(Avvenire) Perchè i cristiani sono perseguitati in India

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Contraddizioni e fanatismi svuotano l’eredità di Gandhi

di Vittorio E. Parsi

Avvenire 27-8-2008 La più grande democrazia del mondo. È questa la definizione che viene normalmente associata all’India. Sarebbe oggi ingeneroso e comunque sbagliato dimenticarla, o metterla radicalmente in discussione. E però appare doveroso interrogarsi sulla qualità di questa democrazia e sulla direzione che essa sta prendendo.

Nell’Unione indiana vige la separazione dei poteri, l’indipendenza della funzione giudiziaria, un pluripartitismo non di facciata e la stampa è libera. Allo stesso tempo, però, la corruzione diffusissima e la conduzione spesso mafioso-clientelare della vita politica in singoli stati, unite alla sostanziale impunità di cui godono le azioni violente delle formazioni estremiste, rischiano di svuotare il significato concreto della democrazia indiana.

In particolar modo, desta allarme il crescere della violenza settaria, che prende di mira in particolar modo i cristiani – responsabili di assistere i dalit, i fuori casta, vera base schiavistica del sistema piramidale sul quale è tradizionalmente organizzata la società indù – ma anche musulmani e buddisti.

Ciò che sta avvenendo in India con frequenza e intensità preoccupanti mostra il lato oscuro della medaglia della conquista di un’indipendenza illuminata dall’azione non violenta del Mahatma Gandhi, nella cui stessa parabola esistenziale, con la sua tragica conclusione, è racchiuso simbolicamnte il carico di contraddizioni di questo straordinario paese: dalla riscoperta della cultura tradizionale e dell’economia di villaggio, fino alla scelta di vivere come l’ultimo degli ultimi, al tentativo di preservare l’unità e la pluralità religiosa dell’antico Raji britannico, alla morte violenta per mano di un estremista indù.

A distanza di oltre sessant’anni dall’indipendenza, oggi sono proprio le posizioni che vorrebbero un’India solo ed esclusivamente indù a fare sempre più proseliti. Movimenti come la Rashtriya Swayamsevak Sangh sono espressione di una cultura nazistoide, che predica con la violenza la falsa equazione tra indiani e indù, nonostante il fatto che vivano in India più musulmani che in gran parte dei paesi islamici. Certo, l’egemonia indù all’interno del sistema politico indiano è sempre esistita, ma essa era stata in qualche modo depotenziata dal fatto che i primi protagonisti della vita repubblicana, da Nehru a Indira Gandhi, tutti espressione del Partito del Congresso, si muovevano all’interno di una visione sostanzialmente laica della politica, e finivano quindi col congelare le conseguenze più devastanti di tale contraddizione.

È probabile che questo odierno ghignante "spirito del tempo" in cui i fondamentalismi e l’abuso politico della religione sembrano risorgere, oltre alla deriva radicale intrapresa dal vicino Pakistan, abbiano contribuito ad alimentare il successo di movimenti come la Rashtriya Swayamsevak Sangh e di un partito come il Bharatiya Janata. Ma – come giustamente ha osservato il cardinale Jean-Louis Tauran – c’è anche nell’induismo una spinta crescente all’intolleranza e al fanatismo, che è tanto più grave proprio perché troppo poco conosciuta e troppo spesso negata.

Accanto alla contraddizione politica c’è poi quella economica. L’India è "l’ufficio" del mondo, almeno quanto la Cina è la sua "fabbrica". È una società che sforna ingegneri anglofoni a decine di migliaia l’anno, e però vive ancora nel mito gandhiano dell’economia di villaggio, cioè di quella struttura ossificata che sottrae ogni speranza, per questa e ogni altra vita, agli "ultimi" e alimenta il sistema castale con la sua scia di ordinaria violenza. Di offrire speranza agli "ultimi", per questa e ogni altra vita, sono ritenuti responsabili i cristiani. E di questa responsabilità hanno accettato di farsi carico, fino al martirio, come accaduto nell’Orissa.

Un ultimo spunto di riflessione. Il Brasile, la Russia, l’ India e la Cina sono considerati, con l’aggiunta del Sudafrica, i grandi paesi che dovrebbero bilanciare lo strapotere occidentale e rendere un po’ più multilaterale il governo del mondo. Occorre iniziare a riflettere sul fatto che, con l’eccezione del Brasile, nessuno di questi paesi sembri avviato a ridurre i pesanti deficit di democrazia interna, e sulle conseguenze che ciò implica per la "governance" internazionale.