(Avvenire) Aborto: la rimozione dalla coscienza

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L’altra sera sul britannico Channel 4

La scossa inattesa aborto in diretta tv

La regista: «Se l’aborto è legale, perché resta un argomento tabù?»
Nell’oscillare della verità secondo il proprio “sentire”, forse una telecamera con il suo obiettivo non fa solo del male

Julia Black è figlia di uno dei fondatori delle prime
cliniche per l’aborto in Gran Bretagna.
Lei stessa ha abortito all’età di 21 anni.
Non è una “pentita”, e non è per mettere in discussione una
delle leggi più permissive d’Europa – interruzione fino alla
24esima settimana – che ha girato un programma andato in
onda l’altra sera su Channel 4, programma che ha scosso
gli inglesi.

“My Foetus” mostra con immagini per quanto possibile
distaccate, quasi da documentario, un aborto compiuto alla
dodicesima settimana.
Non c’è – come riferisce nel giornale la corrispondenza da
Londra – ricerca spasmodica dell’effetto brutale, o
tentativo di choccare a tutti i costi lo spettatore.
Tuttavia, quando la telecamera inquadra un altro feto ma
di 21 settimane, l’immagine è evidentemente un pugno nello
stomaco – un pugno tuttavia oscuramente ripetuto cento
volte ogni giorno negli ospedali britannici, e perfettamente
legale per la legge inglese.

Il senso che la regista Black, pure abortista, ha attribuito
al suo lavoro è:
«Se l’aborto è legale, perché resta un argomento tabù e non
se ne discute quasi mai apertamente? Per questo ho girato
queste immagini».
E c’è del vero: l’aborto resta un argomento culturalmente
proibito.

Le stesse ecografie che commuovono una coppia in attesa di
un figlio, verrebbero vissute come una violenza da una donna
che si prepari a interrompere la gravidanza.
Eppure l’immagine è oggettiva: è lo stato delle cose, è la
realtà si può dire.
Siamo in una cultura in cui l’essere o non essere – quella
creatura – voluta, pare sufficiente a modificarne l’essenza
ontologica: se lo si vuole, è persona, altrimenti non è
niente.

In questo oscillare della verità secondo il proprio
“sentire”, forse una telecamera con il suo obiettivo non
fa solo del male.
Così è se vi pare, e anche se non vi pare: questo è un uomo.

Senza terrorismi o intimidazioni, pacatamente, quasi con
scientifico distacco, come una verità che si dice da sé, solo
a guardarla.

Guardarla, appunto.
Ma guardare, non è così semplice.
Senza gridare alla violenza delle immagini (mentre la
violenza della realtà, che non si vede, è irrilevante),
senza farsi accecare da ideologie per cui è vero solo ciò
che hai deciso prima, e gli occhi dunque ti sono del tutto
inutili.
Stare a guardare, accettare semplicemente un confronto con
un dubbio, può essere già molto.

Due figure, infine, emblematiche percorrono questo
singolare documentario che ha increspato i sonni di una
notte di primavera inglese.
Uno è il medico che procura l’aborto, e che tranquillamente
dichiara di alternare questa attività alle pratiche di
fecondazione artificiale.
Al mattino un paio di aborti, magari alla ventesima
settimana, al pomeriggio alchimie di provette per allestire
a caro prezzo ciò che poche ore prima ha distrutto.
Problemi?
«È il mio mestiere», risponde il dottore, piccolo demiurgo
sereno: eliminarne uno, fabbricarne un altro, si esegue
qualsiasi tipo di lavoro.

L’altra figura significativa, è la regista stessa.
Con un aborto alle spalle certamente doloroso, da pochissimo
madre, appare davanti alle telecamere con la figlia neonata,
e comunque rivendica la sua scelta di un tempo.
Onesta nel sollevare il velo di tabù che copre l’aborto, la
signora Black forse è da troppo poco tempo madre per aver
visto in sua figlia, all’improvviso, l’altro figlio perduto.

Marina Corradi
(C) Avvenire, Giovedi 22 aprile 2004