(Avvenire) B. XVI certifica la fine del Concilio come Rivoluzione

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La Messa precedente il Concilio

Sollecitudine per l’unità della Chiesa

Camillo Ruini

Dieci giorni fa, al termine dell’incontro dedicato al Motu proprio
sull’uso della liturgia romana anteriore al Concilio Vaticano II,
Benedetto XVI ha voluto illustrare personalmente i motivi che lo hanno
mosso a promulgare questo testo.
Come primo e principale di tali motivi il Papa ha indicato la
sollecitudine per l’unità della Chiesa, unità che sussiste non solo
nello spazio ma anche nel tempo e che non è compatibile con fratture e
contrapposizioni tra le diverse fasi del suo sviluppo storico. Papa
Benedetto ha ripreso cioè il contenuto centrale del suo discorso del 22
dicembre 2005 alla Curia Romana nel quale, a 40 anni dal Concilio, ha
proposto come chiave di interpretazione del Vaticano II non
«l’ermeneutica della discontinuità e della rottura», bensì quella
«della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico
soggetto-Chiesa». Egli non fa valere così un suo personale punto di
vista o una sua preferenza teologica, ma adempie il compito essenziale
del successore di Pietro che, come dice il Concilio stesso (Lumen gentium, n.23), «è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi sia della moltitudine dei fedeli».
Allo stesso modo, nella lettera ai Vescovi con cui accompagna e mette
nelle loro mani il Motu proprio, Papa Benedetto scrive che la ragione
positiva che lo ha indotto a pubblicarlo è quella di giungere ad una
riconciliazione interna nel seno della Chiesa: egli ricorda
espressamente come, guardando alle divisioni che nel corso dei secoli
hanno lacerato il Corpo di Cristo, si abbia «continuamente
l’impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava
maturando, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili
della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione e
l’unità». Da qui deriva per noi «un obbligo: fare tutti gli sforzi,
affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità,
sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla
nuovamente».
Sol
o ponendosi su questa lunghezza d’onda si può cogliere davvero il senso
del Motu proprio e si può metterlo in pratica in maniera positiva e
feconda. In realtà, come il Papa ha spiegato abbondantemente nella sua
lettera, non è fondato il timore che venga intaccata l’autorità del
Concilio e messa in dubbio la riforma liturgica, o che venga
sconfessata l’opera di Paolo VI e Giovanni Paolo II. Il Messale di
Paolo VI rimane infatti la «forma normale» e «ordinaria» della liturgia
eucaristica, mentre il Messale romano anteriore al Concilio può essere
usato come «forma straordinaria»: non si tratta, precisa il Papa, di
«due Riti», ma di un duplice uso dell’unico e medesimo Rito romano.
Giovanni Paolo II, inoltre, già nel 1984 e poi nel 1988, aveva
consentito l’uso del Messale anteriore al Concilio, per le medesime
ragioni che muovono ora Benedetto XVI a fare un passo ulteriore in
questa direzione.
Tale passo ulteriore non è del resto a senso unico. Esso richiede una
volontà costruttiva, e una condivisione sincera dell’intenzione che ha
guidato Benedetto XVI, non solo a quella larghissima maggioranza dei
sacerdoti e dei fedeli che si trovano a proprio agio con la riforma
liturgica seguita al Vaticano II, ma anche a coloro che rimangono
profondamente attaccati alla forma precedente del Rito romano. In
concreto, ai primi è richiesto di non indulgere nelle celebrazioni a
quegli arbitri che purtroppo non sono mancati e che oscurano la
ricchezza spirituale e la profondità teologica del Messale di Paolo VI.
Ai secondi è richiesto di non escludere per principio la celebrazione
secondo questo nuovo Messale, manifestando così concretamente la
propria accoglienza del Concilio. In tal modo si eviterà il rischio che
un Motu proprio emanato per unire maggiormente la comunità cristiana
sia invece utilizzato per dividerla.
Nella sua lettera il Papa, rivolgendosi ai Vescovi, sottolinea che
queste nuove norme «non diminuiscono in alcun modo» la loro autorità e
responsabilità sulla liturgi
a e sulla pastorale dei propri fedeli: come insegna il Vaticano II (Sacrosanctum Concilium,
n.22), ogni Vescovo è infatti «il moderatore della liturgia nella
propria diocesi», in comunione con il Papa e sotto la sua autorità.
Anche questo è un criterio di primaria importanza perché il Motu
proprio possa portare quei frutti di bene per i quali è stato scritto.

Avvenire 8-7-2007