(Avvenire) Milano, città da amare

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Il rapporto con la città, la sfida della secolarizzazione, il confronto con le povertà, la necessità di un nuovo protagonismo dei credenti. A due anni dal suo ingresso a Milano, l’arcivescovo invita a offrire energie per il bene comune E a compiere gesti di amore, di perdono e insieme di giustizia

Tettamanzi: sogno una città dove ognuno si senta a casa



Di Francesco Ognibene


Cos’è Milano, oggi? Contenitore di domande e inquietudini condivise, avanguardia di espressioni umane e sociali, intreccio di infiniti percorsi di vita, opportunità, porte schiuse su scenari imprevedibili. Dalla sua finestra affacciata sulla metropoli, il cardinale Dionigi Tettamanzi abbraccia questa realtà con uno sguardo. E a due anni dal suo arrivo a Milano come arcivescovo, accetta di confrontarsi – da pastore, certo, ma anche da milanese – con alcuni interrogativi centrali per la città e la Chiesa ambrosiana. Regalandoci anche qualche eloquente squarcio personale.
Eminenza, il 29 settembre 2002 lei faceva l’ingresso a Milano come successore di Ambrogio e come “uno di famiglia”, per via delle sue radici brianzole. Due anni dopo questo “ritorno a casa”, com’è cambiato il suo rapporto con Milano?
«Qui, a Milano, sono le mie radici. E il loro sviluppo per tanti anni di ministero da prete. Il mio è sì un “ritorno a casa”, ma – lo dico con sincerità – lo sento un ritorno nella “casa del Signore”. Il cambio, profondo, sta nell’avvertire sempre più il grande e grave “debito” che ho con il Signore: quello di amare tutti i miei fratelli e le mie sorelle, cercando di testimoniare loro l’unica cosa che conta, cioè l’amore che Dio ha per ciascuno».
La sua agenda è sempre zeppa d’impegni, uno spendersi senza respiro da un capo all’altro di una diocesi immensa. Mi permetta di chiederle: come fa?
«Come tutti quelli che sanno di avere una responsabilità da assolvere. Con la convinzione che Dio non chiede a nessuno l’impossibile ed è sempre pronto a usare misericordia a cominciare, spero, dal vescovo. Soprattutto con la certezza della fede, che mi dice: tu fa’ tutto quello che puoi, ma sappi che il Signore arriva senz’altro a ogni cuore, perché solo lui è il Salvatore di tutti».
Nel suo discorso per la festa di sant’Ambrogio del 2003 lei disse che Milano è una città “da amare”: un invito sorprendente se si considera che la metropoli – e non è solo il caso di Milano – viene sempre più percepita come uno spazio da “usare”. Come si fa a convincere i milanesi ad “amare” la propria città?
«Forse iniziando con l’esempio. È piccola cosa, certo, ma può essere importante che il vescovo per primo offra in continuità segni concreti di amore e di simpatia per la città. E poi, sollecitando tutti – i milanesi di sempre e i milanesi di adozione – a impegnarsi di più nel creare le condizioni perché chiunque abita a Milano possa trovare e sperimentare quel “radicamento” profondo che solo può permettere a tutti e a ciascuno di “sentirsi a casa propria”. Per rendere più abitabile e bella questa “grande casa”, ci sono tante energie magnifiche che vengono profuse. Ma ce ne sono tante altre che ciascuno può spendere per il bene di tutti e con i gesti quotidiani dell’accoglienza, dell’ascolto, del dialogo, dell’apertura all’altro, della condivisione con chi è nel bisogno. Gesti di amore e di perdono. E, insieme, gesti di giustizia».
In un’area metropolitana così brulicante di futuro ma anche carica di contraddizioni le oltre mille parrocchie sono una presenza viva, eppure a rischio di vedersi ridimensionata al rango di altre mille proposte. La missionarietà alla quale lei stesso le ha chiamate sembra una sfida decisiva: ma a quali condizioni questo sforzo apostolico può lasciare un segno profondo, duraturo sulla città?
«Se si offre, come singoli ma anche come comunità, una testimonianza più convinta e più coraggiosa di “coerenza” tra la fede e le scelte della vita quotidiana. Se la fede in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, viene vissuta nel concreto servizio d’amore agli “ultimi” – e sono tantissimi e s’incrociano in continuità. Se i cristiani, con umiltà e fiducia, sanno fare scelte diverse da quelle imposte dalla cultura oggi dominante: scelte di autentica umanità, di crescita nella vera libertà, di sincero amore per Dio incontrato nel fratello che soffre. Questo è ciò che conta. Se poi il segno la sciato sarà profondo e duraturo, lo sa solo il Signore e lo vedranno anche gli altri, ma a suo tempo».
Il percorso pastorale triennale che lei ha proposto nel settembre 2003 invita ogni cristiano a riscoprirsi “testimone”, sovvertendo una certa tentazione di cedere al mimetismo. Come si può far riscoprire a cattolici spesso “fragili” la necessità di una testimonianza credente persuasiva e coraggiosa?
«C’è da invitare i cristiani a confrontarsi coraggiosamente con le numerose e spesso drammatiche sfide che la cultura e la società oggi pongono a tutti, ai cattolici in particolare, collocati come sono nel contesto di una mentalità e di un costume impermeabili o anche contrari al Vangelo. Il senso dell’invito, allora, è di maturare nella propria fede, con la riflessione seria e la preghiera costante, così da trovare in questa stessa fede la risposta piena e liberante alle attese più profonde della persona, della famiglia e della società in ogni relazione e ambiente di vita. Solo se si è capaci di rendere ragione di ciò in cui si crede, si potrà dare una testimonianza vera, credibile ed efficace».
Il suo più recente intervento richiama alla centralità della Messa domenicale. Perché questa scelta, in questo momento?
«Perché, nonostante i non pochi abbandoni, sono ancora molti i cristiani che vanno a Messa ogni domenica. E questo è un fatto unico, anche da un punto di vista sociale e umano. Ed è una testimonianza di fede. Certo, di una fede che esige di diventare spiritualmente e pastoralmente più ricca, con l’ascolto della Parola che illumina e guida le scelte della vita, con l’incontro personale con Gesù Cristo presente nell’Eucaristia, con un impegno a rivivere nei gesti quotidiani l’amore di Cristo che si dona e si mette al servizio di tutti. Celebrata e vissuta così, la Messa fa dei cristiani non solo i discepoli del Signore, ma anche i suoi testimoni. C’è una grazia e un’energia missionaria nell’Eucaristia domenicale che attende di essere p iù conosciuta e valorizzata. È questo il programma pastorale che riassume, qualifica, esalta e porta a compimento tutti gli altri programmi della comunità cristiana».
Lei coordina la fase preparatoria del convegno ecclesiale che a Verona, nel 2006, traccerà la strada per la Chiesa italiana nel prossimo decennio. Quale contributo può apportare al cantiere dell’assemblea la dinamica positiva innescata quest’estate dal riavvicinamento delle esperienze associative del mondo cattolico?
«Nessuno può nascondere i problemi e le fatiche che tuttora esistono nel vasto e dinamico arcipelago di associazioni, movimenti e gruppi di laici cristiani. Ma lo Spirito continua ad agire nella Chiesa: di qui il cammino positivo che è stato fatto e continua a essere fatto in ordine a promuovere e sostenere incontri, convergenze, collaborazioni tra le diverse realtà aggregative. Il convegno di Verona è fortemente segnato dall’istanza della missionarietà, come dice il titolo (“Testimoni di Cristo risorto, speranza del mondo”). Proprio la “missione” – testimonianza di Gesù e del suo Vangelo “per la vita del mondo” – è un punto decisivo, del tutto necessario e quantomai urgente, verso il quale tutte le aggregazioni sono chiamate a guardare e a camminare con rinnovata determinazione. D’altra parte, non c’è missione senza comunione! Ed è una “comunione” che rispetta e anzi promuove “tutte” le specificità, nel segno della reciprocità. C’è molta speranza, dunque. E la volontà non manca».
Torniamo a Milano. La recente morte di fratel Ettore, figura popolarissima di apostolo della carità, ha provocato i milanesi ricordandogli che il loro proverbiale “cuore in mano” forse si sta riducendo a logoro modo di dire. Con il variegarsi delle povertà, a quale “carità” sono chiamati oggi i milanesi? E quale santità appare oggi necessaria alla metropoli?
«C’è una tradizione di solidarietà tuttora vivace e dinamica, ma che esige di essere rinnovata e accresciuta. E questo nel segno d i una carità che dovrà sempre mirare a ogni persona e riscattarla al senso della propria dignità e dei propri diritti e doveri. Una carità che, insieme, dovrà diventare sempre più impegno corale delle comunità cristiane, chiamate peraltro a essere segno, presenza e stimolo anche per le istituzioni e per la società civile. C’è posto, soprattutto, per vivere la “novità cristiana” dei gesti di solidarietà e giustizia: la gratuità e l’eroismo che scaturiscono, come grazia e impegno, dalla croce, dal dono d’amore di Cristo per tutti. Nasce e cresce così, nei gesti quotidiani, la “santità” di un popolo, speranza di rinnovamento per la città».
Il meeting di Sant’Egidio “Uomini e religioni” recentemente ospitato da Milano ha visto sfilare tradizioni spirituali chiamate a rispondere alla pressante domanda di pace. Anche a Milano l’ombra del terrorismo condiziona la vita quotidiana. Eminenza, come si vince la paura di fronte alle guerre, al terrore globale, ai drammi dei quali siamo testimoni? E quali speranze ha raccolto durante l’incontro interreligioso?
«Ho raccolto la certezza che essenziale è avere il “coraggio” del dialogo. E ho raccolto, in molte persone, l’impegno a operare mettendo l’uomo al centro di questo dialogo, fondandolo su un nuovo umanesimo. E questo non può non aprire il cuore alla speranza. La paura, comunque, c’è. Ed è tanta. Ma va combattuta, riconoscendola a chiamandola per nome. E, dietro le singole paure, non sta forse una paura più profonda e sottile: quella dell’altro, di chi è diverso da noi, per etnìa, per storia e cultura, per religione? Per la pace non c’è altra strada che quella del dialogo, non certo quella della contrapposizione frontale e violenta. E dialogo comporta incontro, conoscenza, rispetto reciproco e impegno comune per la giustizia e la libertà. Ma questo è troppo poco o è l’imbelle visione di ingenui sognatori? Per parte mia, ma insieme a molti altri – a un popolo, spesso nascosto, ma reale di amanti e testimoni della pace -, ripeto quello che ho detto in piazza Duomo al termine dell’incontro “Uomini e religioni”: “Questo è il mio, il nostro sogno. E non vi rinunceremo mai!”».


Avvenire 26-9-2004