(Avvenire) La buona tv è ancora possibile

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La fiction sul medico
Giuseppe Moscati

C’è una tv che
emoziona e batte i famosi nell’isola

Mirella Poggialini

Raccontare la vita di un
santo sottolineandone l’umanità e il suo
contatto con il mondo, per far comprendere quanto sia legata alla vita
quotidiana la perfezione che rivela la Grazia. È il compito non facile
di chi si è preparato a descrivere la vicenda di un uomo-santo, che
cento anni fa ha vissuto con intensità la sua esistenza donandosi agli
altri nella sua professione di medico. Quanta distanza, mercoledì sera,
tra la fiction Giuseppe Moscati, in onda su Raiuno, e L’isola dei
famosi, su Raidue. Secondo i fuorvianti ma imperanti criteri
dell’Auditel i due programmi erano in concorrenza tra loro. E, ancora
una volta, come sempre più spesso capita ultimamente, da quando il
pubblico ha smesso di trangugiare acriticamente tv spazzatura,
l’effimero ha dovuto soccombere anche in termini di ascolto di fronte
al peso della qualità: 5.378.000 telespettatori pari al 21.14% di share
per Moscati contro 4.398.000 con il 19.37 per Simona Ventura e soci. A
riprova, insomma, che l’utile (la fiction di Raiuno) può essere anche
dilettevole. Basta osare e avere più rispetto per il grande pubblico.
Non era facile, oltretutto, definire senza irrigidimenti da santino la
figura di Giuseppe Moscati, il medico napoletano morto nel 1927 a
quarantasei anni e canonizzato da Giovanni Paolo II nel 1987. Non era
facile proprio per la sua vita “normale”, per le vicende che hanno
segnato la sua aderenza al mondo, la sua attenzione verso i poveri e i
derelitti, insieme alla sua geniale capacità professionale. E ben ha
fatto il regista Giacomo Campiotti, sperimentato nel cinema, a
costruire per Rai Fiction un film dai colori forti, mescolando
coraggiosamente generi e toni, esprimendosi con un linguaggio filmico
semplice ma cattivante. Non un’agiografia da immaginetta, stereotipata
secondo schemi convenzionali: ma una storia densamente popolata da
facce “giuste” – lo scugnizzo sfortunato e generoso, il professore
burbero che accetta l’allievo che gli si oppone perché lo apprezza e lo
ammira, l’am
ico debole e poi infido – sullo sfondo vagamente teatrale di una Napoli
alla Serao. Beppe Fiorello ha dato al medico buono un volto sensibile,
pronto al sorriso.
Quando c’è una storia che vale, quando il personaggio “tiene”, quando
chi lo rende sullo schermo appare convinto di ciò che fa, il risultato
non può che esser positivo: e si è incontrato qui, certamente, con
quella gran voglia di bene che è celata in molti di noi. Anche chi
segue con perplessa ammirazione l’acido dottor House, anch’esso l’altro
ieri posto a confronto sul piccolo schermo con il generoso dottor
Moscati, ha sentito ammirazione e una sorta di nostalgia per il medico
amico, quello che ti segue con dolcezza quando soffri e sa dirti le
parole giuste per attenuare il dolore, prima di farlo con la medicina.
Le scene in cui vediamo Moscati con i folli del manicomio di Torre del
Greco, la sua sensibilità con i parenti dei malati più derelitti, la
comprensione verso chi soffre la duplice paura del male e
dell’abbandono sono apparsi paradigma efficace di un atteggiamento in
cui la carità, l’amore per gli altri, si rivela nel suo quotidiano
manifestarsi. Una storia buona diventa, così fatta, una buona storia: e
gli autori hanno saputo alternare con vivace inventiva i toni coloriti
della sceneggiata e i dati raffinati, come la bella scena in cui
Moscati prega davanti al Cristo velato del Sanmartino, nella cappella
di san Severo, interrogandosi sul suo destino. Scena che si innesta con
rapido montaggio nell’immagine successiva dell’uomo dal volto ferito e
bendato, che chiede aiuto dal letto d’ospedale. Gesù risponde a chi lo
chiama: ed è prezioso e non frequente che un film dal piglio “popolare”
riesca per immagini a toccare il cuore di chi “si sente sconfortato”,
come il piccolo Angelo morente fra le braccia del medico. Ben venga la
tv che emoziona e commuove, se getta semi di speranza e di serenità.

Avvenire 28-9-2007