(Avvenire) L’apparente debolezza del Papa nel 26° del pontificato

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Wojtyla


Comincia il 27° anno del Pontificato dei record

Sotto l’apparente debolezza la radicale essenzialità della Lettera sull’Eucaristia: «Mane nobiscum Domine»

E’ un anno, questo ventiseisimo di pontificato, festeggiato oggi, che era cominciato sotto il segno di un’apparente debolezza. Il 19 ottobre scorso, giorno della beatificazione di Madre Teresa di Calcutta, per la prima volta il Papa non legge neanche una riga di omelia. E nemmeno due giorni dopo, al Concistoro in cui nomina trenta nuovi cardinali. La parola gli manca. Per la prima volta in una funzione solenne, Giovanni Paolo II tace. Una debolezza fisica, dolorosa, che non toglie però vigore al pontificato. Sfilano i Grandi davanti al soglio di Pietro. Putin, che non invita il pontefice a Mosca. Alla vigilia dell’arrivo di Sharon il Papa dice che «il Medioriente ha bisogno di ponti, non di muri». Sharon lascerà Roma senza passare dal Vaticano. A giugno, Bush viene sollecitato con nettezza al ritorno della sovranità all’Iraq. Poi tocca a Zapatero, il “modernizzatore” della Spagna. La parola del Papa può fisicamente faticare a farsi voce, ma il senso resta sempre ben netto – difficile, inaddomesticabile, scomodo. Due di maggio, all’Europa a 25, che accoglie dieci nuove nazioni, rivolge il monito a «riscoprire le proprie radici cristiane». Il dibattito fra gli intellettuali è in corso da mesi, acceso quanto immemore: quali radici? Cristiane? Veramente? Il 20 giugno, alla mancata menzione nel prologo della Costituzione europea delle contestate «radici», il Papa da San Pietro si lascia andare in polacco un amaro, contrariato «Non si tagliano le radici dalle quali si è nati». Nella lingua materna, di getto, come preso da un rammarico cocente per una perduta occasione di comune memoria. O come rivedendo in un lampo – il vecchio combattente, il ragazzo che vide la sua terra occupata dai nazisti, il fiero avversario dello stalinismo – che il Muro è sì caduto, che i vecchi terribili nemici sono morti, ma si sta rischiando di perdere anche la coscienza di ciò che è fondamentale perché tutto – una volta ancora – non possa ricominciare da capo. Non solo però ammonente, o amaro . Il 16 di maggio diventano 482 i santi canonizzati da Wojtyla. Una schiera, un esercito di santi. Molti, figure quasi contemporanee a noi. La sfida di questo Papa: i santi non sono leggenda del passato, pie immagini scolorite dal tempo. I santi stanno in case uguali alle nostre, hanno facce di gente comune, camminano per le strade. La santità abita nel quotidiano, e in terra, più che in cielo – giacché è qui, che ce n’è più bisogno. Tre di ottobre, fra i nuovi beati c’è Anna Katharina Emmerick, mistica trecentesca. La sua visione della Passione di Cristo (utilizzata tra l’altro da Mel Gibson nel film The Passion) è dettagliata e straziante. La beatificazione pare un dito puntato su quelle pagine, sul mistero immenso della sofferenza e della Croce, che tanto pare gravare sulle spalle e sui pensieri di questo Papa malato. Dalle cui mani infine, ultimo atto del ventiseiesimo anno di pontificato, viene la lettera apostolica Mane nobiscum Domine, dedicata all’anno dell’Eucarestia che comincia domani. Una lettera, perché il “pane spezzato” sia sempre al centro della vita della Chiesa – non altro, non le buone parole o le migliori intenzioni o iniziative o progetti, insomma nessun devoto volontarismo, ma nient’altro che quel pane spezzato. Una lettera il cui titolo stesso è una preghiera in tre parole – come di chi ha poco fiato. Nel segno della radicalità essenziale, mendicante e fiera a un tempo, che è da sempre la cifra del cristiano Wojtyla.