26 settembre 2010 – Domenica XXVI del tempo ordinario

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DOMENICA VENTISEIESIMA DEL TEMPO ORDINARIO

LETTURE
Prima: Am 6, 1.4-7
Seconda: 1Tim 6, 11-16
Vangelo: Lc 16, 19-31

NESSO TRA LE LETTURE
Tempo ed eternità sono come i due poli che ci possono servire per organizzare i testi di questa domenica. Ciò è evidente nel testo evangelico, che situa il ricco Epulone e Lazzaro prima in questo mondo, e poi nell’eternità. Implicitamente, si trova anche nella prima lettura, secondo la quale i ricchi samaritani vivono in orge e lusso, dimentichi del futuro giudizio di Dio. Per vivere degnamente nel tempo, e raggiungere l’eternità con Dio, la fede viva in Cristo offre una garanzia sicura (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

1. Giocarsi l’eternità nel tempo. Per noi che abbiamo fede nell’eternità, il tempo è un tesoro, una vera ricchezza, perché in esso si mette in gioco la nostra situazione nell’aldilà del tempo. La parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro non sottolinea il problema della differenza tra ricchi e poveri. Accentua, piuttosto, il giudizio di Dio, nell’eternità, sull’atteggiamento verso la ricchezza e la povertà. Il ricco che in questo mondo si dedica a banchettare e a spassarsela, disinteressandosi dei poveri, vedrà tristemente cambiata la sua sorte nell’aldilà. Così accadde al ricco Epulone. Il povero, che in questa vita accetta serenamente la sua condizione, senza lamentele e senza odi, sarà ricompensato nell’eternità con la grande Ricchezza che è Dio stesso. Ciò è quello che accadde al povero Lazzaro. Il primo, per sua disgrazia, vive come se l’eternità non esistesse. Il secondo, per il suo bene, è un povero di Javeh, che ha posto la sua fiducia nella ricompensa che Dio gli darà nella vita avvenire. Al ricco Epulone non si imputa il fatto di essere ricco, ma quello di essere privo di misericordia, il fatto di non avere cuore per chi giace piagato alla sua porta. Lazzaro non lo si ricompensa per la sua condizione di povertà, ma per la sua pazienza e rassegnazione, allo stile di Giobbe. Epulone pone la sua ricchezza al servizio della sua sensualità ed intemperanza, Lazzaro pone la sua povertà al servizio della sua speranza. Gesù Cristo nella parabola ci insegna che nell’eternità – se non già nello stesso tempo della vita – Dio farà giustizia e retribuirà ciascuno secondo le sue opere. Questo insegnamento deve illuminare anche la nostra vita presente, in modo che possiamo parlare anche di giocarci il tempo nell’eternità. Cioè, il pensiero del mondo futuro ci condurrà ad essere giusti e solidali nel mondo presente. Il contrario succede ai ricconi della Samaria, che, disinteressandosi del futuro e dimentichi della sorte della loro patria, vivono "sdraiati sui loro letti d’avorio, mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli della stalla, bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati" (prima lettura).

2. Fede – tempo – eternità. Paolo esorta Timoteo, uomo di Dio, credente e cristiano autentico, a fuggire da queste cose. Quali sono codeste cose? L’avidità, l’affanno delle ricchezze, l’appetito di denaro. Deve fuggire perché "noi non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via" (cf 1Tim 6,7 e ss). Lo esorta poi a "combattere la buona battaglia delle fede" in questa vita per poter raggiungere la vita eterna, in cui regna Gesù Cristo, il Re dei re e il Signore dei signori. La fede è come la dimora in cui il cristiano vive già l’eternità nel tempo, e il tempo nell’eternità. Poiché vive l’eternità nel tempo, "tende alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza nella sofferenza, alla mitezza" (seconda lettura). Poiché vive il tempo nell’eternità, cerca con sincerità di cuore di onorare Dio e di dargli gloria. Amos, da parte sua, ci insegna che c’è una fede erronea, una falsa fiducia nel culto e nella religione, simboleggiate nel monte Garizin e nel monte Sion, come se il culto, isolatamente, fosse sufficiente per ottenere la salvezza. La sola fede religiosa non produrrà mai automaticamente la salvezza, quando con essa si copre indegnamente ogni sorta di ingiustizie e di disordini della vita. In definitiva, l’eternità è assicurata unicamente per coloro che vivono una vita di fede, che agisce per mezzo della carità.

SUGGERIMENTI PASTORALI

1. La ricchezza, oggetto di servizio. Nel catechismo leggiamo: "I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano". Questa affermazione è "assoluta" e non è sottomessa al cambiamento di epoche o di mentalità, al progresso tecnico o alla globalizzazione economica. D’altra parte, ci sono sempre state nella storia umana delle differenze nel possesso dei beni e delle risorse, sono sempre esistiti e continueranno ad esistere "ricchi e poveri". E, infine, in non poche occasioni queste differenze provengono da grandi ingiustizie che hanno attraversato tutta la geografia del nostro pianeta. Davanti a questi fattori, noi cristiani abbiamo una grande opera e missione da realizzare tra i nostri fratelli, gli uomini. Il primo compito, senza dubbio, è quello di relativizzare la ricchezza. Non è un dio, al quale dobbiamo rendere un culto a spese del povero e del bisognoso. È un bene, ma non è l’unico né il supremo. Un bene che sta nelle nostre mani, che è stato dato da Dio a ciascuno di noi, ma che non è interamente nostro, cioè, non possiamo farne ciò che vogliamo, perché il suo destino è universale. E con questo già appare il secondo compito: "La ricchezza ci è stata data per servire, non per dominare" e in questo modo fare più liberi coloro che ne mancano. L’inclinazione dell’uomo a dominare sugli altri è ancestrale e potentissima. Per questo, la ricchezza – tra molte altre cose – può essere pericolosa, perché è come una sirena, che possiede l’incanto del dominio e del potere. Come cristiani, saremo i primi a vivere il vangelo della povertà. Saremo per tutti un esempio e un richiamo al fatto che il denaro o serve l’uomo o non serve a nulla, almeno agli occhi della fede, agli occhi di Dio.

2. L’avidità, peccato contro l’eternità. L’avido ha soltanto occhi per il tempo presente, che immagina lungo come i secoli. Vorrebbe mettere l’eternità nel tempo, ma si rende conto che è impossibile. Reagisce, allora, prescindendo da essa, afferrandosi sempre più saldamente alla roccia sabbiosa del presente. L’avidità, si può affermare senza ombra di dubbio, è una passione che si annida in ogni cuore umano. L’accumulare, il possedere di più, l’aver fame di beni e di mezzi, il vivere con maggiori comodità, non è estraneo a nessun mortale: cristiani o non cristiani, credenti o atei, sacerdoti, religiosi o laici. Non che tutto ciò in se stesso sia peccato, ma quando la tendenza si trasforma in passione e la vita intera si calcola solo nell’accumulare, nell’avere, nel vivere comodamente, allora il peccato dell’avidità ti ha già schiavizzato. In effetti, per l’avidità l’uomo pecca contro la povertà, perché il suo cuore, invece di essere posto in Dio, suo Bene supremo, si è prostrato davanti al dio insaziabile ed effimero del denaro. Pecca contro la povertà, perché le sue ricchezze non gli servono per servire, ma per soddisfare una passione. Pecca contro il disegno di Dio, che ha dato a tutti i beni di questo mondo un destino universale. E ha lasciato agli uomini di ogni epoca e generazione il compito di portarlo a compimento. Non dovranno, molti di noi cristiani, realizzare una vera "conversione" alla povertà evangelica? Non dovremo liberarci da molti attaccamenti e catene pecuniarie, che ci tolgono libertà per vivere l’autenticità del Vangelo? Riuscirò a convincermi che la povertà di cuore è il cuore della povertà, ed è sorgente cristallina di pace e di fraternità? Povero di cuore, e di vita, come Madre Teresa di Calcutta, al fine di essere una benedizione di Dio per gli uomini!