(Avvenire) 20 anni fa il maritirio di don Jerzy

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Vent’anni fa i servizi segreti comunisti uccidevano padre Popieluszko, che divenne subito il simbolo della Polonia libera

Don Jerzy il resistente


Il cappellano di Solidarnosc aveva solo 37 anni.
Dietro il viso da adolescente, una volontà di ferro e passione per la verità


Luigi Geninazzi
Avvenire 19 ottobre 2004

Per la Polonia fu un momento di grande dolore e di composta fierezza. Per il regime comunista semplicemente l’inizio della fine. Il 19 ottobre di vent’anni fa don Jerzy Popieluszko venne sequestrato e assassinato da tre agenti dei servizi segreti che, dopo averlo massacrato di botte, lo gettarono nelle acque gelide della Vistola. Oggi, sulla strada che da Torun conduce a Varsavia, nel punto dove venne rapito, c’è una croce d’abete con l’immagine della Madonna di Czestochowa. Il giallo inquietante tenne la Polonia col fiato sospeso per due settimane. A dare la notizia del rapimento fu l’autista di don Jerzy, Waldemar Chrostowski, un ex paracadutista che riuscì a saltar fuori dall’auto dei sequestratori e a dileguarsi nel bosco. Per lunghi giorni si continuò a sperare che «il cappellano di Solidarnosc» fosse ancora vivo. Fino a quando, il 27 ottobre, il capitano dagli occhi di ghiaccio Grzegorz Piotrowski confessò: «L’ho ucciso io, con le mie mani». Il corpo verrà poi ritrovato nel lago artificiale formato dalla diga di Wloclawek, un centinaio di km a nord di Varsavia. Lo choc fu immenso ma la nazione polacca lo affrontò senza cedere alla rabbia o alla violenza, memore delle parole che padre Jerzy soleva ripetere: «Dobbiamo vincere il male col bene». Chi era don Popieluszko? «Un fanatico politico, un Savonarola dell’anti-comunismo, un tipico esempio del clericalismo militante» l’aveva definito il portavoce del governo Jerzy Urban (oggi editore di una rivista porno-satirica). Il suo nome, insieme con altri sacerdoti vicini a Solidarnosc, stava su una lista nera che venne sottoposta alle autorità ecclesiastiche in vista di una espulsione. Per don Jerzy si profilava un periodo di studio a Roma, lontano dagli operai delle acciaierie Huta Warszawa ai quali era stato assegnato come cappellano dopo l’agosto 1980, data di nascita del libero sindacato. Ma intervenne il Vaticano e don Popieluszko rimase al suo posto. Aveva solo 37 anni ed era già diventato un simbolo per i polacchi, nonostante l’aspetto modesto e il fisico malaticcio. Era un puro di cuore che dietro il viso da adolescente nascondeva una volontà di ferro e una passione incondizionata per la verità. Non era un politicante, anzi si mostrava fin troppo schivo e riservato. Quando una volta gli chiesi un’intervista rifiutò decisamente: «Sono solo un povero prete. Se vuol sapere come la penso venga a sentire quel che dico ai fedeli». Era lì, nella chiesa affollata all’inverosimile di san Stanislao Kostka, nel quartiere operaio di Zoliborz a Varsavia, che don Jerzy una volta al mese celebrava la «Messa per la patria», una tradizione che risaliva all’Ottocento quando la Polonia senza Stato difendeva la sua identità rifugiandosi sotto il manto della Chiesa cattolica. «Poiché con l’instaurazione della legge marziale (introdotta nel dicembre 1981, ndr) ci è stata tolta la libertà di parola, ascoltiamo la voce del nostro cuore e della nostra coscienza» diceva, invitando i polacchi «a vivere nella verità dei figli di Dio, non nella menzogna imposta dal regime». Oltre che di grande coraggio il piccolo don Jerzy era dotato di humour. A conclusione delle Messe per la patria chiedeva ai fedeli di pregare «per coloro che sono venuti qui per dovere professionale», mettendo in imbarazzo gli spioni del Sb, il servizio di sicurezza, che in chiesa si trovavano a loro agio come un sordomuto a un concerto rock. Avevano deciso di fargliela pagar cara. Iniziarono con le minacce, seguirono con le perquisizioni che portarono alla “scoperta” di materiale esplosivo in canonica e all’ordine d’arresto per il «prete sovversivo». Lui manteneva il suo sorriso triste da fanciullino. Fino a quando, la notte del 19 ottobre, gli maciullarono la bocca dopo avergli fracassato il cranio a colpi di manganello. Un delitto compiuto con ferocia bestiale, raccontato nei macabri dettagli dagli assassini nel corso di un drammatico processo. I mandanti non furono mai giudicati. Gli imputati vennero condannati ma ebbero la pena ridotta e sono già usciti tutti dal carcere. È triste ammetterlo, ma sembra che i crimini efferati di quel regime siano rimasti sepolti sotto le macerie del comunismo. Don Jerzy invece continua a vivere: sulla sua tomba si recano in pellegrinaggio milioni di persone che lo venerano come il testimone della resistenza morale e spirituale della nazione polacca. Dal 1997 è in corso la causa di beatificazione che sembra ormai vicina alla conclusione. Eroe della libertà e testimone della fede, don Popieluszko ci appare come «l’autentico profeta dell’Europa, quella che afferma la vita attraverso la morte», ha detto Giovanni Paolo II. Un messaggio più che mai attuale a vent’anni dal suo martirio.