Abbasso Zapatero

  • Categoria dell'articolo:Pubblicazioni

Sharing is caring!

 Intervento dell’ on. Alfredo Mantovano al convegno:
«Il dovere dell’identità»
organizzato dalla Fondazione Magna Carta.
Roma 17 dicembre 2005

Quando si parla di identità, vengono in considerazione un profilo individuale e un profilo comunitario, tra loro strettamente collegati. L’analogia fra il corpo umano e il corpo sociale non è nuova: la società può essere facilmente descritta come un uomo in grande.


Sul piano individuale, ciascun uomo è chiamato a perfezionare sé stesso operando nella realtà sulla base di un determinato codice di comportamento. Questo codice è uguale per tutti, ma ciascun uomo vive il suo percorso in modo personale e unico: e in ciò manifesta la sua particolare identità. La mia identità, come quella di ciascuno di voi, deriva da fattori biologici, storici, culturali e mi configura singolarmente come un essere unico e irripetibile.


Lo stesso vale per le comunità. Ogni società deve avere come orizzonte il bene comune, ma ognuna lo persegue secondo dinamiche proprie ed inimitabili.


Qual è l’identità italiana? L’Italia esiste da quasi un millennio come unità culturale e linguistica, sulla base di una eredità romana maturata in un complesso mosaico di lingue e di stirpi. Questa straordinaria varietà, così densa di particolarismi, ha sempre avuto, e ha tuttora, un collante, che va riconosciuto nella sua oggettività (a prescindere dalla confessione religiosa di chi opera il riconoscimento): e il collante è costituito dal fatto che in Italia c’è Roma e a Roma c’è il Vicario di Cristo.


In Italia l’eredità greca e l’eredità romana, grazie all’opera di San Benedetto, dei suoi monaci e di chi ha proseguito il loro lavoro, si sono fuse e hanno dato luogo all’autentico spirito europeo. Tutta la storia e tutta la cultura italiana sono impregnate di cristianesimo e sono intimamente intrecciate col cammino della Chiesa; per lo meno da quando un signore che si chiamava Pietro, intrapresa la via Appia per fuggire da Roma, fu fermato e si sentì dire: ma dove stai andando? Il tuo posto è lì, torna indietro!


Quest’intreccio si legge nelle opere d’arte che riempiono ogni angolo della nostra terra, lo si vive, magari inconsapevolmente, nelle tradizioni, negli usi, nelle consuetudini…


Questa nostra identità somiglia a un grande affresco, bello, ricco, pieno di particolari interessanti, in cui spiccano tre colli: quelli sui quali si fonda la nostra civiltà e la civiltà europea. I tre colli sono il Golgota, il Partenone e il Campidoglio. Gerusalemme, con la fede nel Dio unico; Atene, con la filosofia dell’essere; Roma, col suo diritto radicato nella realtà. Quest’affresco ha patito nel corso dei secoli – soprattutto negli ultimi due secoli – una serie di attacchi, dall’esterno e dall’interno. L’affresco si è deteriorato con il tempo, è stato in parte coperto da pitture posticce che ne hanno deturpato la bellezza. Ma in un giorno abbastanza vicino a noi ci si è resi conto che quest’affresco meritava un restauro e un rilancio: il giorno in questione è l’11 settembre 2001.


Fino alle 3 del pomeriggio dell’11 settembre 2001 sembrava che del dibattito attorno all’identità dovessero interessarsi solo gli addetti ai lavori. L’11 settembre ha fatto da spartiacque, ci ha fatto cogliere che cosa era in gioco. Ma c’è un 11 settembre italiano, e cioè il 12 novembre 2003, che ci ha fatto capire che la posta in gioco attraversa anche la nostra carne e il nostro sangue di italiani.


Davanti ai corpi dei nostri Caduti a Nassiriya, il Vicario del Papa a Roma ha pronunciato parole chiare, nelle quali ci siamo riconosciuti tutti, anche in questo caso a prescindere dalla confessione religiosa di appartenenza, e a prescindere dall’appartenenza a una confessione religiosa. Ha detto, in sintesi: a) che la tragedia di Nassiriya ha fatto sorgere “dal cuore del nostro popolo” “la sua profonda unità e la consapevolezza del suo comune destino”; b) che la “nostra amata Patria” continua a impegnarsi in “grandi e nobili missioni”, e a ritrovare al proprio interno generosità ed energie da spendere per esse; c) che l’Italia riceve una eredità importante, suggellata dal sangue dei suoi stessi figli, e che di questa eredità come italiani tutti dobbiamo confermaci degni; d) che uno dei modi per esserne degni è combattere il terrorismo.


Dall’11 settembre 2001 e dal 12 novembre 2003 il tema della nostra identità ha iniziato a tenere banco anche sulle colonne della carta stampata. Abbiamo avuto un sussulto, che ci ha indotto a considerare con maggiore attenzione le nostre radici. Abbiamo cominciato a capire che un nemico così determinato e così pericoloso come il terrorismo di matrice islamica non lo si combatte, né tanto meno lo si vince, se non si è forti di una identità solida e reale, e soprattutto viva. E non c’è solo il terrorismo: penso, per fare un esempio fra i tanti, alla possibilità che il “film” visto nelle banlieues parigine e francesi sia replicato in casa nostra. In Francia esistono ghetti etnicamente o religiosamente omogenei con maggioranza di disoccupati, che come tali rappresentano materiale esplosivo; ma, fra tante etnie e religioni, ci sarà pure una ragione per la quale esplodono solo i ghetti musulmani: perché solo in essi esiste il detonatore rappresentato da imam e organizzazioni ultrafondamentalisti.


Ma l’identità non è soltanto qualcosa da riscoprire, a causa di uno scossone storico che ci ha svegliato dal nostro torpore; e non è soltanto qualcosa da tutelare, come ciascuno di noi prova a fare con la propria abitazione, quanto installa il sistema d’allarme o la porta blindata. Il dovere dell’identità impone di non giocare solo in difesa, di non elaborarla soltanto “in negativo”, ma di formulare delle proposte, di ragionare “in positivo”.


Sono quattro, a mio avviso, i cardini sui quali lavorare, le ruote motrici che consentono all’identità di avere una stabilità e di andare avanti. Sono fra loro strettamente correlati: la difesa della vita, la tutela della famiglia, la libertà di educazione e la libertà dal terrorismo. Nel mio intervento vorrei soffermarmi per cenni sul legame che esiste fra queste ruote motrici.


Il diritto alla vita merita rispetto sempre, qualunque sia l’età e la condizione della vita: è il presupposti di tutti gli altri beni e di tutti gli altri diritti. E’ l’antidoto più autentico rispetto a ogni tentazione totalitaria, per una logica elementare: se si accetta di principio che un essere umano sia soppresso perché troppo piccolo (ha pochi mesi o poche settimane di vita rispetto al concepimento), e quindi perché ha un “deficit di tempo”, non vi è nessuna ragione di principio per non sopprimerlo quando è troppo anziano, e quindi ha un “deficit di energia”: non è un caso se alla rivendicazione del “diritto di aborto”, che si è riascoltata in questi giorni, si affianca la rivendicazione del “diritto di morire”, per riprendere il titolo di un libro che comincia ad avere successo e diffusione. Seguendo l’identica logica, non vi è alcuna ragione di principio per sopprimere un essere umano che ha un “deficit di capacità”, cioè è portatore di handicap. E se si accetta di principio che un essere umano possa essere manipolato perché è piccolo, e non se ne accorge nessuno – e per questo può essere utilizzato come insieme di pezzi di ricambio per altri – non vi è nessuna ragione di principio per curarlo quando è anziano: non si sprecano soldi per una macchina vecchia, la si dà alla rottamazione (versione meccanica dell’eutanasia)… Ma questa è la descrizione di uno stato totalitario, nel quale l’uomo viene ridotto a strumento: questo stato è totalitario anche se si vota e se c’è una formale democrazia.


Difendere la famiglia come è descritta dalla nostra Costituzione – “società naturale fondata sul matrimonio” – non è una battaglia di retroguardia: una famiglia solida garantisce la trasmissione ai figli di una identità chiara. Una famiglia solida è in grado di svolgere la sua funzione educativa; è in grado di esercitare il diritto a una libera scelta di istruzione e di formazione; è in condizione di dire alla scuola alla quale ha iscritto i propri figli: pretendo per i miei figli il rispetto dell’identità italiana; pretendo che forniate loro spirito critico, che non gli imponiate pseudo verità filosofiche o storiche a senso unico, che nelle aule resti il crocifisso e non sia sostituito dal distributore automatico di preservativi.


C’è chi ha colto opportunamente un link fra la difesa della vita, dal concepimento fino al termine naturale, e la determinazione nella lotta contro il terrorismo di matrice islamica. Non che chi la pensa diversamente, sia disinteressato al rischio di trovarsi il kamikaze tra i banchi di un mercato o nel bar o sull’autobus; vi è però una minore disponibilità a un contrasto più articolato, anche culturale. Chi è contrario ad aborto ed eutanasia è convinto che esistano delle verità sulla vita umana e sulla sua dignità sulle quali non si può trattare. Parallelamente, i cittadini più attenti alla sfida terroristica ritengono che la vita umana debba essere difesa in ogni modo possibile e senza compromessi. Il desiderio di difendere la vita dalla minaccia del terrore si salda col desiderio di tutelare la vita da un altro tipo di pericolo.


Accogliere la vita, a qualsiasi stadio dell’esistenza, ha dei costi personali e impone dei sacrifici. Combattere fino in fondo il terrorismo ha dei costi personali e impone dei sacrifici. Non essere disponibili a pagare i costi e a sostenere i sacrifici connessi alla tutela della vita delle persone più indifese rende più deboli e più arrendevoli nella lotta al terrorismo. Vale anche la prova contraria: la vittoria della sinistra in Spagna, dopo una campagna elettorale che ha visto la partecipazione attiva dei terroristi, è stata seguita sia dalla rapida successione di leggi contrarie al diritto alla vita e alla famiglia, sia dal ritiro dei soldati spagnoli da un fronte importante nella lotta al terrorismo. E non è un caso se la sinistra italiana prospetta contestualmente, nell’ipotesi di vittoria alle prossime politiche, il ritiro del nostro contingente dall’Iraq e l’introduzione dei pacs…


Noi italiani, in modo talora implicito, talora confuso, abbiamo mostrato di cogliere questo collegamento: quando, nei giorni successivi al 12 novembre 2003, davanti all’Altare della Patria ci siamo messi in fila per ore, senza essere spinti da nessuno, per rendere omaggio ai nostri Caduti, abbiamo sottolineato la concreta vicinanza dell’intera nazione alla sventura che aveva colpito i propri figli, ma abbiamo sottolineato anche la partecipazione alla ragione ultima del sacrificio. E il 13 giugno di quest’anno abbiamo dato la risposta nota all’appello dei referendari.


La vittoria sul terrorismo è collegata alle vittorie del fronte pro-life: si sorreggono a vicenda. L’energia che può liberare una battaglia per la vita seria, ragionata, non superficiale, non urlata, è un capitale da spendere per la difesa della nostra pace minacciata dal terrorismo di matrice islamica.


Un corpo sociale distratto e svogliato sulla difesa della vita innocente non può trovare in sé le energie per affrontare gli anni, se non i decenni, di sacrifici che richiede una guerra di lungo periodo contro il terrorismo. Una classe dirigente non può essere distratta e svogliata su questi fonti. Non lo è in questo momento la classe dirigente degli USA. Non può esserlo in Italia, in particolare, la classe dirigente di centrodestra. Che non può ignorare, né può facilmente archiviare, fatti straordinari come ciò che è accaduto il 13 giugno di quest’anno: quel giorno il fronte libertario e relativista ha subito un trauma.


Quel giorno i resti di quello che era uno dei più potenti eserciti mediatici del mondo, che si era schierato in forze per far capitolare la legge sulla fecondazione artificiale, hanno risalito in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza: firmato non Diaz ma popolo italiano. Il trauma per i laicisti sta in quella quota 75 di non voto al referendum. Dopo qualche settimana di sbandamento, la terapia per riaversi è stata individuata in una sorta di rivincita, che passa contemporaneamente dalla negazione o dalla limitazione di diritti naturali e da manifestazioni apertamente antireligiose. Si spiega così la moltiplicazione di proposte che ci martellano dalla fine dell’estate: dai pacs alla RU 486 fino al rilancio dell’eutanasia. Ma si spiega anche l’aumento di decibel contro l’ingerenza della Chiesa nelle questioni temporali e il grido in difesa della laicità dello Stato.


Questi attacchi hanno singoli obiettivi immediati, ma finiscono per incrinare le basi della nostra identità. Lo dico anzitutto ai miei amici e colleghi di partito e di coalizione. E’ evidente che su temi così delicati è illusorio puntare all’unanimità; e ci mancherebbe altro qualcuno negasse la libertà di coscienza. Ma il problema è capire se un partito politico, o uno schieramento nel suo insieme, debbano rinunciare a pronunciare parole chiare, e ad assumere le responsabilità conseguenti, su questioni di tale peso per la vita di ciascuno di noi.


E anche se, come ci viene spesso ricordato, la coscienza è l’ultima istanza di giudizio, giova completare il quadro e far presente che ogni giudizio consiste nel porre a confronto un fatto concreto con una regola chiamata a valutarlo: da mihi factum, dabo tibi jus. Il tribunale della coscienza svincolato da una legge da applicare non produce giudizio ma arbitrio. Neanche la coscienza è svincolata da quelle regole essenziali, che chiamiamo diritto naturale, il cui rispetto integrale assicura l’esatta considerazione dei diritti di tutti. Questo è tanto più importante in un regime democratico, perché – come ha insegnato Giovanni Paolo II e come insegna Benedetto XVI – se la democrazia si disancora dal diritto naturale si trasforma in tirannia del relativismo e conduce alla perdita della propria identità.


Piaccia o meno, le decisioni connesse a questi temi non costituiscono un problema da rimuovere, o da nascondere sotto la coltre della coscienza. Rappresentano una opportunità per riattivare la stessa politica, quella con la p maiuscola; ma anche per dare slancio e forza a uno schieramento politico; e quindi per ritrovare quell’animo grande che permette di superare ogni possibile divisione. Chi ha dimestichezza con gli scritti di Antonio Gramsci (un soggetto che ha dato un contributo importante alla lotta contro l’identità italiana) sa quanto il fondatore del Pci studiava in modo scientifico le fratture delle realtà che percepiva come ostili, e ne sfruttava ogni minima crepa.


Dovremmo essere così intelligenti da evitare che gli agenti del relativismo possano fare altrettanto con noi. Il dovere dell’identità impone il dovere di una unità effettiva attorno ai principi che connotano l’identità e una solidarietà di testa e di cuore fra coloro che la perseguono.


Ho sempre in mente i versi di un pastore protestante, Martin Niemoller, tanto più toccanti in quanto chi li ha scritto è morto nel campo di sterminio di Dachau: “Prima vennero per gli ebrei, e io non dissi nulla perché non ero ebreo. Poi vennero per i comunisti, e io non dissi nulla perché non ero comunista. Poi vennero per i sindacalisti, e io non dissi nulla perché non ero sindacalista. Poi vennero a prendere me. E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa”. Noi oggi ci ritroviamo qui perché possiamo, e quindi dobbiamo, dire qualcosa.


E se c’è stato chi ha pensato di sintetizzare in uno slogan, che è diventato un film – “W Zapatero” -, tutto ciò che si può fare di più ostile e di più dannoso per la nostra identità, non credo che sorgano incidenti diplomatici se, capovolgendo il medesimo slogan, e quindi volendo voler fare un riferimento simbolico, senza nulla di personale, concludo dicendo che noi siamo qui per dire chiaro e forte “Abbasso Zapatero”.


Che la Provvidenza ci aiuti!