(Avvenire) La Birmania chiede aiuto, saremo capaci di aiutarla?

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Noi e la Birmania

Battere sugli «amici» per piegare la giunta militare

Bernardo Cervellera

Il sangue comincia a scorrere in Myanmar, dove l’esercito ha ucciso
almeno sei monaci buddisti e ha caricato le folle dei manifestanti con
manganelli e facendo fuoco. Il tutto sembra un remake
delle violenze dell’88, quando le dimostrazioni a favore della
democrazia furono soffocate con la spietata uccisione di almeno 3mila
persone e l’arresto di centinaia di attivisti democratici. La comunità
internazionale sembra aggirarsi impotente attorno allo scenario della
crisi birmana, esortando e addirittura «pregando» (sono parole
dell’inviato Onu, Ibrahim Gambari) la giunta di non ricorrere più ai
metodi forti.
Anche l’impotenza del mondo è una triste ripetizione. In questi decenni
si sono registrati in Myanmar molteplici episodi e situazioni di
violenza e oppressione: dal genocidio contro le minoranze del Nord allo
schiavismo e alla cancellazione di regolari elezioni; dal controllo sui
media agli arresti di leader democratici e alle torture dei dissidenti.
Eppure la giunta militare non ha mai ricevuto alcuna condanna dalla
Commissione Onu per i Diritti umani. Perfino l’embargo sulle armi,
attuato dall’Unione Europea, è inefficace, perché in aiuto al regime
sono intervenute la Cina – suo primo fornitore – e, da qualche tempo,
la Russia di Putin, che lo scorso maggio ha "regalato" alla giunta un
reattore nucleare.
Oggi, negli Usa e in Europa si discute di incrementare le sanzioni,
anche quelle economiche, verso Myanmar. Non si sa però quanta efficacia
tali misure potrebbero avere: anzitutto perché dovrebbero essere
attuate da tutta la comunità internazionale e, poi, perché rischiano –
come spesso avviene – di colpire solo la gente comune, lasciando
intatto il potere del regime. Negli anni, i birmani si sono andati
impoverendo sempre più, e larghi strati della popolazione sono ormai
ridotti a livelli di sussistenza. Ne è prova l’enorme squilibrio fra il
cambio ufficiale (1 euro per 6 kyat) e quello al mercato nero (1 euro
per 1.790 kyat), il quale va a tutto vantaggio di chi possiede divisa
estera: cioè la casta militare, che nella miseria del Paese garantisce
a se stessa privilegi e prezzi speciali per cibo, carburante, auto e
case.
Affinché si possa influire sulla situazione occorre, dunque, agire sui Paesi che sostengono la giunta. In primis
la Cina, che collabora con Myanmar in programmi di spionaggio
elettronico per il controllo dell’Oceano Indiano e della guerriglia
birmana, ed è interessata a costruire un oleodotto fino allo Yunnan.
Quindi, l’India, che affamata delle risorse energetiche del Paese,
offre aiuti al regime fin dagli anni ’90 in cambio di un faraonico
gasdotto che dovrebbe attraversare Myanmar e Bangladesh. E, infine,
l’Asean (una vasta organizzazione dei Paesi asiatici), che con la sua
politica di «non interferenza» si è garantita lo sfruttamento delle
ricchezze naturali birmane.
Resta l’Occidente, che forse possiede armi spuntate. Ma che può fare
molto nei confronti dei propri amici, che sono anche amici dei militari
al potere. Per far sì che le sanzioni "mordano" i potenti, devono
costare qualcosa a tutti noi. Perché, allora, non minacciare Pechino di
boicottare le Olimpiadi se non induce il regime di Myanmar a
risparmiare al mondo una nuova Tiananmen e ad aprire un dialogo di
riconciliazione nazionale? Perché non bloccare i commerci con l’Asean
(che ha Ue e Usa come partner privilegiati) se non si liberano i
prigionieri politici birmani? E perché l’inviato Onu non va subito in
Myanmar, senza aspettare la metà di ottobre, quando la rivolta potrebbe
essere già stata soffocata nel sangue?
Per tali gesti, assai onerosi, bisogna avere a cuore il destino dei
popoli lontani almeno quanto quello della propria gente. Purtroppo,
l’impressione è che le manifestazioni colorate dal rosso dei bonzi, il
rosa delle monache e l’oro delle pagode, suscitino soprattutto emozioni
esotiche e curiosità estetica. A Yangon, Mandalay e Sittwe, invece, la
marcia dei birmani ha decretato senza appello che la giunta militare è
«nemica del popolo».

Avvenire 27-9-2007