(Avvenire) «Noi cristiani in fuga dal Sudan che ci perseguita»

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“Avvenire”, 14 novembre 2002

Parla Kuong, 27 anni, studente in Italia: da noi
i musulmani perpetrano un genocidio di cui non si parla

Di Lucia Bellaspiga
Un “cane infedele”: è con lui che abbiamo appuntamento in stazione Centrale,
a Milano. Perché questo è per la legge sudanese Kuong Daxi, un cane
infedele. Di etnia Nuer, 27 anni, fa parte di quel popolo in fuga che sono i
cristiani del Sudan meridionale, 5 milioni tra cattolici e protestanti (il
16% della popolazione) in un mare di islamici votati al jihad, la guerra
santa. «Nel mio Paese è in corso la più grande strage del secolo, ma nessuno
ne parla – dice già mentre ci stringe la mano -: sono 2 milioni le vittime
del genocidio con cui il nord islamico, sta sistematicamente annientando il
sud, ma Europa e America tacciono». Due milioni di persone trucidate nella
più generale indifferenza.

Sono tanti in stazione i neri d’Africa, ma Kuong, alto e fiero, è l’unico
Nuer: «Vede? Questo segno ci distingue: sei lunghi tagli incisi sulla fronte
col coltello quando compiamo 15 anni». Un rigo musicale che Kuong porta con
dignità, come una corona. E spiega: il Sud an è il Paese più grande di tutta
l’Africa e la guerra che vi si combatte è la più lunga del Novecento, ma
nessuno se ne accorge. «Eppure è rumorosa, fatta di bombardamenti
quotidiani, deportazioni in massa, torture, stupri, compravendita di
schiavi». E di bambini rapiti e mandati a combattere la loro stessa gente:

«Il regime di Karthoum ha deciso la scientifica eliminazione di tutti gli
abitanti del sud, colpevoli di due “crimini”: siamo cristiani e abitiamo una
regione ricca di petrolio. Bisogna fare piazza pulita e ogni mezzo è
valido». È per questo che i suoi due nipotini, 10 e 12 anni, figli dei suoi
fratelli, lo scorso aprile sono spariti nel nulla, portati via in piena
notte dai soldati del nord. Oggi mancano all’appello, come altri 200mila:
con la complicità di locali capi corrotti i bambini e le bambine vengono
venduti alle ricche famiglie arabe, o addestrati a combattere. «Le bambine
sono violentate e fatte schiave. I bambini mandati alle armi. Ed entrambi
sono costretti a st ud iare il Corano». Solo i missionari e i volontari
delle organizzazioni umanitarie si oppongono, a rischio della vita:
«Ricomprano migliaia di bambini e li restituiscono alle famiglie. Anche i
miei fratelli vorrebbero pagare il riscatto per i loro figli ma io penso che
non sia giusto: finché staremo al ricatto non saremo mai liberi. Invece
conosciamo il generale corrotto che li ha venduti ed è su di lui che
dobbiamo agire per avere giustizia».

Anche tra gli adulti la mattanza crea il vuoto. «C’è una sola speranza di
scampare alla strage: convertirsi alla fede di Allah». È per questo che
Kuong, iscritto alla facoltà di Farmacia a Pavia, dal 1994 si trova in
Italia: «Non per ragioni di studio, per laurearmi bastava Karthoum, ma
perché sono nato cattolico e tale voglio restare». Era infatti iscritto
all’università di Karthoum, finché la dittatura si è fatta più feroce: «Le
autorità hanno convocato 50 studenti, tutti cristiani, e ci hanno comunicato
che, per continuare l’università, dovevamo abbracciare l’islam. Tutti
abbiamo rifiutato e ne abbiamo pagato le conseguenze: io sono stato
arrestato dalla polizia segreta e tenuto in isolamento per quattro giorni.
Mi accusavano di avere legami con persone straniere, visto che ero
cattolico, volevano i nomi di chi ci aiutava. “Parla o ti ammazziamo”, mi
dissero. Risposi di uccidermi senza chiedermi nulla. Dovettero lasciarmi
andare».

Kuong scrisse al consiglio di facoltà una lettera, che lui stesso ci
traduce: «Siamo cristiani, non possiamo patire che ci priviate del nostro
credo. Nella vita la cosa più importante è la fede in Dio. Noi non siamo
nemici dell’islam, rispettiamo la fede di tutti, ma chiediamo che anche voi
rispettiate la nostra». Seguì la feroce reazione della polizia segreta, la
sospensione dall’università, il rastrellamento di casa in casa. «Per il loro
bene consigliavo ai miei amici, alcuni anche islamici, di non farsi vedere
in giro con me – racconta Kuong -: uno di loro non mi diede retta e si fece
8 mesi di galera». Normale in un Paese in cui la Corte Suprema di recente ha
stabilito che la crocefissione per chi si converte al cristianesimo è
costituzionale. E la galera di Karthoum è di quelle che lasciano il segno,
nella carne e nell’anima. «Mi ha salvato un frate italiano, di cui non farò
il nome per non metterne in pericolo la vita – continua il giovane -: ha
scritto all’ambasciata italiana di Karthoum e il vostro governo – era il
1994 – accolse tredici di noi. Gli altri lasciarono gli studi o accettarono
di farsi islamici. Oggi siamo rimasti in cinque, gli altri non hanno passato
gli esami e hanno perso la borsa di studio. Io a dicembre sarò laureato e
tornerò in Sudan». A curare la sua gente o a imbracciare le armi, dipende:
«Odio la violenza, non ho mai fatto male a nessuno, ma la nostra è una lotta
per la libertà: la libertà di sopravvivere, di riavere i nostri bambini, di
pregare Dio».