al centro della comunità. È bene quindi sapere che, per liberarci dal meccanismo del marchio legato all’Hiv/Aids, non basta cambiare i nostri pensieri e le nostre parole. Non è sufficiente neppure in Africa, dove politici, campioni dello sport, star della musica e leader religiosi denunciano l’emarginazione o addirittura dichiarano di essere loro stessi sieropositivi. Infatti, essendo importanti, ricchi e potenti, essi appaiono al sicuro dal pericolo della discriminazione, mentre la gente comune è troppo povera e troppo vulnerabile per godere di tale immunità.


Combattere la discriminazione significa stendere le proprie mani, toccare, fare. «Come Gesù si identificò con i sofferenti, noi cristiani siamo oggi chiamati a identificarci con i vulnerabili e i sofferenti di fronte alla grande minaccia dell’Hiv/Aids. Una solidarietà mirata all’amore e alla cura spazzerà via ogni forma di marchio»(20). È il tipico modo di operare della Chiesa — dal punto di vista umano, materiale e spirituale — che reca consolazione agli orfani, ai vedovi, ai nonni e alle intere famiglie come ai molti vulnerabili bambini e donne le cui vite sono state devastate a causa della malattia. In altre parole, che include gli esclusi, attira a sé e tocca gli «appestati».


Dire un «sì» radicale alla sessualità umana. Affermare la dignità delle persone significa formare la loro moralità, spingerle verso la vita e la libertà. Questo vuol dire avere il coraggio di dire «no» a se stessi e insegnare il «no» agli altri, in nome del «sì» alla vita. Non tutti i bisogni sono legittimi, non tutte le scelte sono sagge, corrette e portatrici di vita. Il cosiddetto «cambiamento di comportamento» è il lodevole tentativo di instillare la responsabilità etica senza invocare Dio o esprimere giudizi morali. La Chiesa promuove la difesa di un comportamento retto nonché il cambiamento di ciò che ha bisogno di essere cambiato, ma ognuno è peccatore, ed essa chiama tutti alla conversione, al pentimento, alla determinazione. La morale cattolica affronta il discorso della sessualità con persone di età differenti, in modo da rendere giustizia a questo grande dono e mistero. Questo perché il tema della morale è al centro della lotta della Chiesa contro l’Aids, della formazione dei seguaci di Cristo e del servizio alle persone in difficoltà. A tale proposito affermano i vescovi africani: «La morale che insegniamo nel nome di Dio cerca di rispettare e affermare la vita umana che deriva il suo valore e la sua dignità dal fatto che è l’inviolabile dono del nostro Padre Celeste, il quale crea ogni essere umano e chiama tutti alla pienezza della vita»(21).


Un insegnamento chiaro ed efficace spesso esige una risposta generosa. Lo scorso anno, a Durban, 72 giovani delegati di undici Paesi africani si sono impegnati pubblicamente a combattere l’Hiv «con l’assunzione di uno stile di vita che promuova un comportamento sano e morale». «Siamo consapevoli che gli stili di vita e le società sono cambiati e possono cambiare in meglio grazie ai nostri sforzi. Perciò, con rinnovato impegno ed energia, noi intendiamo promuovere la vita tramite il rinnovamento della nostra società nel campo del comportamento, come africani che rispondono all’Africa, a cominciare da noi stessi»(22). Molti, in Occidente, considererebbero tale aspirazione poco realistica, se non addirittura assurdamente fuori moda. Tuttavia, dal punto di vista di chi si trova in prima linea, tale coraggiosa analisi e tale determinata risoluzione meritano ammirazione e sostegno. In queste pagine è presente più di una critica alla concezione della sessualità occidentale globalizzata, in quanto essa rappresenta la tendenza dominante, mentre le pecche presenti nelle culture e nelle consuetudini africane non sono state prese in considerazione, come, ad esempio, la vulnerabilità di bambini e adolescenti agli abusi, la condizione delle donne, lo status sessuale degli uomini. Tale critica costituisce il compito degli africani in Africa. La morale sessuale cristiana è stata forse sempre controcorrente e lo è oggi in modo nuovo nell’epoca dell’Aids, in cui si oppone ai miti globali della sessualità. Essa, quando è necessario, mette in discussione anche gli africani e le loro culture.


In merito alla giustizia distributiva e alla solidarietà generosa. In Occidente spesso molti si domandano perché l’Aids si manifesti in modo così grave in Africa e per quale motivo le statistiche siano peggiori che in qualsiasi altro luogo del mondo. A questa insistente domanda si può rispondere con una sola parola: povertà. Non è una risposta che incontri molto entusiasmo da parte degli occidentali. Eppure i membri poveri ed emarginati della società africana non hanno accesso all’educazione di base, all’informazione relativa all’Hiv e all’Aids, alla cura della salute, al lavoro, al trattamento e al sostegno. Una simile situazione di ingiustizia rende più persone maggiormente vulnerabili alla minaccia dell’Hiv e alle tragiche conseguenze dell’Aids di quanto non accadrebbe se avessero uno standard di vita un po’ più simile a quello occidentale. Quando, nel 2000, il presidente sudafricano Thabo Mbeki ha affermato che la vera causa dell’Aids è la povertà piuttosto che l’Hiv, è stato ampiamente criticato(23). Ma c’è una buona parte di vero nella sua controversa affermazione, e i vescovi africani hanno identificato e articolato ciò che c’è di valido nella sua intuizione: il virus si sviluppa in modo direttamente proporzionale alla povertà. «La povertà procede di pari passo con l’Hiv e l’Aids. Ci preoccupa che le nostre già fragili economie debbano essere ulteriormente indebolite a causa della perdita di buona parte della forza lavoro specializzata dovuta all’Hiv e all’Aids. La povertà facilita la trasmissione dell’Hiv, rende inaccessibile un trattamento adeguato, accelera la morte dovuta a malattie connesse all’Hiv e moltiplica l’impatto sociale dell’epidemia»(24).


Secondo l’insegnamento sociale cattolico, le strutture di peccato — spesso causa della miseria estrema nelle sue molteplici ramificazioni — forniscono l’ambiente propizio nel quale alligna il peccato individuale. I ministri della Chiesa, nella loro lotta contro l’Aids, hanno bisogno di coordinarsi meglio con ogni sforzo per sradicare la povertà, combattere il male e sostenere lo sviluppo umano: a) essendo certi che ogni uomo, donna o bambino debba soddisfare i suoi bisogni nutrizionali fondamentali; b) procurando un’adeguata cura della salute di base, infrastrutture idonee e veramente accessibili; c) fornendo personale alle cliniche e ai centri per la salute e approvvigionandoli adeguatamente con i farmaci essenziali; d) offrendo a ogni bambino e ad ogni adolescente un’educazione di base di qualità; e) assicurando acqua non inquinata e servizi igienici per tutti; f) aumentando l’occupazione(25).


Per combattere l’Aids in maniera responsabile, dobbiamo insegnare il rispetto per il sacro valore della vita e il corretto approccio alla sessualità. Ma fare questo senza considerare le condizioni spesso estremamente difficili in cui vivono le persone in Africa significherebbe insistere sempre sulle buone intenzioni e sul solo potere della volontà, trascurando quelle forze e quelle strutture che opprimono letteralmente i poveri. Allora si cadrebbe nel moralismo senza fare nulla di positivo. Perciò, che li si chiami riduzione della povertà, sviluppo sostenibile, sfide del Millennio o lotta all’Aids, si tratta sempre degli stessi obiettivi: la speranza è che la Chiesa in Occidente sia in grado di seguire la Chiesa in Africa nella lotta per la giustizia e la sconfitta dell’Aids.


Conclusione


Molti africani sono sieropositivi o malati di Aids e questo costituisce un fardello di sofferenza, una croce, sia per il singolo sia per la famiglia. Quando qualcuno è malato, a volte si tratta soltanto di malattia del corpo, ma in altri casi (spesso?), la malattia esprime anche la profonda angoscia del cuore, della mente, dei rapporti e dell’anima di una persona. In riferimento a quest’ultimo significato, rivolgendosi alla Chiesa in Africa, Giovanni Paolo II indicava l’Hiv/Aids come sintomatico di «una patologia dello spirito»(26). La pandemia è una palese manifestazione delle disfunzioni esistenti a un livello più profondo in Africa e nei rapporti con l’Africa.


* * *


a) Il marchio e la discriminazione sono reazioni legate all’ignoranza, alla paura, all’insicurezza, non molto diverse da quelle che avrebbe chiunque in qualunque altra parte del mondo fosse minacciato dall’Hiv o da altre forme profondamente disturbanti di insufficienze umane. Il marchio e la discriminazione vanno condannati, ma occorre anche capirne le cause, e si rende perciò necessario un autentico mutamento culturale.


b) La sessualità riveste sempre e in ogni luogo una misteriosità importante, e il modo in cui gli africani si appropriano della loro sessualità dovrebbe essere ascoltato e apprezzato, come la Chiesa cerca di fare. La minaccia dell’Hiv non cambia la morale della Chiesa — fondata sulle Sacre Scritture e su duemila anni di tradizione —, ma la diffusione del virus rende più pressante per la Chiesa trasmettere e comunicare la propria morale ai fedeli, in particolare ai giovani, e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, condividono i valori cristiani. C’è urgente bisogno di resistere alla cultura globalizzata e di promuovere i valori africani, e non si può non riconoscere che la morale cattolica è un modo importante per raggiungere tali obiettivi.


c) Il servizio e la giustizia sociale sono parte integrante della risposta della Chiesa all’Aids. Questo è il motivo per cui la Chiesa, in modo del tutto naturale, unisce al ministero pastorale la cura della salute, l’esercizio della compassione e il sostegno spirituale, la morale personale, l’etica sociale e l’educazione alla prevenzione. Offrire compassione senza considerare le strutture del peccato, o predicare la morale e la prevenzione senza combattere la povertà significa disprezzare la tradizione della Chiesa e negare la sua missione di proclamare il Regno di Dio, nel quale il peccato e la morte sono sconfitti per sempre.


 


* Ringrazio p. Damian Howard per molti buoni suggerimenti e l’aiuto editoriale. [Il p. Czerny è direttore della «Rete per l’Aids dei gesuiti africani» (African Jesuit Aids Network – Ajan), fondata nel 2002. La missione dell’Ajan è incoraggiare e aiutare i gesuiti e i loro collaboratori in Africa a dare una risposta reale ed evangelica all’Hiv/Aids, sia nei quasi 30 Paesi dell’Africa subsahariana dove è presente la Compagnia di Gesù, sia a livello internazionale. L’Ajan pubblica un bollettino mensile on line gratuito — AJAN News — in inglese, francese e portoghese, disponibile rivolgendosi all’indirizzo ajanew@jesuits.ca e ha un suo sito web (http://www.jesuitaids.net). L’indirizzo postale è: African Jesuit Aids Network – Box 571- 00606 Nairobi – Kenya (ndr)].


1 Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale del Malato (Gmm), n. 2 (11 febbraio 2005), che cita l’Esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Africa, n. 116.


2 «Cultura» significa il modo in cui un gruppo di persone vive, pensa, sente, si organizza, celebra e condivide la vita. Alla base di ogni cultura ci sono sistemi di valori, significati e visioni del mondo che si manifestano attraverso il linguaggio, i gesti, i simboli, i rituali e gli stili (cfr 34a Congregazione Generale della Compagnia di Gesù [1995], Decreto 4, n. 1)


3 I dati relativi alla popolazione sono tratti da New People, n. 91, luglio-agosto 2004. I dati sulla pandemia da UNAIDS, Report on the global HIV/AIDS epidemic, giugno 2004, e da AIDS epidemic update, dicembre 2005.


4 Gmm, n. 3.


5 Cfr A. P. Sarpong, «The Cultural Practices Influencing the Spread of Hiv/Aids», in M. F. Czerny (ed.), AIDS and the Church in Africa: To Shepherd the Church, Family of God in Africa in the Age of Aids, Nairobi, Pauline Publications Africa, 2005.


6 G. Tshikendwa Matadi, De l’absurdité de la souffrance à l’espérance: Une lecture du livre de Job en temps du Vih/Sida, Kinshasa, MediasPaul, 2005, 254.


7 Tutte le storie sono tratte da H. Jackson, AIDS Africa: Continent in Crisis, Zimbabwe, Safaids, 2002, 347.


8 Cfr F. Nubuasah, Stigma and Discrimination, Dakar, ottobre 2003. L’Autore, vicario apostolico di Francistown, cita il «Rapporto sullo studio del marchio d’infamia e della discriminazione» del Governo del Botswana, in M. F. CZERNY (ed.), AIDS and the Church in Africa, cit., 2005.


9 Simposio delle Conferenze Episcopali d’Africa e Madagascar (SECAM), «La Chiesa in Africa di fronte alla pandemia dell’Hiv/Aids», 2003, Action Plan III, 2.


10 Messaggio della quindicesima Assemblea Plenaria dell’AMECEA, Chiamati a essere buoni samaritani, 2005, n. 5, con riferimento a Lc 17,11-19.


11 Cfr E. C. Green, «Aids in Africa, a Betrayal: The one success story is now threatened by U.S. aid bureaucrats», in The Weekly Standard, 31 gennaio 2005.


12 AMECEA 2005, cit., n.14.


13 B. Bujo, «What morality for the problem of Aids in Africa?», in M. CZERNY (ed.), AIDS and the Church in Africa, cit.


14 Cfr T. H. Muzeta, Consecrated Celibacy in the Twenty-First Century: An African Perspective, Dublin, Milltown Institute of Theology and Philosophy, 2003, 12.


15 Cfr ivi, 9 s.


16 A. Munro, In conversation with the Catholic Church: a response to Aids, manoscritto, Sud Africa, 2005.


17 Gaudium et spes, n. 25.


18 B. Bujo, «What morality for the problem of Aids in Africa?», cit.


19 Vanier è il fondatore de L’Arche, comunità di persone disabili e non, che vivono insieme, e di «Fede e Luce», movimento di sostegno alle famiglie con un membro disabile.


20 AMECEA 2005, cit.


21 SECAM 2003, par. II.


22 3rd Inter-Africa Youth Alive Conference held at Saints Hospitality Centre, Durban, 16-21 gennaio 2005.


23 Cfr ivi.


24 SECAM, The Church in Africa in face of the Hiv/Aids Pandemic: «Our prayer is always full of hope», 2003, § 4.


25 M. J. Kelly, «Why is there so much Aids in Zambia?», in Jesuit Centre for Theological Reflection Bulletin, July 2001.


26 Gmm, n. 3.

© La Civiltà Cattolica 2006 II 261-274         quaderno 3741