(Avvenire) Petrucciani, genio scampato all’eugenetica

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Prima di squartare un embrione perché non piace
(19 maggio 2005)
Signori scienziati, ricordatevi di Michel Petrucciani

di Roberto Paludetto

«Sometimes I think someone upstairs saved me from being ordinary». («Talvolta penso che qualcuno, lassù, mi abbia preservato dall’essere uno qualunque, una persona ordinaria»).

C’è un nonsoché di trascendente in quel vocabolo così ordinario “upstairs”, che vuol dire “al piano di sopra, in fondo alla scala” quando si scopre che a dire questa frase è stato Michel Petrucciani, uno dei più rinomati ed amati jazzisti moderni, morto nel 1999 a 37 anni. Alto circa un metro, per 30 chili di peso, doveva camminare sempre con le stampelle e per suonare il pianoforte doveva applicare una protesi ai pedali, per poterci arrivare.

Ricordo con tenerezza quella testa sproporzionata, quelle braccia così corte, quelle mani così forti e precise, quelle acrobazie per andare da una parte all’altra degli 88 tasti, che più di una volta hanno tenuto col fiato sospeso (oddio, cade!) gli spettatori dei suoi concerti. Eppure aveva un tocco personalissimo, una perfezione melodica che molti pianisti “sani” gli invidiano tutt’ora, un senso ritmico non comune e un sorriso assolutamente disarmante.

Insomma, poteva essere un fenomeno da baraccone, e invece non è mai stato “un handicappato che suona il pianoforte”: è stato un uomo vero, uno che ha sgobbato per poter vivere della musica che aveva imparato in casa, uno che ha capito il suo limite e dopo averlo riconosciuto, lo ha superato impegnando oltre misura tutti i talenti che un destino impietoso aveva racchiuso in quel suo corpo deforme. Di sé diceva di essere un uomo realizzato, perché era riuscito a non permettere ad alcunché di impedirgli di fare ciò che voleva fare.

Il mio ricordo emozionato lo vede, come se fosse ora, suonare ispirato di fronte alla folla del grande concerto di Bologna, alla presenza del Papa, alla chiusura del Congresso Eucaristico del 1997. Lo vede scendere dal seggiolino con fatica e accogliere l’applauso della gente aggrappato al pianoforte. Lo vede prendere le stampelle per andare a rendere omaggio al Papa, sollevato, sostenuto, quasi trascinato dall’ovazione di quei trecentomila che l’avevano appena ascoltato. Lo vede fermarsi ai piedi di una impietosa scala, troppo ripida e lunga, al di sopra della quale, “upstairs” stava il Papa plaudente. Lo vede rinunciare alla salita, e nello stesso tempo, abbandonate per un attimo le stampelle, indicare il suo cuore che batte e fare l’eloquente gesto di un abbraccio. Lo vede riabbracciato con il medesimo gesto dal Papa, che in cima alla scala lo benedice.

Lo dico sinceramente: quei passi claudicanti, quel corpo sfigurato, quell’abbraccio a distanza sono l’immagine che più spesso ricorre alla mia mente quando prego con la frase di Sant’Ireneo: «La gloria di Dio è l’uomo vivente».

Oggi, prima di scrivere questo testo, la scoperta su un sito Internet di quella sua frase: «Talvolta penso che qualcuno, lassù, mi abbia preservato dall’essere uno qualunque, una persona ordinaria». Di fronte alla meraviglia di ciò che riesce a tirare fuori da se stesso, pur in condizioni che razionalmente sarebbe esatto definire beffarde, all’uomo non importa di misconoscere i propri meriti accreditandoli al Cielo. Un Cielo che in quelle condizioni è semplicemente “upstairs”, il piano di sopra.

Che tristezza, che meschinità, che squallore se penso che in questo momento, prima che un’avventura umana magari simile a questa possa fiorire e dare i suoi meravigliosi frutti, c’è uno scienziato qualunque che in un laboratorio qualunque sta strappando cellule ad un embrione e se la diagnosi preimpianto decreterà che il soggetto sarà nano, gobbo e deforme, non ci penserà su nemmeno un attimo, e butterà via tutto, l’uomo, l’anima, il talento, la fatica, la conquista, l’amore, l’emozione, la dignità, la vita e la gloria di Dio, nel lavandino del sottoscala. In inglese, downstairs.