(Avvenire) Alla faccia di chi dice che Al Qaeda non ha motivazioni religiose

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LA STRAGE DEGLI YAZIDI

Se il nuovo fronte di al-Qaeda è il Kurdistan

 

Vittorio E. Parsi

È il più sanguinoso attentato terroristico dopo quello delle Twin Towers di Manhattan, con le cui conseguenze siamo ancora alle prese, a quasi sei anni dall\’11 settembre 2001: oltre 500 morti, un numero imprecisato di feriti e due villaggi ai confini del Kurdistan iracheno letteralmente spazzati via dalla furia omicida di uno dei tanti gruppi affiliati ad al-Qaeda che operano in Iraq.
Le vittime della "strage di ferragosto" appartengono per la quasi totalità agli yazidi, una piccola setta sincretistica la cui religione fonde elementi comuni a zoroastrismo, giudaismo, manicheismo, cristianesimo e islam. Come in altre analoghe occasioni, in Iraq e fuori dell\’Iraq, la magnitudo del massacro è una sorta di firma, con la quale al-Qaeda autentica le proprie azioni. Persino nell\’Iraq degli oltre cento morti ammazzati al giorno, una simile ecatombe ristabilisce le gerarchie tra i seguaci di Benladen e tutti gli altri assassini che operano nel Paese. Ma la scelta dell\’obiettivo ci fornisce qualche elemento in più circa la strategia della galassia che si riconosce nella predicazione violenta del "califfo del terrore".
Aver voluto colpire in maniera così spettacolare una piccola minoranza che da molti esponenti del sunnismo fondamentalista e radicale (ma non necessariamente collusi col terrorismo) è ritenuta eretica ha, innanzitutto, il preciso significato di ribadire la natura della lotta in cui i qaedisti sono impegnati in Iraq. Essa è un jihad, una guerra santa. Non è una guerra di liberazione nazionale, né una guerra contro l\’imperialismo americano. Con la strage di ferragosto i qaedisti hanno voluto riaffermare la cifra della "loro" guerra in Iraq, della loro presenza in quel Paese. E la dimensione della violenza serviva a sottolineare, in termini comunicativi, la capacità di al-Qaeda nell\’imporre la sua guerra su quella di tutti gli altri: sciiti filo iraniani e seguaci dell\’«esercito del mahadi», insorgenti baathisti e guerriglieri sunniti finanziati dai sauditi.
Sono tanti gli attori, interni e internazionali, che giocano la propria partita in Iraq, che combattono ognuno la propria guerra, dove ogni azione militare, ogni attentato, ogni strage di civili, è inevitabilmente funzionale agli scopi degli uni e degli altri, anche quando gli uni e gli altri sono nemici. Al-Qaeda ha battuto un colpo per ricordare a tutti che cosa ci sta a fare in Iraq e qual è il suo progetto, e col clamore della megastrage ha, per un lungo attimo, consentito che il suo distinto progetto fosse nuovamente riconoscibile rispetto agli altri.
I villaggi distrutti sono nella regione di Sinjar, una zona a maggioranza sunnita ai confini del Kurdistan iracheno. A mano a mano che la possibilità di un ritiro americano dall\’Iraq si fa più concreta e vicina, la rilevanza strategica del Kurdistan cresce sempre di più. Non è un mistero che diversi dei piani elaborati al Pentagono prevedono un ridispiegamento temporaneo delle truppe americane proprio nel Kurdistan, da cui potrebbero essere impiegate per azioni mirate «scova e distruggi» proprio nei confronti delle cellule qaediste. Il Kurdistan, con la sua autonomia di fatto, il buon funzionamento delle sue istituzioni e la relativa sicurezza di cui godeva fino a un paio di mesi fa, rappresenta un\’oasi nello sconfortante panorama del resto del Paese e un grattacapo per alcuni potenti vicini. Non è certo casuale che proprio negli ultimi mesi siano aumentati gli attentati nella regione. Alla strage di ferragosto il presidente del Kurdistan iracheno Barzani ha reagito disponendo l\’invio di 350 peshmerga, fatto che ha consentito nuovamente agli arabi sunniti di accusare i curdi di avere mire sul petrolio dell\’area di Mosul, etnicamente mista e contesa tra le due etnie. Ipotizzare che, fissando come prossimo obiettivo strategico la destabilizzazione del Kurdistan, al-Qaeda troverebbe più di qualche interessato spettatore, dentro e fuori l\’Iraq, è fin troppo facile profezia.