(Avvenire) Il dovere di dire no

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Ai politici, a tutti

La parola delle occasioni importanti

Dino Boffo

Nel giorno in cui – coincidenza non prevista, credo – papa Benedetto ricorda ai cristiani di tutto il mondo che «il vero magistero è quello impartito dai vescovi», i pastori delle nostre diocesi si pronunciano collegialmente sul tema della famiglia, avendo come riferimento l’«ampio dibattito» in corso attualmente in Italia sull’argomento. Ciò significa che, dopo settimane in cui sono stati mille e mille volte evocati e spesso anche strattonati nell’arena del dibattito pubblico, i vescovi hanno infine deciso di dire una loro parola. Non solo impegnata, com’è scontato che sia, ma anche «impegnativa», come loro stessi si premurano di chiarire. A noi che la leggiamo sembra espressa con grande garbo e senza cattiverie, e il termine non suoni stonato. Spesso, negli ultimi tempi, i vescovi sono stati invitati, più o meno garbatamente, a mostrare soprattutto misericordia, esprimendo prossimità piuttosto che giudizi verso la vita della gente. Quanta dose di malizia sia contenuta in tali rilievi non importa qui verificare. Ci preme invece osservare che nella “nota” resa pubblica ieri è impossibile non percepire che i vescovi parlano realmente per simpatia (in senso etimologico) della vicenda umana. Si approssimano agli interlocutori, uno per uno, e da amici si rivolgono al loro cuore.
Così l’eloquenza dei nostri vescovi acquista immediatamente il tono di chi racconta una storia non solo primordiale ma personale, specie là dove ricorda come «ogni persona, prima di altre esperienze, è figlio, e ogni figlio proviene da una coppia formata da un uomo e una donna. Poter avere la sicurezza dell’affetto dei genitori, essere introdotti da loro nel mondo complesso della società, è un patrimonio incalcolabile… garantito dalla famiglia fondata sul matrimonio, proprio per l’impegno… di fedeltà stabile» che essa porta con sé. Domanda: chi non si riconosce in questo paradigma esistenziale? E perché ciò che è stato sperimentato finora come una fortuna incalcolabile e una garanz ia vitale non dev’essere preservato per il benessere di tutti?
È questo – a me pare – il nocciolo del ragionamento, in base al quale i vescovi ambiscono ad un dialogo di verità con il Paese, compresa la classe politica. Di qui fanno poi discendere una rilevazione quasi sociologica: se al matrimonio si affiancano altri tipi di convivenza, si priva il patto matrimoniale della sua unicità. E dunque, anche al di là delle intenzioni, lo si indebolisce. È arduo infatti sostenere che strumenti giuridici come i pacs, o i dico, non danneggino la famiglia. Se anche non lo suggerisse l’amara esperienza di altri Paesi, ci illumina un’osservazione acuta che riprendiamo dalla testimonianza di una parrocchia (Tolmezzo): conferendo diritti e privilegi ai conviventi, è vero che di per sé non si tolgono diritti e privilegi ai coniugi, però si privano questi diritti e privilegi coniugali del motivo per cui esistono, ossia il patto matrimoniale. In altri termini, l’indebolimento non avviene tanto per qualche offesa esteriore, quanto per il disconoscimento di ciò che sta alla radice della famiglia, quel patto tra uomo e donna che le ha consentito di reggere lungo i secoli, garantendo con ciò il futuro alle generazioni.
La cosa è tremendamente seria. Tale da giustificare quindi il giudizio dei vescovi sulle ipotesi di legalizzazione delle unioni di fatto: «inaccettabile sul piano di principio» e «pericolosa sul piano sociale ed educativo». Espressioni che prima il presidente Bagnasco, e poi i suoi confratelli, non hanno scomodato a cuor leggero, assicurando nel contempo il loro rispetto e la loro sollecitudine verso tutti, comprese le persone omosessuali, per le quali non leggiamo nella nota altre valutazioni se non che, istituzionalizzando le loro unioni, «si negherebbe la differenza sessuale, che è (invece) insuperabile».
A chi si rivolge questa “nota”? Ai cattolici. Ma anche ai non praticanti. Ai cittadini come ai politici. La libertà è sacra, eppure il diritto esiste non per dare copertura a qualunque aspirazione individuale o bizzarria, ma «risposte pubbliche a esigenze che vanno al di là della dimensione privata».
Per tutti questi motivi, un cristiano che sostenesse la legalizzazione delle unioni di fatto sarebbe – scrivono i vescovi – «incoerente». Nel caso si trattasse poi di unioni gay, avrebbe il dovere morale di opporsi anche con il voto.
Il pluralismo culturale è – ovvio – fuori discussione. L’autonomia dei laici pure, poiché essa non può non rinvigorirsi nel confronto serio e veritativo col magistero della Chiesa, e in forza (anche) di questo farsi promotrice «di una visione autenticamente umana».
Chi l’avrebbe detto che ci saremmo impegnati anzitutto non per qualche «impresa cattolica», ma per il futuro dell’umanità dell’uomo?

Avvenire 29-3-2007