(30 giorni) Intervista al teologo del Papa, Cottier

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«Se tutto è grazia, non c’è più grazia»



«La cosa che mi sembra più utile è la capacità di distinguere, propria di tutta la tradizione tomistica. La rinuncia a distinguere ciò che è distinto porta alla confusione e nega quello che magari in principio si voleva difendere. Se tutto è grazia, non c’è più grazia». Intervista con il cardinale Georges Cottier, teologo del Papa


di Gianni Valente

     Lo studio del domenicano Georges Cottier, teologo della Casa pontificia e oggi anche cardinale, è alla prima loggia del Palazzo apostolico. Per arrivarci si attraversa il Lapidarium, un corridoio con migliaia di cippi votivi e antiche lapidi, intere o a frammenti, murate lungo le pareti. Sarà il silenzio immoto, e le guardie svizzere che aprono i cancelli, e le antiche epigrafi in latino e greco incise nei pezzi di marmo: tutto concorre comunque a dare l’impressione che ci si trovi in uno dei luoghi più riservati e “protetti” del Vaticano.


     Pare che una volta, un po’ per provocarlo, una giornalista gli abbia chiesto come si sentiva a vivere e a lavorare qui, «nel cuore dell’ultima monarchia assolutista ancora esistente». «Io sono repubblicano» rispose Cottier senza enfasi. Perché aiutare il successore di Pietro a svolgere il suo compito è roba da uomini liberi, non da cortigiani. Lo testimonia tutta la vita di questo ottantaduenne svizzero, che ha visto da vicino molte delle vicende – esaltanti o tormentate, confortanti o desolanti – attraversate dalla Chiesa dalla Seconda guerra mondiale a oggi. E che da quasi quindici anni svolge con rigore professionale e dedizione missionaria il delicato lavoro di “correttore di bozze” sui generis a cui è stato chiamato (è lui che rilegge e dà il nihil obstat teologico-dottrinale a quasi tutti i testi firmati dal Pontefice regnante. «Dei testi del Papa io non scrivo niente. Io correggo soltanto», dice di sé).


     Perdoni la domanda scontata: cosa fa, per mestiere, il “teologo del Papa”?


     GEORGES COTTIER: È una figura che esiste dal medioevo. Salvo tre o quattro casi eccezionali, in cui papi francescani hanno scelto teologi francescani, per il resto la carica è sempre stata affidata ai domenicani. Per questo mi trovo qui. Nei secoli passati, quando la corte papale si spostava per lunghi periodi, come durante i soggiorni a Orvieto o a Viterbo, questi teologi, chiamati “maestri del Sacro Palazzo”, davano probabilmente lezioni di teologia per tutta la corte. Adesso il lavoro consiste nel rileggere quasi tutti i testi del Santo Padre, esclusi quelli di carattere diplomatico, per dare su di essi un giudizio teologico. Il Papa si fa aiutare da parecchi collaboratori, e bisogna essere attenti a parecchie cose. Primo, occorre curare l’armonizzazione dei testi. Se la fonte è differente, bisogna ridare ai testi l’impronta dello stile del Papa. Occorre garantire anche la chiarezza dei testi, perché tutto ciò che dice o scrive il Papa deve poter essere compreso da tutti i fedeli, e non dare pretesto a malintesi. Inoltre, anche il Papa nel suo magistero deve attenersi a certi criteri. Non è bene ad esempio che il Papa si pronunci su problemi che sono ancora oggetto di discussione teologica, perché se lui interviene su tali argomenti, vuol dire che su quel tema non c’è più discussione. Dunque il lavoro non manca.


     Quali sono i documenti più impegnativi che le è capitato di supervisionare?


     COTTIER: Se ritorno ai primi anni, il primo testo “grosso” che ho avuto tra le mani è stata l’enciclica sociale Centesimus annus. E poi la Ut unum sint sull’ecumenismo, l’enciclica morale Veritatis splendor, e la Fides et ratio… anche il Catechismo della Chiesa cattolica, che per me è uno dei frutti più belli di questo pontificato, e non è stato ancora assorbito nella sua ricchezza. Per questo ora sta per essere pubblicato il compendio a domande e a risposte.


     Quale di questi documenti ha avuto la genesi più “laboriosa”?


     COTTIER: Ricordo un lavoro molto lungo per la Veritatis splendor, di cui ho visto almeno cinque versioni. Il Papa ci riuniva in lunghe sessioni di lavoro per rileggere le bozze che si susseguivano.


     Ci può raccontare un caso in cui è intervenuto a correggere un testo del Papa?


     COTTIER: Ricordo uno dei primi testi che ho visionato. Era il discorso a un’Opera di beneficenza ricevuta dal Papa, che non conoscevo e ora nemmeno ricordo. Lo schema del discorso del Papa era stato un po’ preparato da loro. Nel testo il Papa si congratulava con loro per il fatto di aver proclamato una domenica per la loro Opera. Insomma, il Papa diveniva quasi uno sponsor pubblicitario di tale iniziativa. Mi sembrò una cosa da evitare, non tanto per motivi di stretta dottrina, ma di semplice prudenza.


     A proposito di sponsorizzazioni “papali”, sembra che qualcuno abbia provato a ottenerle anche per il noto film di Mel Gibson sulla Passione di Cristo.


     COTTIER: Sono stato invitato a una proiezione prima che il film uscisse nei circuiti cinematografici, ma ho deciso di non andare. La sofferenza fisica di Cristo è stata tremenda, come quella di tutti i condannati alla croce, che a quel tempo erano tanti. Ma in lui, vero Dio e vero uomo, nella sua anima, in virtù della sua persona divina unita col Padre, c’era la sofferenza propria del Servo di Dio, di cui parla il profeta Isaia. Questo mistero della sofferenza sui generis di Cristo non vedo come possa essere rappresentato dalla finzione filmica. Nella tecnica cinematografica c’è un’immediatezza che non vedo nella pittura o nella scultura. Perché il pittore mantiene una certa distanza, e in questa distanza si può inserire la preghiera e la meditazione. La pittura rispetta e riflette meglio il mistero. Confesso che l’immediatezza del cinema mi fa problema.


     Eppure intorno al film si è coagulata una curiosa mobilitazione di sigle ed esponenti cattolici.


     COTTIER: Ho saputo che il cardinale Lustiger ha detto: al film preferisco l’icona. E all’icona preferisco il sacramento…


     Torniamo al suo lavoro. Gli innumerevoli interventi papali suscitano processi di emulazione nei Palazzi vaticani. Documenti, istruzioni, vademecum prodotti a getto continuo.


     COTTIER: Alcuni vescovi dicono di non avere neanche il tempo di leggere tutto quello che viene prodotto dalla Santa Sede e dai dicasteri romani. Io distinguerei la posizione del Papa. Gli scritti di Giovanni Paolo II occupano tutto quell’armadio. Per quelli di Paolo VI bastano quei due scaffali [indica le raccolte ordinate nel suo studio, ndr]. Se si torna indietro a Pio XI, i testi ufficiali sono pochissimi. Per le udienze e gli incontri pubblici Pio XI non scriveva quasi mai niente di ufficiale. Parlava a braccio. Ma adesso non si può più. Anche perché c’è sempre in agguato qualche registratore, i giornali poi scriverebbero comunque secondo la loro interpretazione quello che ha detto il Papa, costringendo magari la Santa Sede a smentire, in caso di segnalazioni inesatte. Per cui, anche quando riceve un piccolo gruppo, si deve avere sempre un testo, magari breve, ma che sia ufficiale e faccia autorità. Questo va a discapito della spontaneità. Se c’è una persona spontanea è l’attuale Pontefice, e questo meccanismo deve essere anche per lui una specie di penitenza. Ma non può sottrarsi, e noi con lui. Anche perché c’è una pressione a cui si deve far fronte. Fino agli anni Sessanta si viaggiava molto meno. Adesso tutti vengono a Roma, tutti i congressi vogliono l’udienza del Papa…


     Ma, appunto, non è solo il Papa che “produce”…


     COTTIER: Il Concilio ha portato alla creazione di nuovi dicasteri romani, che prima erano pochissimi. Tutti i dicasteri, con motivi più o meno congrui, ci tengono a fare documenti, talvolta voluminosi. Si ha l’impressione di un’invasione di carta che talvolta finisce per nascondere contenuti che spesso sono validi. È una questione di ritmo di digestione, se permette questa trivialità. Ed è una questione che pone interrogativi, e che forse va ripensata. È uno sviluppo normale? Del resto, tutto il mondo davanti allo sviluppo dei media ha dei problemi nuovi, e andranno affrontati anche nella Chiesa.


     Davanti a così tanti pronunciamenti si ripropone la delicata questione sul grado di autorevolezza dei singoli interventi e sul grado di assenso dovuto.


     COTTIER: Va tenuto presente il paragrafo 25 della Lumen gentium, dove si dice che a seconda della materia trattata si può riconoscere in ogni pronunciamento il grado con cui il papa stesso impegna la sua autorità. Ad esempio, nell’Evangelium vitae, laddove si parla di aborto e eutanasia, anche se non si tratta di una definizione infallibile in senso proprio, il Papa parla come rappresentante autorizzato del magistero della Chiesa. L’autorità della Chiesa è impegnata in queste cose. Si tratta del magistero ordinario.


     Su queste cose, nell’immaginario collettivo, circolano parecchi equivoci. Ad esempio sull’infallibilità del papa.


     COTTIER: Ricordo una discussione che ebbi a Ginevra con un pastore protestante, che confondeva l’infallibilità con l’impeccabilità. Come se il primato petrino preservasse il papa dalle conseguenze del peccato originale. Il papa è un uomo come gli altri. Supponiamo che un papa pecchi gravemente: per tornare in grazia di Dio anche per lui l’unico modo è il sacramento della confessione, come per tutti. Sono delle ovvietà, ma ormai la confusione è tale che suonano come novità straordinarie.


     E allora forse conviene ripeterle.


     COTTIER: L’intervento del carisma di infallibilità avviene solo entro circostanze precise. Come viene definito dal Concilio Vaticano I, il compito del papa non è manifestare nuove dottrine, ma custodire, esporre e difendere ciò che è già contenuto anche se in maniera implicita nel depositum apostolico, ossia le verità rivelate oggetto di fede. E la rivelazione si è compiuta con la morte dell’ultimo apostolo. In questo esporre fedelmente la fede degli apostoli, l’assistenza dello Spirito Santo è assoluta e garantisce l’infallibilità delle definizioni. Non è che il papa dichiari infallibili sue idee o opinioni personali…


     Questo comporta un certo “restringimento di campo”…


     COTTIER: Ci sono definizioni infallibili solo in materia di fede e di morale. Se per esempio il papa fa una diagnosi su un problema che tocca la cultura o la politica, l’infallibilità non può certo essere chiamata in causa.


     Lì si entra nel campo delle decisioni prudenziali…


     COTTIER: Pio XI, parlando delle conseguenze del Trattato del Laterano, si chiedeva: «Che sarà domani?… Non sappiamo». Nel mutevole flusso delle circostanze storiche, una decisione che può apparire opportuna, magari qualche tempo dopo potrebbe non esserlo più. Qualcuno ne deduce che la Chiesa si contraddice. Ma il più delle volte si coglie il desiderio dei pastori di decifrare quelli che anche La Pira, dopo papa Giovanni e il Concilio, chiamava i «segni dei tempi».


     Su questo il suo maestro Journet ha scritto pagine molto belle, ad esempio in Théologie de l’Église


     COTTIER: Lì spiegava che l’assistenza divina promessa alla Chiesa «si limita talvolta ad assicurare la sua esistenza fisica ed empirica», non risparmiando «né le prove, né i tentennamenti, né gli errori di governo». Perciò giudicava comprensibile la libertà con cui anche storici come Ludwig von Pastor, «cui non sono mancate le approvazioni pontificie, hanno potuto dare un giudizio retrospettivo sul carattere felice o disastroso della politica dei papi».


     In questa prospettiva, non è forse legittimo e utile distinguere il primato del successore di Pietro – così come lo ha voluto Gesù Cristo e come è stato definito dalla Chiesa – da interpretazioni in chiave di egemonia mondana che di tale primato sono state date nel corso della storia, anche nella Chiesa?


     COTTIER: Avere uno sguardo critico sulle vicende ecclesiali non vuol dire essere distruttivi. La Chiesa ha sempre insegnato che essere papa o vescovo è un servizio. Ma quando l’autorità del papa sulla Chiesa veniva contestata anche dai principi cattolici, è accaduto che si sentisse la necessità di affermare che i ministeri ecclesiali fossero poteri legittimi come gli altri. E ci sono forse ancora residui di questa confusione nelle apparenze.


     Per fare un esempio concreto: leggendo le proposizioni condannate dal Sillabo, un semplice fedele poteva essere indotto a pensare che negare il potere temporale di papi equivalesse a negare il primato petrino.


      COTTIER: E invece al tempo del Concilio Vaticano II il cardinale Montini, che era arcivescovo di Milano, ha potuto affermare che la fine dello Stato Pontificio è stata per la Chiesa una liberazione. Ma magari lo stesso Montini, se si fosse trovato nelle circostanze di Pio IX, avrebbe vissuto i suoi stessi tormenti di coscienza. Perché papa Mastai, come persona, semplicemente non si sentiva in diritto di liquidare lo Stato pontificio, che non considerava come proprietà privata, avendolo ereditato dai suoi predecessori. A volte Dio ci libera di alcuni pesi in una maniera dolorosa.


     Sgombrare il campo da equivoci che confondono il papato con una sorta di imperium sacro potrebbe favorire anche i rapporti ecumenici con quelle che alcuni chiamano le Chiese sorelle. Da dove occorre partire?


     COTTIER: Occorre sempre tener presente che il magistero è un servizio e, in quanto tale, uno strumento. La finalità della Chiesa è la salvezza del mondo. La funzione del magistero nella Chiesa, che comincia con il custodire la verità rivelata e con la guida quotidiana del popolo di Dio, si giustifica in vista di questo fine. E questo determina i criteri e i modi con cui si esercita l’auctoritas nella Chiesa. Ma approfitto della domanda per dire che l’espressione “Chiese sorelle” non mi convince. La Chiesa è una. Altra cosa è se si parla di “Chiese locali”. Questa formula può essere usata correttamente. Quando Paolo VI, vescovo di Roma, incontra Athenagoras, vescovo di Costantinopoli, sono due capi di Chiese locali che si incontrano. Anche Giovanni Paolo II sottolinea spesso il fatto di essere papa in quanto vescovo di Roma. Qualche tempo fa ha parlato anche in romanesco!


     Il suo itinerario umano e cristiano è così poco “curiale”. Cominciamo da quando era ragazzo: la Francia occupata, le riviste cattoliche censurate, e lei, con qualche suo amico, a fare la vostra piccola “resistenza”…


     COTTIER: Ginevra è vicina alla Francia. Siamo di cultura francese. L’occupazione della Francia fu uno shock terribile. Io stavo finendo il liceo. Con un amico carissimo leggevamo Temps présent, una rivista cattolica prima legata ai domenicani, la cui redazione dopo l’occupazione di Parigi aveva ripiegato su Lione. Il direttore era Stanislas Fumet. Lo invitammo a Ginevra. Ci raccontò come era la vita in Francia, la censura e tutto il resto. Ci spronò a prendere qualche iniziativa. Cominciammo a pubblicare dei testi liberi che in Francia erano vietati. Ne uscì una collana bellissima, i Cahiers du Rhône. Fumet era devoto del santuario della Salette. Una volta, ottenuti i permessi, riuscimmo a organizzare un pellegrinaggio a quel santuario e lì ci incontrammo con lui.


     Nella sua vocazione domenicana c’entra più san Tommaso o san Domenico?


     COTTIER: Forse più san Tommaso. Facevo l’università. Avevo una zia monaca domenicana, e questo ha contato molto. Poi proprio Journet mi ha fatto conoscere l’opera di Maritain. Ero in contatto anche con padre Domenach, un ebreo convertito, grande amico di Journet, che stava a Friburgo. Dentro questo ambiente e questi incontri è maturata la mia vocazione.


     In un suo breve profilo curato dal professor Chenaux è scritto che quella generazione fu segnata dalla condanna da parte di Pio XI dell’Action française, il movimento che voleva restaurare la società sulla base dei valori cristiani.


     COTTIER: Fu un trauma che segnò soprattutto la generazione precedente alla mia, e che lascia tracce ancora oggi. Molti cattolici favorevoli a Petain erano ex dell’Action française. Maritain pure passò di lì. La moglie Raïssa spiega nei suoi libri di memorie che il loro padre spirituale, padre Clerissac, ne faceva quasi un dovere religioso. Sembrava una scelta ovvia. La situazione era per certi versi simile ad oggi. Un momento di confusione. La gente non sa dove siamo, c’è molta decadenza morale, e si propongono i contenuti cristiani come fattori di un ordine etico. Tanti aderivano a questa prospettiva. Il gruppo di Lefebvre ancora oggi per certe cose si muove nel solco dell’Action française.


     Ma anche oggi c’è tutto un ampio fronte che esalta il cristianesimo come matrice culturale dell’Occidente. Basta pensare ai teorici neoconservatori che influenzano la geopolitica statunitense. Non c’è anche qui, in forme più raffinate, un ritorno di categorie simili a quelle dell’Action française?


     COTTIER: L’Action française era una questione tipicamente cattolica, della Francia cattolica. Dietro alcune teorie sulla missione storica degli Stati Uniti la principale radice culturale è un certo fondamentalismo protestante, a tinte escatologiche, dove si coltiva una visione geopolitica che guarda alla fine dei tempi, e in cui una delle chiavi del problema è il ruolo dello Stato d’Israele. Un’ideologia politico-religiosa fortissima, che ha indubbiamente pesato. Ma anche in Europa certe esaltazioni del cristianesimo come fattore di civilizzazione non mi convincono. Mi ha colpito la polemica sul crocifisso sviluppatasi in Italia nei mesi scorsi. Quando anche alcuni cattolici hanno detto che la croce è importantissima anche per chi non crede, come simbolo culturale. Ma no! Quella è la croce di Gesù! Che il cristianesimo abbia anche delle conseguenze culturali, siamo tutti d’accordo. Ma il cattolicesimo non è un fatto culturale. C’è un certo conservatorismo che fa confusione.


     Riviene in mente un concetto che lei già esprimeva nel ’69 in un articolo su Nova et Vetera: la religione come instrumentum regni è l’altra faccia della religione come oppio dei popoli.


     COTTIER: Maurras, uno dei fondatori dell’Action française, era un positivista. Esaltava il cattolicesimo come la “religione dei francesi”. Quello che gli interessava era la Francia, non il cattolicesimo né la Chiesa. È un atteggiamento che troviamo anche nell’illuminismo. Voltaire mandava i suoi domestici alla messa. Pensava che la religione fosse utile a tenere buono il popolo. La concezione di un Maurras e anche di un Mussolini, che aveva letto Maurras, è questa. Ma Dio è già tagliato fuori. Cristo non interessa. Non dobbiamo essere ingenui. È facile accorgersi di chi nega esplicitamente Dio. Ma chi lo utilizza, lo offende gravemente. È più insidioso.


     Veniamo alla sua amicizia con Jacques Maritain. Come lo conobbe?


     COTTIER: Negli anni dal ’46 al ’52 mi trovavo a Roma, all’Angelicum, per frequentare i corsi di teologia e filosofia. A quell’epoca Maritain era ambasciatore della Francia presso la Santa Sede. Conoscevo le sue opere. Entrai in contatto con lui (presentato da Journet). Ricordo di un pranzo a Palazzo Taverna, dove Maritain aveva come ospiti anche il padre Garrigou-Lagrange, che aveva criticato per questioni politiche il filosofo tomista, il quale ne aveva molto sofferto.


     Dell’approccio filosofico di Maritain cosa le sembra più utile riproporre oggi?


     COTTIER: La capacità di distinguere, propria di tutta la tradizione tomistica, che Maritain riprende. La rinuncia a distinguere ciò che è distinto porta alla confusione e nega quello che magari in principio si voleva difendere. Se tutto è grazia, non c’è più grazia. Uno dei pericoli, che registro ad esempio nella teologia delle religioni, è di attribuire in maniera univoca allo Spirito Santo tutto il religioso. Ci sono valori umani religiosi molto rispettabili, ma non vuol dire che sono salvifici. Sono di un ordine diverso rispetto alla grazia di Cristo che salva. Forse a volte la distinzione tra grazia e natura è stata presentata male, come se fosse sovrapposizione della grazia sulla natura. Che non è mai il pensiero di Tommaso. La grazia opera dal di dentro della natura. Ma la natura ha la sua consistenza propria.


     Questo vale ad extra. Ma lei registra confusione anche all’interno della teologia cattolica?


     COTTIER: Ad esempio un certo “pancristismo” non mi sembra appropriato. Un sistema teologico che assorbe tutta le realtà in Cristo finisce per fare di Cristo una sorta di postulato metafisico dell’affermazione di valori umani. E ci rende incapaci di fare dialogo serio, anche a livello dei diritti dell’uomo. E poi, dire che tutti sono già di Cristo, lo sappiano o no, può rendere inutile la missione.


     E allo stesso tempo può esprimere una pulsione all’intolleranza e all’egemonia. «L’idea che tutti siamo cristiani senza saperlo mi sembra un imperialismo religioso», ha detto una volta Ratzinger.


     COTTIER: Non si nasce cristiani. Si nasce ebrei, si nasce musulmani. Cristiani si diventa, con il battesimo e la fede. Perciò il cristianesimo è disarmato. È un’inermità divina. Perché non si fabbricano cristiani, come si possono suscitare appartenenti ad altre religioni, col solo metterli al mondo. Ogni bambino deve fare lui il passo, nessuno lo può fare al posto suo. L’ambiente, la catechesi, potranno aiutarlo. Ma nessuna condizione sociologica può sostituire l’attrattiva che è dono della grazia, che fa aderire la libertà personale.


     Buona parte della sua vita lei l’ha passata a studiare Marx. Come le è accaduto di imbattersi nel filosofo di Treviri?


     COTTIER: I superiori, finiti gli studi ecclesiastici, mi hanno chiesto di fare una tesi all’Università di Ginevra, dove avevano aperto un nostro nuovo convento. Molti dei miei compagni di studi erano stati presi dal comunismo. Adesso non si può neanche più immaginare il fascino del comunismo a cominciare dal dopoguerra. E poi mi interessava capire il rapporto tra il marxismo e l’ateismo. Su questo ho concentrato i miei studi.


     E cosa ha scoperto?


     COTTIER: Ho colto che la radice dell’ateismo di Marx era tutta in Hegel. Come è stato detto da Karl Löwith, la filosofia di Hegel è un’imponente «cristologia gnostica». Hegel proprio mentre esalta al massimo la rilevanza culturale del cristianesimo per il cammino della civiltà, nega la fede degli apostoli in Gesù. Nel suo orizzonte Cristo interessa solo come idea, come divino modello. Di Gesù come figura storica, sensibile, non sa che farsene. Kierkegaard, che per me è un grande, aveva capito tutto questo.


     In quegli anni lei incrociò anche l’esperienza dei preti operai, essendo amico di uno di loro, Jacques Loew…


     COTTIER: Loew all’epoca era un domenicano. Gli erano vicini Magdaleine Delbrel e i Piccoli fratelli di Charles de Foucauld a St-Maximin. Lo conobbi lì. Poi ho frequentato la sua missione operaia. Lui mi interrogava sulle mie conoscenze del marxismo. L’autorità dell’Ordine lo colpì in una misura esagerata, senza sufficiente discernimento. Alcuni preti operai si erano gettati nell’attivismo sindacale, avevano preso la tessera di partito. Alcuni singoli casi hanno compromesso la causa. Ma lui aveva sempre distinto l’impegno missionario dall’impegno politico. E l’intuizione di andare dentro ambienti scristianizzati, partecipando alla vita ordinaria della gente, mi sembra ancora oggi un atteggiamento missionario. Vivevano da poveri. Erano lavoratori veri.


     Le sue frequentazioni col marxismo spiegano anche la sua attiva partecipazione ai famosi “dialoghi” organizzati dopo il Concilio dal Segretariato per i non credenti.


     COTTIER: La seduzione del marxismo non l’ho mai sentita. Un amico nella diplomazia francese, che stava in Russia al tempo della guerra, mi aveva raccontato la realtà terribile del comunismo, e questo mi aveva vaccinato per sempre. Ma allora sembrava che i regimi comunisti fossero destinati a durare. I dialoghi coi marxisti si sono sbloccati davvero quando sono apparse le prime crisi interne del comunismo. Lì si è anche visto che i comunisti non erano tutti uguali. Ad esempio, i tedeschi dell’est erano i più duri, gli ungheresi i più disponibili. A Strasburgo, era già cominciata l’epoca di Gorbaciov, hanno cominciato ad aprirsi. È stato molto interessante, si vedeva che si ponevano delle domande esistenziali sincere.


     Sempre per le sue competenze marxiane lei partecipò attivamente anche al dibattito sulla teologia della liberazione.


     COTTIER: Nella teologia della liberazione c’era allora una contaminazione forte con temi marxisti. Che minacciava di esaurire tutta la speranza cristiana in interpretazioni politiche e sociologiche. È interessante vedere l’evoluzione di padre Gutierrez, che adesso è diventato un originale autore spirituale latinoamericano. Mentre all’inizio tutti loro subivano l’influenza di autori europei.


     Nel 1984 e nel 1986 la Congregazione per la dottrina della fede pubblicò le due famose istruzioni sulla teologia della liberazione. Non c’è stato, in quegli anni, un eccesso di accanimento nei confronti di quella tendenza teologica?


     COTTIER: Tanti di loro si erano buttati sul marxismo senza senso critico. C’era bisogno di una correzione. Ma il frutto di quel dibattito è stata l’opzione preferenziale per i poveri. Dalla dialettica è emersa questa sintesi positiva.


     Ultima domanda. Lei, come presidente della Commissione storico-teologica istituita per il Giubileo del duemila, ha coordinato il lavoro preparatorio per la richiesta di perdono delle colpe del passato, voluta dal Papa per la Quaresima dell’ultimo Anno santo. Come giudica quella vicenda, che nella Chiesa ancora suscita controversie?


     COTTIER: Qualcuno ha voluto dire che era un nuovismo. Ma la Chiesa ha sempre saputo che il peccato esiste. All’inizio di ogni messa diciamo il mea culpa per i nostri peccati. Non tutto quello che si fa a nome della Chiesa è Chiesa. Questo discernimento, e la richiesta di perdono, io li considero tra le più importanti sottolineature dell’attuale pontificato.


30GIORNI – Marzo 2004