(Avvenire) La Speranza che non delude

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Nella «Spe salvi» risposte all’ansia di infinito


(Avvenire 04 dicembre 2007)


Quel desiderio di Itaca che svela la felicità vera


Giacomo Samek Lodovici

Nel paragrafo 30 della magnifica enciclica Spe salvi,
firmata venerdì scorso, Benedetto XVI scrive che «l’uomo ha, nel
succedersi dei giorni, molte speranze – più piccole o più grandi –
diverse nei diversi periodi della sua vita. A volte può sembrare che
una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non abbia bisogno
di altre speranze».

Questa soddisfazione, però, è solo
temporanea, e ciò verso cui ci sospingeva la nostra speranza finisce
per deluderci, più o meno cocentemente: «Quando, però, queste speranze
si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il
tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada
oltre».
Il Papa ci invita così a riflettere sul sentimento della delusione.

L’uomo,
in effetti, lo può sperimentare sotto due forme. C’è la delusione per
uno scopo mancato: speravo di ottenere un buon lavoro e non l’ho avuto,
speravo di avere una bella casa e non l’ho posseduta, di essere amato e
non sono stato amato…, e perciò sono insoddisfatto. Ma c’è anche la
delusione per uno scopo ottenuto, quella che proviamo perché il suo
conseguimento non ci soddisfa come ci eravamo aspettati: speravo di
ottenere un buon lavoro e l’ho ottenuto, speravo di avere una bella
casa e l’ho posseduta, di essere amato e sono stato amato…, eppure,
ogni volta, contrariamente alle mie speranze, pur avendo investito
moltissime energie per cogliere questo obiettivo, non sono appagato.
Questo
secondo tipo di delusione ci consente di comprendere che l’oggetto del
desiderio umano non è rinvenibile in alcuna esperienza finita. Infatti
quando raggiungiamo i nostri obiettivi non li apprezziamo più, e
desideriamo altre cose. In questi momenti sperimentiamo che ciò che
volevamo veramente non l’abbiamo raggiunto.
Potremmo allora
disperare, pensando che l’uomo non possa mai conseguire una
soddisfazione definitiva e piena. Ma, al contrario, questa delusione va
interpretata diversamente. Invece di farci disperare per
l’insaziabilità dell’uomo, essa dev’essere vista come l’indizio che è
un’altra la felicità conforme agli esseri umani, che è un’altra la
speranza che non delude (Rm 5, 5).
Così, questa delusione mostra che
siamo perennemente insoddisfatti non perché abbiamo conseguito questo o
quel bene invece di un altro, bensì per via della natura finita di
tutti questi beni, incapace di appagare il desiderio umano. Come ha
detto Simone Weil «quaggiù ci sentiamo stranieri, sradicati, in esilio;
come Ulisse, che si destava in un paese sconosciuto dove i marinai
l’avevano trasportato durante il sonno e sentiva il desiderio d’Itaca
straziargli l’anima».

Allora – prosegue il passo
dell’enciclica – «si rende evidente che può bastargli [all’uomo] solo
qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli
possa mai raggiungere».
Nel cuore dell’uomo alberga, insomma, un
desiderio radicale che non è il desiderio di qualsivoglia bene finito
bensì di un Bene Infinito. L’esperienza di delusione dello scopo
conseguito ci fa così comprendere che la soddisfazione del nostro
desiderio può darla solo la comunione definitiva e totale con Dio. Solo
quella totale, non quella provvisoria e parziale che ci è data nel
corso della vita.

Quale sia Itaca per noi ce lo indica Agostino (nel celeberrimo incipit
delle Confessioni, che sicuramente il Papa aveva ben presente quando ha
scritto questo paragrafo 30): «Ci hai fatti per te [o Dio], e il nostro
cuore non trova pace finché non riposa in Te».